- di Tommaso Scandroglio – Nuova Bussola Quotidiana
- VITA E BIOETICA
- 06-11-2021
Il presidente della Pontificia Accademia per la Vita è intervenuto il 2 novembre al congresso “Tecnologie e fine vita: il primato dell’accompagnamento”. Insieme ad alcune considerazioni lodevoli, ha detto frasi infelici, riguardanti il consenso assoluto in capo al malato, le Dat, l’indisponibilità della vita, eccetera. E non è la prima volta (vedi da ultimo Rebus) che mons. Paglia incorre in simili inciampi.
Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, è intervenuto il 2 novembre scorso al congresso, svoltosi a Roma, “Tecnologie e fine vita: il primato dell’accompagnamento”. Alcuni suoi passaggi sono lodevoli, altri assai meno. Analizziamo questi ultimi.
Paglia afferma che alla persona malata “spetta la parola decisiva su ciò che concerne la propria salute e gli interventi medici sul proprio corpo”. Le cose non stanno proprio così. Il consenso in ambito sanitario è un principio buono a patto che non venga inteso in senso assoluto. A volte si deve compiere il bene stante il dissenso del paziente e quindi, in alcune circostanze, è lecito intervenire sul corpo della persona anche se dissenziente e anche se capace di intendere e volere. Si vedano i trattamenti sanitari obbligatori. Posso, dal punto di vista morale, obbligare una ragazza maggiorenne anoressica a nutrirsi? Sì, perché la obbligo a compiere il suo bene anche se lei non lo riconosce come tale. Tizio torna da un paese africano ed è malato di Ebola. Posso obbligarlo all’isolamento strettissimo, ad una dura quarantena, ad esami e alle cure? Certo che sì, in questo caso per il bene suo e della collettività.
Ora, se posso obbligare una persona a curarsi anche se non è in pericolo di vita (vedi il caso della ragazza anoressica, dove l’anoressia non porta sempre alla morte), a fortiori dal punto di vista morale posso obbligare una persona a sottoporsi a trattamenti sanitari anche contro la sua volontà se in gioco non c’è solo la sua salute, ma addirittura la sua stessa vita. Come è lecito strappare a forza dal cornicione il tentato suicida, così è lecito obbligare una persona a salvare la propria vita curandosi.
A tal proposito la Congregazione per la Dottrina della Fede, nel documento Dichiarazione sull’eutanasia (Iura et bona), afferma: “Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare” (ricordiamo che, come tutti i doveri affermativi, anche questo è contingente, non assoluto). Affermare la priorità dell’autodeterminazione sul bene oggettivo della persona e quindi far prevalere il libero arbitrio sul bene e sulla verità è errato e fa scadere in una prospettiva etica libertaria. Se, come afferma mons. Paglia, sta al paziente l’ultima parola, allora potrebbe darsi il caso che il paziente chieda l’interruzione di mezzi di sostentamento vitale come nutrizione, idratazione e ventilazione assistita. In altri termini, l’ultima parola che spetterebbe al paziente potrebbe voler dire eutanasia.
Altro inciampo in cui è caduto mons. Paglia: le disposizioni anticipate di trattamento sono “uno strumento valido per il rispetto della volontà del paziente nella valutazione di proporzionalità, che è il criterio fondamentale che legittima l’impiego dei mezzi terapeutici in medicina. Esse trovano la modalità concretamente più valida di attuazione nella pianificazione condivisa delle cure, prevista all’art. 5 della stessa legge 217/2019, anche per l’insegnamento della Chiesa”. Il richiamo alle Dat, seppur accompagnato dal riferimento al principio di proporzione, è poco prudente almeno per un paio di motivi. In primis perché questo strumento presenta plurime criticità: inattualità della volontà, espressione di un consenso non informato, difformità tra contenuto delle Dat e desiderata del paziente, inaffidabilità del fiduciario, etc. Inoltre menzionare la legge 217/2019 – norma che ha pienamente legittimato l’eutanasia in Italia – aggiunge altre criticità alle Dat: la legge infatti non permette l’obiezione di coscienza del medico in merito alle disposizioni ivi contenute, non c’è obbligo di redazione delle stesse tramite l’ausilio di un medico, non è prevista la verifica che le Dat siano state sottoscritte liberamente, le Dat scattano al verificarsi di uno stato di “incapacità di autodeterminarsi” (a rigore quindi anche quando uno dorme, è poco lucido, è ubriaco, sotto effetto di sostanze psicotrope, preso dall’ira, molto stanco, etc.). In secondo luogo, incensare le Dat significa incensare uno strumento che il più delle volte viene usato per scopi eutanasici. Insomma, parlare bene delle Dat può offrire una sponda all’eutanasia.
Mons. Paglia, quando si esprime sul tema eutanasia, non è nuovo a simili inciampi. Puntata del 10 ottobre scorso di Rebus, talk show di Rai 3. Presenti come ospiti Paglia e Corrado Augias. Tema: eutanasia. Anche in questo caso – al netto di errori strategici e di omissioni nelle argomentazioni riguardo ai motivi fondamentali per cui è doveroso rifiutare l’eutanasia – il presidente della Pav esprime alcuni giudizi condivisibili, altri meno. Tra questi ricordiamo l’affermazione, ripetuta più volte, che “la vita è mia”. Paglia afferma che la vita è di ciascuno, ma non totalmente sua. Appartiene anche a chi? A Dio? La vita “è anche degli altri”, dice Paglia. Dunque, potremmo noi così concludere, se Tizio e gli altri decidono che Tizio può togliersi la vita, l’eutanasia sarebbe lecita. Detto ciò, affermare che la vita è mia è un falso. Non si ha proprietà sulla vita, bensì esiste la persona vivente, formata da spirito e corpo. Non esiste una relazione di proprietà tra l’Io e il corpo, ma il corpo è parte dell’Io. Esiste quindi una relazione che riguarda l’essere e non l’avere.
Altro errore. Ad un certo punto Paglia afferma: “Io non sono d’accordo con chi dice che la vita è indisponibile, tutt’altro, la vita è mia tanto che ci sono cristiani e non cristiani che danno la propria vita per salvare quella degli altri”. Il concetto di indisponibilità, come tutti i concetti che tentano di tradurre consolidati principi della Tradizione in principi nuovi, è fortemente problematico e lo è proprio perché discende dall’astrazione prima accennata: esisterebbero il bene vita e la persona vivente, quando invece esiste solo la persona vivente (per una rassegna di diversi pareri sul concetto di indisponibilità cfr. G. Fornero, Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, Utet. Il giudizio morale dell’autore sul tema in oggetto non è però da noi condiviso).
Invece di dire che la vita è indisponibile, sarebbe meglio affermare che è sempre un’azione intrinsecamente malvagia il suicidio e l’assassinio. Affermare che la vita è sempre indisponibile in senso stretto è errato. Infatti io posso lecitamente disporre della mia vita scegliendo di sposarmi, di farmi religioso, di intraprendere la carriera di avvocato, etc. In ogni istante, a ben vedere, noi disponiamo della nostra vita, cioè compiamo delle scelte. Detto ciò, secondo il paradigma cattolico affermare che la vita è indisponibile significa, come già accennato, qualificare come mala in se il suicidio e l’assassinio, ossia è sempre malvagio provocare la morte della persona innocente (il difensore invece può lecitamente disporre della vita dell’ingiusto aggressore e parimenti il giudice del reo con la pena di morte, proprio perché sia l’ingiusto aggressore che il reo non sono innocenti).
Fatta questa premessa, torniamo alle parole di Paglia secondo il quale il concetto di indisponibilità non avrebbe fondamento se pensiamo agli atti di martirio. Invece il martirio e gli atti di eroismo volti a donare la propria vita per gli altri non mettono in crisi il concetto di indisponibilità della vita nell’accezione prima ricordata, anzi lo consolidano. Infatti il martire o l’eroe non cercano né il suicidio né l’assassinio del consenziente. Pensiamo a padre Kolbe che offrì la propria vita per salvare un padre di famiglia in un campo di concentramento nazista (oppure pensiamo a Cristo morto in croce per noi). Il fine prossimo ricercato da padre Kolbe era la salvezza della vita di quell’uomo: ha voluto salvare la vita di quell’uomo, non ha voluto la propria morte. La specie morale dell’atto, dunque, era “salvezza” o “difesa”, non “suicido” o “assassinio del consenziente”. Se il fine prossimo fosse stato uno di questi ultimi, Kolbe avrebbe compiuto un atto moralmente assai riprovevole. Dunque, il fine era “salvare la vita di terzi” sopportando come effetto non voluto la propria morte, cioè tollerando che altri (e non lui) compissero un atto moralmente malvagio. In questa prospettiva la vita rimane indisponibile e viene erroneamente considerata disponibile dai carcerieri nazisti.
Ultimo scivolone di Paglia alla trasmissione Rebus: “Mentre io lascio al Parlamento la responsabilità di legiferare sul tema del suicidio assistito che seppur non mi soddisfa… ma sull’eutanasia lo sbarramento deve essere netto”. Una doppia premessa. La prima: il Parlamento sta esaminando un disegno di legge sul suicidio assistito. La seconda: in primavera probabilmente saremo chiamati a pronunciarci sul referendum dei Radicali che vogliono un ampliamento delle modalità di omicidio del consenziente già presenti nella legge 219/17. Ora mons. Paglia afferma che sul tema eutanasia, ossia referendum dei Radicali, “lo sbarramento deve essere netto” e non così invece sul tema della legittimazione del suicidio assistito tanto da lasciare “al Parlamento la responsabilità di legiferare sul tema”, seppur obtorto collo. Rammentiamo ancora una volta che sia l’assassinio del consenziente che il suicidio sono atti intrinsecamente e massimamente malvagi e dunque anche sul disegno di legge sul suicidio assistito “lo sbarramento deve essere netto”. Un vero rebus il nostro mons. Paglia.