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Generale Fabio Mini a l’AD: “La guerra permanente in Europa è lo scenario preferito dagli Stati Uniti”
di Alessandro Bianchi
“Per gli Usa la guerra permanente in Europa con uno o più stati che si offrano volontari per alimentarla a tempo indeterminato ha il doppio vantaggio di tenere impegnati gli europei contro la Russia e distoglierla dall’asse con Pechino. Ma, come ho scritto nel libro, i “volontari” per la guerra infinita cominciano a scarseggiare, a partire da quelli da inviare al fronte”. Così a l’AntiDiplomatico risponde il generale Fabio Mini, autore di “L’Europa in guerra” (Paper First, 2023), alla domanda sul ruolo degli Stati Uniti nelle possibili trattative di pace prossime future.
Mini, una delle voci più coerenti e forti nel denunciare i rischi connessi all’atteggiamento europeo verso il conflitto in corso, è riuscito, con i suoi articoli su Limes e il Fatto Quotidiano, a rompere la propaganda dominante. Quella propaganda che, come abilmente preannunciato dallo stesso generale, sta portando il nostro continente ad un passo da un baratro sempre più visibile.
L’Intervista a l’AntiDiplomatico
Generale del suo ultimo libro mi ha colpito molto il titolo: “L’Europa in guerra”. Lei ha il coraggio di dirlo chiaramente, nonostante l’informazione tenti di mascherarlo ogni giorno con voli pindarici a volte surreali. Con l’invio delle armi all’Ucraina, l’Unione Europea (e quindi l’Italia) ha scelto uno status di belligerante attivo?
Lo status di cobelligeranza europea non sta soltanto nell’invio di armi e non sta nel tempo del conflitto attivo. La guerra ucraina è iniziata in Donbass con la formula della guerra al terrorismo russofono. In questa guerra combattuta con le armi della repressione interna, della guerra civile, dei massacri di persone innocenti l’Europa si è schierata con il governo ucraino fin dall’inizio e ancor prima che cominciasse. L’Europa ha pensato che fosse “soltanto” una questione interna e comunque ha imposto sanzioni, fornito armi, riequipaggiato e ristrutturato l’esercito ucraino distrutto dagli autonomisti nel 2015. Ha esercitato attivamente l’indifferenza per le popolazioni colpite e sostenuto un regime ucraino costituito da coloro che fino ad un giorno prima considerava dei pericolosi neo-nazisti. Ha attivato tutti i canali di guerra psicologica e guerra cyber. Ha imposto la censura di guerra alle popolazioni europee e alimentato le milizie di mercenari e “volontari” internazionali. Di fronte a queste azioni di guerra l’invio di armi è quasi insignificante anche se rappresenta la maggior parte del contributo occidentale.
In un passaggio molto importante del suo libro Lei scrive ‘la vulgata di moda è sempre la stessa: l’Occidente combatte per il bene e per la democrazia contro il male e l’autocrazia, per la libertà e i diritti umani e per la prosperità contro la dittatura, gli abusi e la povertà. Combatte perché è giusto che sia così: perché esiste un destino manifesto e un popolo eletto, un egemone e tanti vassalli’. Non crede che il conflitto in Ucraina abbia però dato all’occidente il messaggio chiaro che il resto del mondo non accetti più questa dicotomia autoproclamata?
Verissimo. Ma questo Occidente non sembra averlo ancora capito. La prima risoluzione dell’assemblea dell’Onu del 2022 sulla condanna della guerra vide l’astensione dei paesi rappresentanti i tre quarti del mondo e ci fu presentata come una vittoria del Bene sul Male. Da allora gli Usa e l’Unione Europea hanno alimentato la guerra in Ucraina e cercato di convincere almeno uno di tali paesi a rivedere la propria posizione. Anche la seconda risoluzione a distanza di un anno ci è stata presentata come una vittoria corale. In realtà non solo ha confermato la prima ma ha ulteriormente rafforzato il fronte degli astenuti segnando il fallimento delle pressioni, promesse, corteggiamenti e minacce esercitate dal cosiddetto Occidente sul resto del mondo.
Sulle origini del conflitto nel 2014 non è il caso di tornare. Le ha brillantemente messe in luce in più occasioni anche nei suoi articoli. Nel suo ultimo scritto delinea cinque principi e 10 piani d’azione per “riaccendere la speranza” con la premessa che solo un primo passo tra Russia e Stati Uniti possa sbloccare la situazione. L’attuale amministrazione Usa pensa che voglia veramente accenderla quella speranza?
Francamente No. Ma ci sono condizioni che superano anche la volontà dei governanti. Non mi riferisco alla volontà popolare di cui si riempiono la bocca i cosiddetti campioni di democrazia che la indirizzano dove vogliono con i sondaggi pilotati e le “intenzioni di voto”. Mi riferisco innanzitutto agli effetti della guerra sui loro stessi interessi. Gli Usa hanno facilmente convinto gli alleati e gli europei che la guerra sarebbe durata poco e che quella economica avrebbe spianato la Russia. Così non è stato e il presidente Biden non è più sicuro di poter giocare la carta della vittoria e del depotenziamento russo entro l’anno. Rimane la carta del grande business della ricostruzione che in effetti può dare una mano all’economia statunitense ed europea in palese affanno. Ma anche questa non coincide con l’orizzonte elettorale di Biden e del collasso economico euroatlantico. Paradossalmente gli affari della ricostruzione e quelli del riarmo europeo potrebbero indurre a sospendere le operazioni in Ucraina per il tempo necessario per iniziare a ricostruire e a riarmarsi per poi tornare a distruggere. È un ciclo diabolico, ma se riflettiamo bene è già in atto in tutto il mondo su scala secolare. L’attuale guerra in Europa può averlo accorciato ma non interrotto.
Dei principi che lei elencava uno in particolare credo sia il vero centro della questione nel medio-lungo periodo. “La soluzione del conflitto deve permettere d’instaurare un nuovo assetto della sicurezza in Europa che non poggi esclusivamente sulle minacce armate e che tenda alla rimozione di tutte le cause e i pretesti di conflitti territoriali.” Senza un progetto di sicurezza che inglobi le richieste russe in un quadro generale il nostro continente è destinato a decenni di destabilizzazioni?
Certo, questo è lo scenario più plausibile e quello preferito dall’Occidente. Per gli Usa la guerra permanente in Europa con uno o più stati che si offrano volontari per alimentarla a tempo indeterminato ha il doppio vantaggio di tenere impegnati gli europei contro la Russia e distoglierla dall’asse con Pechino. Ma, come ho scritto nel libro, i “volontari” per la guerra infinita cominciano a scarseggiare, a partire da quelli da inviare al fronte.
Sul campo di battaglia al momento il nucleo delle operazioni è la città di Bakmut che l’Ucraina ha deciso di difendere a costo di enormi danni in termini di vite umane. E’ così importante strategicamente? E cosa permetterebbe ai russi la sua conquista?
Quasi niente. Bakmut è un simbolo di tutto il Donbass, come lo era Mariupol, che è stata distrutta, conquistata ed ora viene ricostruita dai russi nonostante il conflitto. In termini economici Bakmut rappresenta uno dei diversi centri importanti non tanto e non solo per la Russia e l’Ucraina ma soprattutto per l’indipendenza e l’autonomia delle autoproclamate repubbliche. Ecco perché è stato pesantemente distrutto. Le repubbliche si sono appoggiate ai russi, ma non è detto che vogliano diventarne un bacino di sfruttamento come lo erano per l’Ucraina o l’Urss. C’è poi l’aspetto militare: a Bakmut sta combattendo il gruppo Wagner che ha armamenti leggeri mentre l’esercito russo si sta preparando ad avanzare e nel frattempo martella da lontano tutta l’Ucraina. Il generale Inverno questa volta si è disimpegnato. Il classico gelo invernale che avrebbe consentito l’avanzata di carri su terreno duro non si è verificato e il fango della Rasputina è già all’opera. I carri occidentali con le loro 70 tonnellate sono già in crisi. Basta un affondamento dei cingoli di una ventina di centimetri per far toccare la pancia a terra e impedire il movimento. Devono muoversi sulle strade e questo li rende più vulnerabili. I carri russi meno pesanti avrebbero maggiori chances ma più l’Ucraina è impegnata a Bakmut, più tempo viene concesso per la preparazione di un’offensiva. Da una parte e dall’altra.
Generale stiamo assistendo con apprensione anche a quello che accade in un’altra linea rossa per Mosca. In Georgia c’è il rischio concreto dell’apertura di un secondo fronte?
È quello che vogliono Usa e alleati. È una trappola ma anche in questo caso la Russia potrebbe essere indotta a ficcarcisi dentro. La probabilità che in Georgia e in Transnistria l’Occidente stia bluffando e che all’atto pratico gli Usa non interverrebbero, come già avvenuto nel passato, è molto allettante. E se non fosse un bluff alla Russia rimarrebbe sempre l’opzione del conflitto diretto con la Nato che, contrariamente a quanto pensano i suoi strateghi, non potrà limitarsi allo scontro “convenzionale”.
Generale oggi è tornata di moda l’espressione “nuovo ordine mondiale”. I non allineati possono tornare ad avere nelle crisi attuali un ruolo comparabile ai tempi della conferenza di Bandung del 1955? Quali altri blocchi si possono prospettare come alleanze alternative e come potenze di pace e negoziali nelle crisi?
Non credo che si riproponga un movimento di non allineati come quello di Bandung che tuttavia contribuì indirettamente all’equilibro dei blocchi contrapposti. Non solo per le differenze politiche dei vari stati “non allineati”, ma perché di fatto non c’è bisogno di una struttura e nemmeno di una ideologia per astenersi. Così come non c’è bisogno di trattati e alleanze e relativi vincoli per esprimere il proprio dissenso. Questo è ancora l’approccio perseguito dagli Usa, dalla Nato e dall’Unione Europea. Ed è “vecchio”. Il nuovo ordine mondiale non sarà deciso a New York , Washington o Bruxelles. Russia, Cina, India, Brasile, Argentina, Sudafrica, Paesi arabi e mediorientali e altre decine di paesi che rappresentano i tre quarti del Mondo in termini di popolazione e quasi il 90% delle risorse economiche sono già una realtà che non collima con l’idea dei blocchi. E non è nemmeno un segnale di caos perché offrono alternative indipendenti dai diktat dei capibastone. Il cosiddetto Nuovo Ordine è soltanto la presa di coscienza di questa realtà.
La pacificazione in Medio Oriente in corso, frutto del ritiro Usa e del ruolo diplomatico cinese, ha visto un passaggio chiave con l’accordo di Iran e Arabia Saudita a riprendere relazioni diplomatiche. Che tipo di ripercussioni tutto questo potrà avere sul conflitto in Europa?
Ho i miei dubbi sul fatto che si tratti di pacificazione, di ritiro di qualcuno e ruolo diplomatico di qualcun altro. A prescindere dalle pressioni esterne l’accordo dimostra che le parti in causa hanno riconosciuto l’insensatezza delle rispettive posizioni ideologiche e le hanno volute accantonare di fronte ai propri interessi. È anche la dimostrazione che gli accordi e gli schieramenti politici lineari e simmetrici non rappresentano più la realtà e non “sigillano” più nessuno. È la dimostrazione che con questa logica le opportunità di cooperazione si ampliano rispetto a quelle del conflitto permanente che ci viene propinato da un secolo.