di Marcello Veneziani – Pubblicato il 20 Marzo 2023
È passato inosservato un relitto ritrovato che dice molto della nostra storia repubblicana e pure del nostro presente. Si tratta di un articolo che viene dal passato remoto. È il 1978. L’autore è Aldo Moro, all’epoca presidente della Democrazia Cristiana, in procinto di varare il governo di compromesso storico con il Pci, che gli costò di lì a poco la vita. Non è un articolo come tanti, di ordinario politichese; e non è nemmeno un articolo nel gergo moroteo, di quelli felpati e incomprensibili, tipici del giurista bizantino. Ma, pur ovattato, contiene un messaggio chiaro e comprensibile: Moro denuncia l’ingerenza statunitense nella politica italiana e pur con molti equilibrismi la respinge.
Ma l’aspetto più significativo e misterioso di quell’articolo, scritto da Moro per Il Giorno, a cui collaborava da alcuni mesi, è che non fu mai pubblicato, anzi fu rifiutato; il suo testo originale fu ritrovato nella borsa dello statista, in via Fani, nel giorno in cui fu rapito e fu sterminata la sua scorta. Presentando e pubblicando ora questo articolo, il Quotidiano nazionale, che riunisce tra le sue testate anche Il Giorno, sottolinea che lo scritto non fu pubblicato dalla testata perché era “troppo pesante”, usava “toni inusitatamente duri, che la direzione di allora rifiutò”; conteneva una “presa di posizione così netta, dura, contro l’alleato americano” e contro “le pressioni politiche dirette degli Stati Uniti contro la nascita di quel governo con il Pci”. E l’aggettivo duro, ripetuto, stride fortemente con la notoria morbidezza di Moro (era molle anche nel dare la mano).
Il Giorno era diretto all’epoca da Gaetano Afeltra; era di area governativa, anzi “parastatale”; lo aveva fondato Enrico Mattei, alla guida dell’Eni e rifletteva la linea morotea, di centro-sinistra che guarda al Pci. Colpisce che un articolo dello statista all’epoca più potente d’Italia, presidente del partito di maggioranza, principale artefice e regista del governo di unità nazionale che stava nascendo, fosse censurato da un quotidiano, per giunta di area governativa e statale. Immaginare che un direttore del Giorno potesse rifiutare un articolo del suo “editore di riferimento”, lascia un po’ sbigottiti. Come poteva, in nome di chi o di cosa un giornale censurare l’opinione espressa dal numero uno del Palazzo, il leader della Dc, il principale uomo delle istituzioni dell’epoca? Era peraltro uno scritto giornalisticamente rilevante, era di per sé una notizia importante, che aveva dirette implicazioni sulla vita pubblica del paese e sui rapporti internazionali.
Cos’era scritto nell’articolo di Moro? Che le pressioni americane aperte, rese pubbliche, creano “disagio” e “limitano la libertà di manovra politica”. Ma, ribadiva Moro, l’autonomia della decisione resta un diritto e un dovere. Ovvero gli statunitensi non avrebbero fermato il cammino di quell’intesa e il nascente governo di solidarietà nazionale. Moro si barcamenava, com’era nel suo stile, cercava di bilanciare la sua tesi, considerava il quadro internazionale, la Nato, l’Urss, l’amicizia con gli Usa e reputava normale la preoccupazione dell’Alleato. Ma poi ribadiva che nel nome dell’eccezionalità della situazione che stava vivendo il nostro Paese, era necessario proseguire su quella linea di larghe intese, aperta al Pci di Berlinguer. Era necessario, diceva, che l’Italia decidesse in piena autonomia.
Di lì a poco, mentre il governo Andreotti, voluto da Moro, si accingeva a chiedere la fiducia in Parlamento, veniva rapito e poi ucciso Aldo Moro. Ora è inutile imbarcarsi nella dietrologia e alimentare il sospetto che ci fosse lo zampino americano dietro il sequestro e poi l’uccisione di Moro da parte delle Brigate rosse; molto si è detto, scritto e “filmato” in questa chiave, ma sono congetture senza prove. Ombre e interferenze si allungano semmai sul mancato salvataggio di Moro. In ogni caso è vero che la linea di Moro era sgradita sia agli Usa che all’Urss, ostili per motivi simmetrici all’alleanza col Pci. Che poi, infatti, naufragò. La spartizione di Jalta del 1945 non poteva essere messa in discussione.
Di recente in Rai è stata riproposta un’intervista memorabile fatta a Mixer da Giovanni Minoli a Henry Kissinger, che avrebbe all’epoca minacciato di persona Moro per la sua apertura ai comunisti. Minoli incalzava l’ex segretario di stato americano lanciandogli trasparenti accuse e Kissinger non si scomponeva ma non dissipava affatto le ombre che seguivano a quelle minacce. Se mettiamo insieme l’aperto dissenso americano verso l’alleato italiano, le pressioni che anche Moro riconosceva di aver subito e l’articolo censurato in cui Moro reagiva al pressing americano, si ha la netta conferma di un Paese a sovranità limitata. Qualcuno dirà che era un bene vivere sotto l’ombrello americano, o perlomeno era necessario; molti temevano il compromesso storico e l’ingresso dei comunisti nell’area di governo; dunque, per loro l’azione americana era benemerita. Ma ciò non toglie che era una prova ulteriore della nostra perdurante dipendenza coloniale dagli Stati Uniti e dalle basi Nato.
La stessa dipendenza, probabilmente, aveva avuto un ruolo anni prima nel caso Mattei (anche se sulla caduta del suo aereo emersero due piste, una americana e una francese). Poi, le stesse vicende di Tangentopoli, i processi a Craxi e Andreotti e la loro caduta, sembrano comunque avere un nesso con la loro politica filo-araba e filo-palestinese dei nostri governi (era pure la linea di Moro), fino alla vicenda clamorosa di Sigonella.
Insomma, gli Stati Uniti non furono solo i liberatori in guerra e i tutori del dopoguerra (tra basi Nato e piano Marshall) ma lo restarono anche trenta, quarant’anni dopo. E pure dopo la caduta dell’Urss. Anzi, la loro influenza sulla politica italiana è ancora forte oggi, come dimostra l’allineamento totale alla posizione americana nella crisi Ucraina, da destra a sinistra, passando per il centro e per Draghi. Ma la scatola nera del Caso Moro resta incartata in quel suo articolo censurato.
La Verità – 19 marzo