Quando, qualche giorno fa, è giunta la notizia della morte di Gianni Vattimo in molti hanno fatto richiamo ad una sua intervista negli anni ’90: «Voi cattolici – disse il filosofo torinese in quell’occasione – avete resistito impavidi per quasi due secoli all’assedio della modernità. Avete ceduto proprio poco prima che il mondo vi desse ragione. Se tenevate duro ancora per un po’, si sarebbe scoperto che gli “aggiornati”, i profeti del futuro “post-moderno” eravate proprio voi, i conservatori. Peccato. Un consiglio da laico: se proprio volete cambiare ancora, restaurate, non riformate. È tornando indietro, verso una Tradizione che tutti vi invidiavano e che avete gettato via, che sarete più in sintonia con il mondo d’oggi, che uscirete dall’insignificanza in cui siete finiti, “aggiornandovi” in ritardo. Con quali risultati, poi? Chi avete convertito, da quando avete cercato di rincorrerci sulla strada sbagliata?».
Molti hanno creduto che qui Vattimo abbia reso omaggio alle ragioni antimoderne del Cattolicesimo preconciliare. In realtà il filosofo, nonostante l’invito a restaurare ed a tornare alla Tradizione, intendeva dire che nel mondo liquido postmoderno è, ancor più di ieri, necessaria l’ancora di Dio benché anche solo come strumento di sopravvivenza mondana e di attraversamento del deserto del nulla nella parabola finale dell’Occidente. Quindi non un invito alla metanoia quanto piuttosto l’indicazione di un rimedio al disagio della vita senza senso alla quale la modernità ghiacciata e solida, sciogliendosi nella postmodernità liquida che ha travolto le stesse certezze moderne surrogato della fede antica, ha condannato l’uomo. Nessuna aspirazione ad una verità metafisica né ad una salvezza oltremondana, in Vattimo, solo l’ammissione che un Dio ci è necessario per vivere meglio qui ed ora. Una sorta di ateismo devoto privo però dell’arroganza “cristianista” dei neoconservatori alla Giuliano Ferrara che invocano le radici “giudaico-cristiane” dell’Occidente quale ideologia di potenza nello scontro di civiltà (radici oltretutto storicamente mai esistite dato che il Cristianesimo si è distaccato dal giudaismo praticamente subito a ridosso degli eventi di Gerusalemme e dato che il Cristianesimo è la continuazione del vero ebraismo della Rivelazione anticotestamentaria laddove il giudaismo postbiblico ne costituisce un chiaro allontanamento).
Lo scrivente non ha mai approcciato le opere di Vattimo e pertanto qui argomenta sulla base di quelle che sono sue impressioni formatesi dalla lettura, in occasione della morte del filosofo, dei commenti mediatici di chi, come Maurizio Ferraris che ne ha scritto sul Corriere della Sera del 19.09.2023, il pensiero del pensatore torinese lo conosce bene. Un amico che, invece, ha affrontato alcune opere del filosofo scomparso mi ha scritto: «Io ho letto diversi lavori di Vattimo, credo che nel suo percorso abbia inciso molto la sua vicenda biografica (o viceversa). Ha visto chiaramente fin dai primi lavori (a partire da “Il soggetto e la maschera”) la necessità di oltrepassare l’impostazione illuministica della modernità e ha individuato in Nietzsche, ma non in Heidegger (come hanno fatto molti altri) il disvelatore di una “post-modernità”, che lui tuttavia si rifiutava di pensare come recupero di istanze tradizionali o comunitarie. Ciò anche per motivi etici (da gay riteneva la tradizione foriera di oppressione morale). Così ha preso la strada del post-moderno, che aveva una sua consistenza negli anni Ottanta, ma dal quale lui stesso rimase deluso, rendendosi conto di aver prodotto una sorta di pragmatismo (in tal senso, la collaborazione con Richard Rorty). Alla fine è approdato al comunismo – lui che da giovane era in Azione Cattolica – una maniera per tornare ad una posizione “forte”. Personaggio irrequieto».
Per quanto possa contare credo che Vattimo abbia confuso la mitezza cristiana con la debolezza, anche del pensiero. Una reazione, la sua, non solo alla metafisica ma anche alle ideologie, al pensiero forte, che ha, perlomeno inizialmente, ignorato la forza del potere post-ideologico, fondato su finanza, tecnica ed economia. Augusto del Noce, a differenza di Vattimo, aveva invece compreso che il nuovo totalitarismo della società permissiva è più capace di dominio, sulle coscienze, dei vecchi modelli hitleriani e staliniani. Se quel che dice il mio amico è vero, e conoscendo il suo valore di studioso non ne dubito affatto, prendo atto che Vattimo si è ricreduto, strada facendo, sulla “forza della debolezza”. Resta, tuttavia, l’impressione che in lui fosse come oscurata l’idea che “Deus caritas est”, secondo la espressione usata nella prima lettera di Giovanni evangelista, ripresa da Papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica. “Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16). Non però solo una idea ma una Realtà ed una Presenza storica che Vattimo non è riuscito a intravvedere in mezzo a quanto di coercizione e abuso di potere mostra la storia della Chiesa. Una migliore conoscenza di quella storia lo avrebbe portato a diverse conclusioni su ciò che in apparenza sembra abuso ma che compreso con le categorie epocali adatte e messo a confronto con l’aggressività, apparentemente mite, dell’Avversario, non è più tale nonostante gli errori umani.
Mi viene indicato, come esempio della rinuncia di Vattimo alla Verità, questa suo adagio, tratto da “Addio alla verità” (Meltemi, Roma 2009, p. 84): «Non ci mettiamo d’accordo quando abbiamo scoperto la verità, ma diciamo di aver scoperto la verità quando ci siamo messi d’accordo. Che poi vuol dire anche che al posto della verità subentra la carità. Dostoevskij scriveva: “se dovessi scegliere fra Gesù Cristo e la verità, sceglierei Gesù Cristo”». Il punto debole di questo argomentare sta nel non riconoscere che Gesù Cristo è la Verità e ad un tempo è quel Dio che è carità di cui ha parlato l’apostolo Giovanni. A Vattimo, sulla scorta di Giovanni, risponde Benedetto XVI: Verità e Carità non possono essere separate perché la Verità senza la Carità diventa fondamentalismo ma la Carità senza la Verità, ossia Cristo in Persona, diventa un inconsistente irenismo, un solidarismo peloso e bugiardo.
Secondo Maurizio Ferraris, nel pezzo già citato apparso sul Corriere della Sera ed intitolato “Vattimo, nemico dei dogmi”: «Quella che Vattimo ci ha proposto è, prima di tutto, una filosofia della storia, che va nel senso inverso a quella di Agostino. Per quest’ultimo la città dell’uomo, che stava crollando e invecchiando, preparava l’avvento della città di Dio. Per Vattimo è il contrario. È la città di Dio, il mondo di certezze ultramondane e di fondamenti indiscutibili, che sta declinando, non sotto il peso dei tempi e delle invasioni barbariche, ma del mondo moderno, con la sua luce e la sua scienza. “Dio è morto”, ecco la parola fondamentale della modernità».
La realtà, invece, infine colta, sempre stando a Ferraris, anche da Vattimo, è che ad essere in agonia sia non la Città di Dio ma la modernità travolta dalla liquidità postmoderna del ghiaccio solido che essa fu un tempo. Questo scioglimento ha portato allo scoperto il nocciolo duro contenuto in sé dalla modernità ovvero il nulla, il non senso, che sta recidendo alle fondamenta anche gli idoli moderni, scienza, tecnica, diritti umani.
Woody Allen scherzando, in una famosa scena, svelò una grande verità quando, parafrasando Nietzsche, disse “Dio è morto ed anch’io non mi sento molto bene”. Perché la “morte di Dio” comporta inevitabilmente – e l’umanità odierna, alle prese con le follie transumaniste, se ne sta accorgendo – la morte dell’uomo. Ferraris richiama l’attenzione, nel suo pezzo, sulla risposta che Vattimo ha dato al disagio conseguente la fine della Trascendenza: «bisogna capire sino in fondo la tragedia di questa morte, restaurare la presenza di Dio non più nel suo trionfo, ma nella sua caduta, ed è stata la via seguita dai filosofi cristiani del Novecento, come il maestro di Vattimo, Luigi Pareyson».
Tuttavia, questa nostalgia di Dio, come evidenziato, non è in Vattimo la restaurazione di quel Dio dogmatico con il quale un “pezzo di umanità ha preteso di dominare il mondo”. Ancora Ferraris: «Il mondo del Cristo Re era un mondo in cui tutto era sacro, solido, intoccabile. Quello del Dio morto è un lungo addio al passato in cui l’umanità si emancipa dal sacro e dalla violenza che comporta, e riconosce che non ci sono più assoluti. Non abbiamo ucciso Dio per sostituirlo con l’Umano, ma per capire che tutto, nel mondo, è fragile, storico, interpretabile. (…). Questa fuga senza fine dagli assoluti e dalla violenza, la cifra essenziale del pensiero e dell’insegnamento di Vattimo, non è stata semplicemente una teoria, ma il riflesso di una vita. (…). Ecco il motivo per cui, diversamente da Nietzsche e dai più, Vattimo ha voluto conferire un valore positivo al nichilismo, che non è solo la corsa dell’umanità verso il nulla ma è anche l’emancipazione da un essere, da un Dio o da un fondamento troppo ingombranti».
Tralasciando l’opinabilità di questa identificazione del Sacro con la violenza – casomai il Sacrificio di Cristo prendendo su di sé la colpa dell’uomo ha abrogato la necessità stessa della violenza sacrale mostrando il Volto Divino-Umano di un Sacro non violento – una parola va spesa sull’incapacità dei filosofi di comprendere fino in fondo, senza una esperienza mistica o di sequela orante e sacramentale, l’Amore di Dio. Per questo Cristo ha ringraziato il Padre per aver svelato la verità ai semplici ed ai puri di cuore nascondendola ai dotti, sempre gonfi di orgoglio anche quando si tratta di un orgoglio intriso di sofferenza e di mal di vivere come quello di Vattimo. Se i dotti mettessero da parte questo orgoglio potrebbero prendere coscienza di quanto in loro agisca una antica tentazione preceduta da un altrettanto antico inganno. La tentazione è quella dell’“Eritis sicut Dei”, di Genesi 3,5, “sarete come Dio”, preceduta dall’insinuazione che Dio è un tiranno geloso della libertà dell’uomo, sicché vuole imbrigliarla in assurde regole e odiosi divieti intesi a rendere l’umanità infelice ed a dominarla per assoggettarla alla sua potenza anti-umana.
Allo scrivente risulta, e chiunque può constatarlo, che le peggiori catastrofi e la peggiore disumanizzazione ed intolleranza si siano registrate nella modernità che ha preteso di uccidere Dio. Vattimo, con Nietzsche, pensava che l’uomo orfano di Dio balla sull’orlo dell’abisso del nulla e che deve trovare in sé le ragioni del suo essere. Se, giustamente, diffidava degli idoli sostitutivi di Dio ad iniziare dalla scienza, o meglio dallo scientismo, e dal potere della tecnica (per inciso, questo dovrebbe ben ricordare qualcosa a proposito di pseudo-vaccini e di profitti delle multinazionali), egli non coglieva però che la metafisica non è affatto violenza – qui soccorre Ratzinger sulla intima unione di Verità e Carità – ma Via verso l’Alto. L’unica possibilità per l’uomo di non scivolare verso il basso. Nel suo considerare Dio violenza organizzata in idolatria dal pensiero metafisico c’è l’eco della diffidenza inoculata nell’uomo verso il Creatore secondo Genesi. Lì, come dicevo, la tentazione è consistita nell’insinuare nell’uomo che Dio non è Amore ma Colui che lo tiranneggia e ne impedisce la libertà. I Progenitori capirono troppo tardi l’inganno. Anche Vattimo, credo, lo ha capito a modo suo ed ha tentato di correre ai ripari.
«Non c’è nulla – afferma ancora Ferraris – che sia davvero intoccabile perché, d’accordo con Friedrich Nietzsche (il filosofo che, insieme a Martin Heidegger, ha più contato per Vattimo) non ci sono fatti, solo interpretazioni. Il progresso è lo scopo che deve prefiggersi l’umanità impegnata in questa attraversata del deserto. Perché ovviamente riconoscere la morte di Dio è tutt’altro che una condizione di per sé euforica; il “gran baccanale degli spiriti liberi” di cui parlava Nietzsche potrà anche aver luogo, ma è l’allegria che accompagna un naufragio, dal momento che non è per niente facile vivere senza fondamenti. È come trovarsi nelle sabbie mobili, che possono inghiottire da un momento all’altro l’umanità che scopre di poggiare sul nulla, di essere solo una delle infinite possibilità di una storia che non ha capo né coda. Come ridare senso a una umanità senza assoluti? Certo non creandone di nuovi e di alternativi, ed è per questo che Vattimo è sempre stato contrario al culto della scienza, che ai suoi occhi era il surrogato mondano della trascendenza perduta. Occorre un diverso movimento, che non sostituisca il vecchio idolo con un nuovo. Bisogna invece riconoscere la dimensione positiva della libertà, nei giudizi, nei comportamenti e nelle scelte, che deriva dal crollo di un muro ben più antico e robusto di quello di Berlino. (…) questo destino non è necessariamente catastrofico [a condizione di fare come] … Foucault [che], per esempio, dopo aver decretato la morte dell’umano e la riduzione della verità a potere si è impegnato faticosamente, negli ultimi anni della sua ricerca, nella rifondazione di un’etica e di una verità andando a scuola dagli antichi … Vattimo [invece] ha preso la via di un recupero del cattolicesimo e di un rilancio del comunismo proprio nel momento in cui sembrava sparito dall’orizzonte politico».
Questo ritorno al cattolicesimo – ecco il punto – in Vattimo si atteggia come attrazione verso un rito ritenuto senza mito di una religione accomodante e priva di assoluti, in questo alleata della secolarizzazione. Nella sua interpretazione, il cattolicesimo è tradizione e modo di vita ma non un sistema di dogmi, che richiamano la Verità metafisica e la fede nell’Assoluto. In quanto religione storica per eccellenza il cattolicesimo per Vattimo è il più adatto a rendere sopportabile all’umanità il trauma della morte di Dio. Anche qui, tuttavia, il filosofo torinese ha preso un grande abbaglio del resto comune a molti altri. Se avesse letto le opere di un misconosciuto pensatore perennialista cattolico, Attilio Mordini, – in particolare “Il mito primordiale del Cristianesimo. Fonte perenne di metafisica” (Il Cerchio, 2019) che trovò l’apprezzamento di Augusto Del Noce – Vattimo avrebbe ben compreso che la Rivelazione cristiana, nella sua forma apostolica e cattolica, non rifugge affatto dal “mito” ma, a differenza di altre tradizioni, essa è l’unica nella quale il “mito”, che non è una favola come ritengono i moderni ma l’”Annuncio”, la “Parola”, il “Logos, secondo il senso polisemico del termine, si è fatto storia facendosi carne, incarnandosi in Cristo Gesù.
Insieme al cattolicesimo, Vattimo recuperava il comunismo. Dopo la conclusione tragica del comunismo reale, Vattimo pensava ad un comunismo ideale inteso non più come ideologia forte ma come fratellanza umana e preferenza per i diseredati, per gli ultimi. Ferraris ricorda che Vattimo nel suo comunismo immaginario vedeva l’esito necessario del pensiero debole che doveva convertirsi in pensiero dei deboli. Fedele al suo “debolismo” antimetafisico ed antiideologico, Vattimo è tornato, dunque, al cattolicesimo ed al comunismo in quanto dottrine sconfitte, perdenti, destinate, secondo il suo giudizio, ad un lungo e graduale tramonto che tuttavia, intesi alla stregua di una spiritualità a-sacrale, il primo, e di un umanitario solidarismo fraterno, il secondo, possono ancora dare all’umanità un ancoraggio utile per sopportare il mal di vita conseguente al tramonto degli assoluti, tanto religiosi che politici.
«Proprio come la decostruzione – chiosa Ferraris –, che era stata condotta sotto il segno della debolezza, cioè della interpretazione e della relativizzazione invece che dell’iconoclastia e dello scontro frontale, anche la ricostruzione prendeva la forma, mite e non mitica, del recupero di due religioni tutt’altro che trionfanti. La leggerezza del pensiero debole è stata proprio questo tentativo di “mettere in sicurezza”, come si direbbe oggi in riferimento alle catastrofi naturali, l’umanità dallo schianto della morte di Dio».
Ed è qui che trova spiegazione il senso vero dell’affermazione di Vattimo, che invocava la “restaurazione cattolica”, nell’intervista degli anni ’90 con la quale abbiamo iniziato questa sintetica riflessione. Nessun ritorno al dogma o alla metafisica, semmai alla sola ritualità tradizionale svuotata di contenuti sacrali e, in fondo, a ben vedere, svuotata della Persona stessa di Nostro Signore Gesù Cristo, in una sorta di ateismo religioso, ovvero di parodia pur “caritatevole” della fede. Non credo che i cattolici possano esaltarsi del suo pensiero o farlo proprio. In quanto alla sua anima l’affidiamo all’infinita Misericordia di quel Dio del quale egli aveva nostalgia ma che non è mai riuscito a comprendere nella Sua Essenza d’Amore.
Luigi Copertino