En passant:
Avete notato che le spontanee ondate di poveri che arrivano in Italia con gli scafisti chiamati da Alarm-Phone sono cessate? Chi le ha ordinate per creare il problema al governicchio Meloni, provocare un altro naufragio-strage e accusarlo di inumanità, e sta in Italia e a sinistra – valuta pericoloso , se lo rifà, essere accusato di complicità con la Wagner e quindi additato alla NATO come strumento di Putin. Ovviamente la Wagner non c’entra…
Lo scrivo qui come preludio alla rievocazione del caso Moro fatta dal generale LaPorta. Direte: che c’entra?
Oggi Paolo Mieli, il principe dei Signori del Discorso, sulla tv Rai 3 ha commemorato il caso Moro ovviamente secondo la versione ufficiale, ossia ignorando la parte avuta dagli “americani” nell’assassinio.
Anche il generale LaPorta , stranamente, collega i naufragi dei “poveri extracomunitari che fuggono dalla fame e dalla guerra” pagando 10 mila euro a testa, al caso Moro e a ben altro.
Stragi in Mare, come gli Attentati degli Anni ’70. Fini Politici. Laporta.
L’indebolimento degli Stati nazionali consente a entità non-Stato, alimentate da capitali privati, d’influenzare la vita dei cittadini nel verso favorevole a chi investe, a nessun altro. Strumenti preferiti di questi poteri sono l’«orrore» e il «terrore». un tempo fu un metodo riconducibile agli Stati.
Facciamo alcuni esempi.
Portella della Ginestra, 1° Maggio 1947. È in apparenza la spallata che dovrebbe aprire le porte all’indipendentismo siciliano. In realtà, Londra non ci voleva nella NATO, ma esigeva uno “jus primae noctis” sui nostri affari; una strategia più antica di Trafalgar. Grazie a S.S. Pio XII, ad Alcide De Gasperi e a un Dipartimento di Stato più saggio dei tempi attuali, il 4 Aprile 1949 entrammo nella NATO e la nostra indipendenza fu in gran parte recuperata.
Le undici vittime di Portella della Ginestra furono sacrificate per questi crimini politici.
Piazza Fontana, 12 Dicembre 1969. Precedenti, Settembre 1969. Aldo Moro e il Servizio Informazioni della Difesa (SID) favoriscono l’ascesa di Muammar Geddafi, defenestrando il filoinglese re Idris.
Risposta anglosassone il 12 Dicembre 1969. Cinque attentati in 53 minuti, a Roma e a Milano. Nella capitale, con 16 feriti, furono colpiti piazza Venezia, la Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio e l’Altare della Patria. Altre bombe non esplosero al tribunale di Torino, alla Corte di Cassazione, alla Procura Generale di Roma e al Tribunale di Milano.
La bomba più devastante fu collocata alla Banca dell’Agricoltura di Milano, causando 17 morti e 88 feriti. Questa bomba fu raddoppiata da una manina non tanto misteriosa, sulla quale le indagini sono tuttavia vaghe.
Renato Curcio (https://bit.ly/3l0Vd5a) dichiarò: «Piazza Fontana e l’omicidio Calabresi sono andati in un certo modo e, per ventura della vita, nessuno più può dire come sono realmente andati. C’è stata una sorta di complicità tra noi e i poteri che impedisce ai poteri e a noi di dire che cosa è veramente successo».
Renato Curcio (quel che lui definisce “noi”) era un comunista. I “poteri” sono le sue parti avverse, cioè l’Alleanza Atlantica. La doppia bomba a piazza Fontana fu per metà d’un fronte e per metà dell’altro; risultato: tutti zitti, «sono stati i fascisti». I vertici fascisti italiani, pur conoscendo la posta, si prestarono al gioco.
Le connessioni fra servizi inglesi e sovietici non sono mai state approfondite, col chiarire il ruolo di Kim Philby, dei servizi inglesi, spia indisturbata dei sovietici per 27 anni, dal 1936 al 1963, nel corso dei quali costituì una quantità tuttora imprecisata di reti in tutti i paesi NATO, alcune delle quali mai venute alla luce.
La rete di Philby fu in posizione ideale, nel corso della Guerra Fredda, per inquinare gli obiettivi britannici, intossicandoli con quelli sovietici, anche raddoppiando la bomba di piazza Fontana.
Comunque sia andata, piazza Fontana mise in crisi il centro sinistra e obbligò Aldo Moro a cercare nuovi equilibri.
Via Fani, il 16 Marzo 1978. È l’atto terroristico più trasversale e più insozzato di falsità della storia d’Italia, come ho dimostrato nel mio recente libro (Raffiche di Bugie a Via Fani https://amzn.to/3LfAvZV). Esso ebbe tre scopi convergenti: interdire il Quirinale ad Aldo Moro, consentire al PCI il sottogoverno e aprire la strada alla c.d. “finanza laica”, asservendo la Banca d’Italia a interessi stranieri.
Potrei continuare con un’infinità di esempi. Ora i tempi sono cambiati. Le stragi in mare hanno sostituito gli attentati catastrofici che segnavano i passaggi politici. Papa Francesco esordì con il naufragio di Ottobre 2013 a Pantelleria e il celeberrimo «Vergogna!» (https://bit.ly/3LlbUmA).
Il 26 Febbraio un barcone con 180 persone a bordo si è sfracellato su una secca davanti alla costa ionica calabrese, a poco più di un miglio dal porto turistico Le Castella dove avrebbe potuto approdare in piena sicurezza. Prima della catastrofe gli scafisti hanno impedito ai disgraziati di inviare telefonate per chiedere soccorso. In altre parole, gli scafisti hanno cercato e ottenuto una strage premeditata. Da tutta Italia sono immediatamente confluiti a Cutro attivisti del “lasciamoli entrare senza condizioni”. In testa al corteo un pregiudicato per sfruttamento degli immigrati. Si è sentita l’assenza dell’onorevole Aboubakar Soumahoro, noto per la sua sollecitudine verso i fratelli immigrati.
L’evento politico in coincidenza con la strage è l’insediamento del nuovo segretario del PD. È certamente una coincidenza, come dubitarne?
Cristo Vince, nonostante le coincidenze.
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[…] Il dominus di Palazzo Caetani, nel 1978, è un appartato nobile inglese che ha preso in moglie Lelia Caetani ….
Igor Markev e il caso Moro
Notizie tratte da: Giovanni Fasanella, Giuseppe Rocca, La storia di Igor Markevič. Un direttore d’orchestra nel caso Moro, Chiarelettere 2014, pp. 487, 16,90 euro. Vedi Libro in gocce in scheda: 2363682 Vedi Biblioteca in scheda: 2308950 •
«In guerra assai più che non in pace tutto si lega ed è destinato a durare» (Raimondo Craveri, La campagna d’Italia e i servizi segreti, 1980). • «Perché proprio lì, in via Caetani? Perché le Brigate rosse abbandonarono la Renault con il corpo di Aldo Moro in pieno centro a Roma, nel punto più presidiato di una città in stato d’assedio? La mattina del 9 maggio 1978 l’opinione pubblica non fece neanche in tempo a porsi la domanda che i notiziari, insieme all’annuncio dell’assassinio, avevano già dato la risposta. Moro – martellarono radio e televisione – era stato trovato “giusto a metà strada” fra le sedi del Pci e della Dc: con quel cadavere, le Br avevano voluto inserire un cuneo simbolico tra i due partiti. Quell’interpretazione, subito avallata anche da autorevoli opinionisti, divenne ben presto la verità ufficiale: una verità tanto ribadita da resistere per oltre vent’anni. Via Caetani, però, non si trova tra via delle Botteghe Oscure e piazza del Gesù, dov’erano allora i quartier generali del Pci e della Dc. Basta dare un’occhiata a una qualunque piantina di Roma. (…) Una banale svista topografica, certo.
Tutt’altro che banale, però, l’effetto che ha prodotto. Col senno di poi, si può dire che quell’errore, spostando tutta l’attenzione sulla lettura politica dell’azione terroristica, ha contribuito a oscurare il luogo in cui è stato trovato il cadavere». • «Oggi sappiamo, infatti, che gran parte della vicenda Moro si svolse proprio attorno a quella via. Sappiamo che, se il povero corpo dello statista democristiano venne abbandonato sotto le spesse inferriate di Palazzo Caetani, non fu per un calcolo politico dei brigatisti, ma per tutt’altre ragioni. E sappiamo che quelle ragioni, nascoste troppo a lungo sotto la coltre di un impenetrabile segreto, vanno ricercate fra i misteri di quel palazzo, nelle biografie dei suoi inquilini e frequentatori, tra le relazioni che vi si sono intrecciate nel corso di quasi un secolo».
«L’autopsia e i risultati delle perizie scientifiche, del resto, stabilirono fin da subito che il presidente democristiano era stato ucciso praticamente sul posto e che la sua ultima prigione doveva trovarsi a non più di cinquanta metri. Che ci fosse uno stretto legame tra quel luogo e il sequestro, lo dimostra anche il fatto che, Moro ancora vivo, il Sismi ne cercasse la prigione proprio a Palazzo Caetani. Ed era arrivato lì seguendo il filo di un nome, quello insospettabile e famoso del direttore d’orchestra Igor Markevič. Ma il servizio segreto non si era spinto oltre quella soglia. E, per vent’anni, di quelle indagini non si è saputo mai nulla».
«Nella primavera del 1999, quando il nome del Maestro di origine russa venne per la prima volta collegato pubblicamente al caso Moro, si disse addirittura che fosse lui il Grande Vecchio delle Br, l’inquisitore che aveva interrogato l’ostaggio dentro la prigione del popolo. (…) Ma quell’ipotesi tanto clamorosa si rivelò ben presto fragile e poco credibile. E, infatti, il senatore Giovanni Pellegrino, allora presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo, non tardò a correggerla. Nel libro-intervista Segreto di Stato, pubblicato l’anno dopo da Einaudi, attribuì al direttore d’orchestra un ruolo assai diverso, anche se non meno sorprendente: quello del “misterioso intermediario”, entrato in scena nella fase più critica del sequestro, quando le rivelazioni di Moro ai suoi carcerieri trasformarono improvvisamente il caso in un esplosivo affare internazionale».
• «L’ostaggio non aveva parlato solo della corruzione italiana, ma anche dei piani militari della Nato e, soprattutto, del più sensibile dei segreti atlantici: l’esistenza della rete Stay-behind e della sua filiazione italiana, Gladio. Un segreto che andava difeso a ogni costo. Secondo Pellegrino, il “misterioso intermediario” era riuscito a disinnescare gli effetti delle rivelazioni e a portare Moro a un passo dalla salvezza. Ma, sul filo di lana, il colpo di coda di qualcuno aveva capovolto l’esito di una trattativa laboriosa, nella quale erano stati coinvolti i servizi segreti di mezzo mondo».
• «Questa ipotesi ha ricevuto autorevoli avalli. Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca del sequestro, in una pubblica dichiarazione giudicò complessivamente “limpida e onesta” la ricostruzione di Pellegrino. Paolo Emilio Taviani, custode di molti misteri italiani e fondatore di Gladio (con Enrico Mattei e lo stesso Moro), pur gravemente malato, volle incontrare il presidente della Commissione stragi nella sua casa romana nel quartiere Trieste. E, in una lunga e piacevolissima conversazione, tenne a dire che l’ampio scenario delineato in Segreto di Stato era “preciso, credibile ed equilibrato”. Anche l’ammiraglio Fulvio Martini, per molti anni direttore del Sismi, invitò a casa Pellegrino. Sul suo tavolino, una copia del libro, gonfia di post-it e zeppa di appunti a margine, ne rivelava un’accurata e partecipata lettura. “Ammiraglio – gli chiese scherzosamente il senatore, – quanto avrò capito di quello che è successo in Italia? Sarò almeno al quaranta-cinquanta per cento?” Martini sorrise: “Quaranta-cinquanta per cento? Molto di più: siamo almeno al novanta”».
• «L’ipotesi avanzata da Pellegrino sul ruolo di mediatore svolto da Markevič nel caso Moro si iscrive, dunque, in un contesto di altissima plausibilità, ma apre a sua volta mille nuovi interrogativi.
Perché affidare un compito così delicato a un musicista e non, per esempio, a uno sperimentato diplomatico o a uno scaltro uomo di intelligence? Chi gli commissionò quella operazione? Perché, seguendo Markevič, si arriva a Palazzo Caetani, proprio nel luogo dove si è consumato l’ultimo atto di quella tragedia? Un direttore d’orchestra, una storica dimora romana, una formazione armata: che cosa tiene insieme questo strano triangolo? Quali segreti, insomma, nasconde la biografia di Markevič? (…) Sotto le molteplici fasi di quell’esistenza, si intravede un filo rosso che dalla Parigi degli anni Trenta porta dritto al caso Moro: solo attraversando quelle lontane vicende, a prima vista estranee al sequestro del presidente democristiano, è possibile trovare la spiegazione e la giustificazione del ruolo di un musicista come Markevič in quella trattativa così complicata».
• «Guardando Markevič con la lente d’ingrandimento, infatti, nel corso dell’indagine si dilatano contemporaneamente anche gli sfondi: il microcosmo degli emigrati russi in Svizzera, costretti a vivere col passaporto Nansen degli apolidi, ma visceralmente attaccati alla patria perduta; i salotti parigini degli anni Trenta, brulicanti di diplomatici e spie, occultisti e avventurieri, regine della mondanità e regine vere, grandi massoni e grandi banchieri, ambigui artisti e non disinteressati mecenati, politici potenti e più potenti faccendieri; la Firenze occupata dai nazisti e pullulante di partigiani e agenti segreti alleati, incaricati di agire dietro le linee nemiche; la Roma del dopoguerra, con il suo cuore pulsante proprio a Palazzo Caetani, e quella violenta degli anni Settanta; una Monaco e la sua principessa Grace Kelly soffocate da strani intrighi…».
• Come quelle di Icaro, personaggio con il quale Markevič ha sempre sentito una profonda affinità, «anche le ali di Igor prendono fuoco nei punti più alti del volo: ora per aver troppo osato, come quando smette di comporre perché, forse, si sente inadeguato a mete eccessivamente alte; ora per l’accanimento della sorte, che lo colpisce, al culmine della sua fama, nel punto più prezioso per un musicista, l’udito. Sul finire degli anni Settanta, però, quando la sordità sembra averlo tagliato fuori dai grandi circuiti, all’improvviso e del tutto inaspettatamente, gli si presenta la possibilità non solo di rientrare in gioco, ma anche di realizzare il suo capolavoro segreto: la trattativa intorno alla salvezza e ai documenti di Moro. A offrirgli questa occasione è, forse, una chiamata, che gli giunge da Palazzo Caetani. E proprio qui finiscono con l’annodarsi tutti i fili che hanno legato Markevič ai coprotagonisti della sua storia».
• «Da oltre un secolo questa massiccia costruzione, attorno alla quale si salda il labirinto di fabbricati della cosiddetta Insula Mattei, è una sorta di Farnesina occulta. Negli anni vi hanno trovato ospitalità numerosi diplomatici, alti rappresentanti di ordini cavallereschi, istituti internazionali, sedi coperte di servizi segreti, logge massoniche. E l’Insula sembra, in qualche modo, la monumentalizzazione della storia stessa dei Caetani. (…)
Il dominus di Palazzo Caetani, nel 1978, è un appartato nobile inglese che ha preso in moglie Lelia, figlia di Roffredo e Marguerite. È così diventato parente di Igor che, a sua volta, ha sposato Topazia, cugina di Lelia. (…) È Sir Hubert Howard, che è già stato partner di Markevič in un’altra trattativa segreta, condotta a Firenze durante la guerra. Potrebbe essere lui, ora, il potente Signore di Gladio: proprio il guardiano, cioè, che deve sorvegliare su quell’ordine che le rivelazioni di Moro hanno rischiato di scardinare». • Al musicologo Michele Dall’Ongaro, amico di gioventù del figlio Oleg Caetani, Igor Markevič sembrava «un druido», «un monaco», «un personaggio assolutamente magico»: «Comunicava un grande senso di controllo e di sobrietà. Era oculato nel denaro (ma non avaro: capace, anzi, anche di grandi generosità), parco nel mangiare… salvo quando si trattava di After Eight.
Per quei cioccolatini alla menta aveva una passione smodata!». • «“Grande e freddo controllo di una passionalità sfrenata”: in questo Dall’Ongaro individua il punto di forza di Igor Markevič, paragonandolo a “una centrale atomica sotto pressione”. “Un uragano controllato” annota il musicologo André Cœuroy sulle pagine di “Beaux-arts”. Markevič, dunque, come un ossimoro. L’opposizione o la conciliazione (magari armata e in equilibrio instabile) di forze conflittuali è il filo rosso che serpeggia in tutte le testimonianze sul “Markevič degli altri”, come lo stesso Igor definiva il Markevič che si offriva al pubblico dal podio». • «Lo stesso Markevič, del resto, su un dépliant degli anni Quaranta preparato dalla sua agenzia artistica, aveva voluto inserire il lapidario giudizio di un periodico tedesco (l’“Utrechtsch Nieuwsblad”): “Ora diabolico, ora angelico, egli ci rivela la scintilla del genio”. Si accettava, dunque, in questa ambivalenza? Nei suoi scritti viene spesso ribadita la consapevolezza di questa intima pluralità. Arriva perfino a dichiarare di aver “conosciuto tutto, tranne la coerenza” o a rivendicare “una sorta di bisessualità, caratteristica di ogni natura creatrice”». • «Un aristocratico d’altri tempi, coltissimo, raffinato, seducente, al quale avevano obbedito le orchestre più prestigiose del mondo, al quale era toccata in sorte l’amicizia o la frequentazione dei nomi più sonori del Novecento. Quest’uomo, già assiduo frequentatore dei salotti più esclusivi, amava arroccarsi in una semplice casa su uno strapiombo, sopra Saint-Cézaire-sur-Siagne, in Costa Azzurra (ma nell’entroterra, sulle Alpi Marittime), cui si arrivava senza macchina, remota come un castello o un eremo. A fare cosa? A scrivere, soprattutto. “Scrivere era la cosa che amava di più” dice Oleg». Markevič scrisse infatti due autobiografie, a distanza di molti anni l’una dall’altra: la prima, Made in Italy, nel 1948, la seconda, Être et avoir été, nel 1980. Ne sarebbe dovuta seguire una terza, sui suoi ultimi anni di vita, ma la morte improvvisamente sopraggiunta il 7 marzo 1983 gli impedì di scriverla, o di pubblicarla. • «Quest’uomo così evidentemente imperscrutabile è il primo a interrogarsi continuamente sul suo stesso enigma. “Un uomo non è, forse, prima di tutto, il suo vocabolario? Conoscere la storia del mio sarebbe come possedere la chiave di questa costruzione misteriosa che sono io. Anche a me, come a voi lettori, è purtroppo negato il potere di decifrare che cosa ci diciamo, l’universo e io”. (…) “Un segreto istinto mi suggerisce talvolta che io non sarò vissuto che in funzione di un capitolo finale, che darà valore e giustificazione agli altri capitoli riuniti”». • Igor Borisovič Markevič nacque il 27 luglio 1912 a Kiev, in Ucraina, figlio primogenito di Boris Nikolaievič e di Zoja Ivanovna Pokhitonova. «Nel suo atanor, nel vaso alchemico in cui si è formato il suo essere, si sono fusi i patrimoni genetici più vari e contrastanti. Due etmani, capi indiscussi della comunità cosacca, e uno svagato pittore tartassato da un’energica moglie finlandese, pioniera in medicina e divorzio. Un rigoroso storico e un utopista dell’indipendentismo panslavo.
Un bisnonno massone ed etnomusicologo, e suo figlio, senatore e violoncellista possessore del mitico Stradivarius n. 7. Una celebre poetessa ucraina e una zingara stupenda, chiusa in un harem come in una conigliera a figliare ventiquattro volte. Pigri latifondisti e affrancatori di contadini. Rudi domatori di cavalli e raffinati amici di Gogol’, Puškin, Tolstoj, Glinka, Rubinštein, Rimskij-Korsakov, Ljadov… Un mosaico, da cui Markevič rifiutava di trarre un’identità sociale. (…) In Made in Italy ha lasciato scritto: “Io sono figlio di proprietari terrieri dell’Ucraina e me n’è rimasto un profondo amore per la campagna. Ho la fortuna di non essere più schiavo delle mie proprietà, come un Tolstoj che trovava in esse un ostacolo alle proprie convinzioni”». • «Benché profondo e addirittura biologico, tuttavia, il rapporto con l’Ucraina si configura per Markevič sempre e solo come nostalgia per un’Antica Madre perduta. Non vi rimane, infatti, che per i primi due anni di vita. (…) Malato di tubercolosi, a ventidue anni Boris Nikolaievič decide di dedicarsi totalmente al pianoforte e, dopo aver ceduto proprietà e privilegi al fratello maggiore, va a perfezionare la sua formazione artistica e a curare i suoi polmoni sotto i più miti cieli di Francia, portandosi dietro moglie e figlio. (…) La permanenza è però di breve durata, perché, nell’inverno del 1915, aggravatosi ulteriormente il suo stato di salute, Boris Nikolaievič è costretto a seguire il consiglio dei medici e a recarsi in Svizzera». Qui, essendo nel frattempo scomparsa la Russia che conoscevano, decidono di fermarsi, e si stabiliscono a Villa Maria, sorta di dacia isolata nei pressi di Vevey. Per mantenersi, Boris comincia a dare lezioni private di musica, e Zoja impianta un allevamento di polli. • «Igor trascorre l’infanzia tra i rigori del clima e della ristrettezza, in scuole mediocri, tra rapporti sociali radi e poco stimolanti, senza poter neppure molto giovarsi del dono paterno per la pedagogia. Una merce, questa, che Boris è costretto a vendere a gran fatica, nel gelo di quelle stanze che infierisce sui suoi poveri bronchi di tisico: di tempo e di forze, dunque, non ne restano che pochissimi per il figlio. Igor, tuttavia, conserverà come viatico e talismano tutti i più piccoli semi che il destino concede al padre di donargli. Molti di essi, accuratamente coltivati, germoglieranno fino a conformare i più importanti aspetti della sua personalità adulta e del suo lavoro futuro». • «Sapendo di non avere più tempo per una pedagogia lunga e strutturata, Boris si serve degli scacchi per rivelare a suo figlio il modello di ogni altro metodo. (…) Su una scacchiera invisibile, Boris e Igor si comunicano le mosse a voce, potando le siepi, pulendo un sentiero, facendo qualunque altra cosa. La concentrazione, la memoria, l’ideazione, la dedizione totalizzante, il “muoversi nell’astrazione” che questa modalità di gioco richiede e sviluppa sono i parametri di qualunque altra partita, di qualunque altro operare. Anche la musica, Boris l’insegna al figlio senza strumento, chiedendogli di raffigurarsi l’immagine del suono nella sua mente, di concepire la melodia prima di realizzarla come il Discobolo di Mirone, colto nel momento di stasi in cui progetta il suo lancio.
Nel “druido” Igor, questo procedimento porta a una lucida religione della mente, quasi a una sorta di magia della razionalità». • «Quando muore, nel 1922, Boris ha solo quarantasette anni. Il primogenito non ne ha che dieci, Nina solo sei. L’ultimo nato, Dimitri (diventato, poi, un noto violoncellista), non ha neanche compiuto una settimana di vita. (…) Principe di un castello diroccato, Igor studia nel Collegio di Vevey, sperimenta i primi amori, ancillari e non, affascina vecchie signore dilettanti di musica (una di loro, afflitta da cecità, gli lascia in eredità il pianoforte), va per la prima volta a un concerto (quello dell’allora giovane Clara Haskil, che molti anni dopo, divenuta celeberrima pianista, sarà sua grande amica), ma soprattutto si mostra condiscendente verso le due passioni culturali di Zoja: i capolavori, in lingua originale, della letteratura russa e i testi di storia. Non accoglierà mai, invece, la visione cristiana della madre». • Nonostante abbia dovuto abbandonare insieme ai figli Villa Maria per trasferirsi in un ancor più modesto appartamento, svolgendo ogni sorta di lavoretto Zoja riesce a mantenere la famiglia, e persino a pagare «per Igor – che studia pianoforte presso una modesta insegnante del luogo – delle costose lezioni supplementari con un giovane destinato a una brillante carriera, Paul Lyonnet. Un altro grande Maestro, dopo Boris, da cui Igor apprenderà soprattutto quella dissociazione muscolare, posta da lui a fondamento della sua tecnica direttoriale. Con lui, però, capisce anche che non si sente (né si sentirà mai) un pianista. Ha già cominciato a pensare per suoni, con l’ossessione di un drogato». • Un giorno passa per Losanna il grande pianista Alfred Cortot, e, «grazie all’interessamento di amici comuni, il sommo interprete di Chopin concede un’audizione al quindicenne Igor che, nel negozio di pianoforti Foetlish, esegue per lui la sua prima composizione. Il Maestro ne è colpito e gli chiede di ripeterla. Chiama, alla fine, Zoja Ivanovna e le domanda il permesso di occuparsi personalmente dell’educazione di suo figlio. Promette che lo farà accettare nella prestigiosa École Normale de Musique di Parigi e, per non mettere a disagio la vedova, le prospetta una degna soluzione economica: il ragazzo non pagherà alcuna retta, godendo di un prestito d’onore. […]