In piena foresta amazzonica, la deforestazione ha messo in luce antiche strutture scavate sul terreno: ben 450 cerchi o tracce quadrangolari dette “geoglifi”, sparse su una area di 13 mila chilometri quadrati nella parte occidentale dell’Amazzonia brasiliana, Stato dell’Acre. I media hanno battezzato le strutture archeologiche “una Stonehenge in Brasile”, anche se sono molto più tarde e molto più semplici, non presentando alzate architettoniche in pietra ma solo fossati sul terreno, e risalenti al massimo a 2 mila anni fa (le prima al primo secolo dopo Cristo, altre sono state realizzate dopo, fino al 15mo della nostra era, mentre Stonehenge risale a 2500 a. C.
Il loro maggiore interesse sta in tutt’altro motivo: smentiscono la convinzione, molto “ecologista”, che quella amazzonica sia una foresta primigenia, impenetrabile e naturale, rimasta intatta fino all’arrivo dell’uomo del ventesimo secolo, deforestatore scriteriato. Adesso si scopre che delle tribù indigene già deforestavano certe zone e modificavano il paesaggio “vergine” per scopi utilitari.
“Il fatto che questi siti siano rimasti nascosti sotto una foresta tropicale matura rimette in discussione l’idea che le Amazzoni siano ecosistemi vergini”; ha scritto Jennifer Watling, guida dell’equipe anglo-brasiliana nel Museo di Archeologia ed etnografia dell’Università di San Paolo, che ha fatto la scoperta. “Immediatamente abbiano voluto sapere se la regione era già coperta d’alberi come oggi quando i geoglifi sono stati realizzati”. Ovviamente lo era.
Ma ciò ha indotto il gruppo a impegnarsi in una ricerca di archeologia vegetale, se così si può dire, che ha dato risultati imprevisti. Ricostruendo la storia forestale della zona, s’è appurato che l’Amazzonia di allora era diversa da oggi,meno ricca di biodiversità; la vegetazione è stata monotonamente dominata dal bambù per sei mila anni almeno. Verso il 2000 a.C. sarebbero arrivati i primi umani, che avrebbero cominciato a piantare vari tipi di palma, una vegetazione “utile” che alterato la foresta e fatto arretrare il bambù. Molto più tardi, a cominciare dal 300 a.C. fino al 1400 d. C., gli umani avrebbero creato – quasi certamente col fuoco – piccole radure temporanee dove hanno tracciato i geoglifi. Non si tratta di tracciati di antichi villaggi, perché gli scavi non hanno quasi portato alla scoperta di artefatti umani, e nemmeno di antiche fortificazioni difensive, data la loro posizione non difendibile. “Probabilmente ebbero le funzioni di siti rituali e di riunioni pubbliche, simili alle cinte neolitiche europee”, come appunto Stonehenge.
Non si trattò mai, ovviamente, di deforestazioni così vaste, radicali e permanenti come quelle che l’homo capitalista sta producendo oggi, quando nell’ultimo quarantennio ha già divorato il 20 per cento della foresta amazzonica. Le antiche radure vennero abbandonate dopo qualche tempo (ed altre ricreate), permettendo alla foresta di ricoprirle di nuovo. Ma non era foresta vergine. Una nozione che bisognerebbe diffondere tra i nostri ambientalisti, che quando arrivano al potere nei Comuni montuosi trattano da foresta primigenia anche i nostri boschi di castagni – che sono invece coltivazioni – proibendone la raccolta di legna, dei tronchi marciti, insomma la pulitura del sottobosco praticata per secoli dai nostri coltivatori, e serviva sia a migliorare la produzione di castagne, sia ad evitare che in caso di piogge torrenziali i resto di rami secchi, foglie e sterpi accumulati vengano portati a valle e occludano i fossi (non più curati) e facciano tappo sotto ponti ed argini, trasformando le piogge in alluvioni e le piene di fiumiciattoli e torrenti in esondazioni: com’è accaduto nel novembre 2012 sotto l’Amiata, 6 morti e milioni di danni. Fu un prezzo pagato all’imperiosa ignoranza “ambientalista”, e al mito sinistroide del Buon Selvaggio. Non è mai esistito un Buon Selvaggio, uno stato di natura, né mai è esistita la Foresta Primigenia. Nemmeno le Amazzoni lo sono.