DJ FABO – I COMMESSI VIAGGIATORI DELLA MORTE

                                                              di Roberto PECCHIOLI

 

Ai tempi in cui esisteva la religione, c’era la Compagnia della Buona Morte, il cui compito era assistere i morenti, accompagnarli con la preghiera, la presenza e l’aiuto concreto nell’ora del trapasso. Oggi, abolita l’immagine della Fredda Sorella, abbiamo dei nuovi missionari, anzi, laicamente, i commessi viaggiatori della morte. La loro congregazione deriva dal Partito Radicale, l’esponente più in vista è Andrea Cappato, colui che ha accompagnato in Svizzera per l’ultimo viaggio il povero DJ Fabo. Diciottomila euro, pare, per morire in un ambiente sterilizzato e batteriologicamente puro, con un veleno da pochi euro. Di fronte al mistero della morte, credenti o atei, dovremmo osservare un silenzio rispettoso, e chinare il capo dinanzi al Mistero. Al contrario, la morte del giovane Fabrizio Antoniani, ex disc jockey divenuto cieco e tetraplegico a seguito di un incidente, è stata accompagnata dal baccano sguaiato di cui il mondo radicale, emulo di Marco Pannella, circonda le sue battaglie.

Non vi è nulla di più terribile che prendere posizione di fronte alla vita altrui, allo strazio ed alla sofferenza. Non è questione di dire sì o no ad una pratica, quella della morte assistita, che attiene a quanto di più profondo ed indicibile esiste nel cuore umano. Invece, ancora una volta, urla scomposte, prese di posizione gridate, intransigenti. Ciascuno di noi spera di non trovarsi mai nella condizione di quel giovane di 39 anni, né di vedervi uno dei suoi cari. Quel che disturba ed indigna, una volta di più, è il cinismo rivoltante di chi, dinanzi alla tragedia di una vita, conduce senza vergogna le sue battaglie. Il caso di Fabo è stato portato all’attenzione del pubblico solo in quanto si discute, in parlamento e nella coscienza nazionale, di cose terribili come il testamento biologico, l’eutanasia e tutto ciò che viene chiamato “fine vita”.

Anzi no, non se ne può discutere: quelli del progresso e della civiltà conoscono già ogni risposta, hanno rimosso o escluso qualunque obiezione. Morire è un diritto. Credevamo che fosse una tragedia, e che la risposta, tremante e racchiusa nella speranza, fosse eventualmente il senso religioso. Oppure, la titanica accettazione del destino di chi sa di essere creatura. Non più. Adesso crediamo di sapere quando e se una vita valga la pena di essere vissuta, quindi conservata o cancellata. Abbiamo rovesciato, nella civilizzazione invertita di cui siamo testimoni, perfino il senso della medicina e della cura. Il giuramento di Ippocrate impone(va) di curare, alleviare il dolore, mantenere in vita sin quando possibile. La post modernità la pensa in maniera opposta: la vita può essere soppressa al suo sbocciare, l’aborto è divenuto un diritto della donna, sua è quell’escrescenza, il grumo destinato a diventare un uomo o una donna. Va estirpato a semplice richiesta ed a carico della sanità pubblica.

Ancora più facile è uccidere (non temiamo il significato delle parole) i malati, gli invalidi, i deboli. Qui sta il caso drammatico di Fabrizio Antoniani, lo scarto logico ed il salto ideologico compiuto da chi propaganda la Morte. Fabrizio non era un malato terminale, o qualcuno ridotto a vita vegetativa. Era un invalido grave, uno che la sfortuna o il caso avevano inchiodato ad una vita difficilissima. Non siamo davanti ad un caso di eutanasia, qualunque giudizio possiamo dare di questa pratica, ma di soppressione della vita. Non stupisce il chiasso mediatico, quasi unanimemente schierato dalla parte del bizzarro diritto alla morte. Colpisce, spezza il cuore una società che straparla ogni giorno di solidarietà e che reagisce dinanzi all’irrimediabile in due soli modi. Il primo è la negazione: il Male, la Morte non devono essere alla vista, vanno affidati ad appositi operatori, gli esperti, la postmoderna Compagnia della Buona Morte. L’altro è quello dell’intervento diretto, la soppressione delle vite ritenute indegne. Domani saranno quelle inutili, o improduttive, o quelle di chi ha idee “cattive”. E’ una china terribile, che dall’eutanasia passa al suicidio assistito e conduce all’eugenetica e al transumanesimo.

Fino a pochi anni fa, almeno una voce si levava a favore della vita, o almeno ad esprimere pietà, speranza ed umana comprensione: era quella della Chiesa, per la quale valeva il principio che la vita va difesa sempre, dal grembo materno alla sua naturale conclusione. Ora, tutto quello che sa esprimere una sapienza che viene dai millenni è la conclusione di Famiglia Cristiana sul caso del povero Fabo: perdonaci per non aver saputo darti ragioni per vivere. Un po’ poco davvero, per tutti coloro che soffrono, la reazione rassegnata di chi ha perso la partita e non vuole neppure più giocarla.

Più coerente, lo spirito del tempo canta vittoria. Dagli anni 70 in Svezia si misero al lavoro per rendere indipendenti gli esseri umani: i figli dai padri e viceversa, gli uomini dalle donne, gli sposi dal loro stesso amore. Il risultato è quello di un disinfettato obitorio a cielo aperto, in cui i più vivono e muoiono da soli, lasciando sul tavolo i soldi per le spese. E’ l’esito naturale della società individualista, in cui l’unico amore è Io, finché dura ed è forte.  Il disgraziato Fabrizio aveva una compagna (una moglie no, troppo impegnativo, o definitivo, o burocratico), che ne ha condiviso la scelta. Povera donna anche lei, condoglianze dal cuore, ma siamo convinti che se amava davvero il suo uomo stia piangendo perché non c’è più, e non sia invece sollevata per essersi tolta un peso. Se amiamo qualcuno, vogliamo sempre, disperatamente, anche contro ogni evidenza, che viva, che sia lì. Volere il contrario è contro natura, anche se capita, davanti alla tragicità della vita. Ecco, questo probabilmente è andato perduto per sempre da noi, il sentimento tragico della vita di cui scrisse Miguel de Umanumo e di cui la storia spirituale dell’uomo è il controcanto.

Tutto cancellato. Le leggi sull’eutanasia e sulla morte assistita già in vigore in diversi paesi dell’Occidente più disperato che sazio hanno dimostrato che dopo un iniziale scarsità di casi, aumenta la richiesta. Sì, perché curare è durissimo, soffrire, in prima persona o accanto ad un familiare lo è ancora di più, lo Stato, le assicurazioni contro le malattie premono, con la calcolatrice in mano. Il denaro, Dio di Tutto e del Nulla, comanda e dirige, ordina, campagne di stampa che convincono i più che se non si vive al massimo, la morte è la soluzione. Vado al massimo, canta Vasco Rossi, voglio una vita spericolata e piena di guai. Quelli arrivano senza chiamarli, ma possibile che la soluzione sia la morte? Sì, se siamo immersi in una società dove tutto è partita doppia, dare ed avere, calcolo. Chi trascina la vita da solo, sia pure tra piaceri e successi, non potrà che spegnersi da solo, e basterà una malattia meno severa di quella toccata a DJ Fabo per trascinarci nella depressione, anticamera del desiderio di morte.

Fu Sigmund Freud, gran sacerdote del nostro tempo, maestro del sospetto, a riprendere e dare una vernice scientifica al mito greco di Amore e Morte, Eros e Thanatos, l’eccesso di pulsione che si trasforma in ansia di morte. Vivere costa, e costa amare, avere cura “nonostante”. E’ difficile e scagli la prima pietra chi è certo che saprebbe reggere in drammi simili a quello da cui prende spunto la presente riflessione. Ma come non si vive a cuore leggero, non si può, non si deve morire o dare la morte con altrettanta leggerezza. Si vergognino quanti disprezzano i dubbi e le lacerazioni su temi tanto sensibili, affidando la soluzione alla freddezza dei codici ed alle possibilità della tecnologia. Massimo Fini scrisse una volta che morire è facile, tanto è vero che ci riescono tutti. Anche uccidere è facile, purtroppo, e la storia dell’umanità è lì a dimostrarlo. Uccidere al riparo delle leggi, però, è davvero troppo, specie se le creature da sopprimere sono fragili, sole, disperate.

Le forzature imposte dalla prassi dei necrofori radicali, poi, sono davvero odiose. Non si può decidere di cose enormi, come la vita o la morte, le cure o la loro interruzione, sull’onda emotiva di casi pietosi. Ricordiamo il caso Welby e quello di Eluana Englaro. L’individualismo estremista, unito con i corposi interessi di troppi soggetti forti (assicurazioni, fondi pensione, Big Pharma e simili) diventa l’ultimo urlo di una civiltà che odia talmente se stessa da farsi propagandista della Morte.

Padroni di se stessi, signori della scienza, della volontà di potenza e della dismisura, ci siamo ridotti a signori di quel pauroso Nulla che è la morte senza la speranza, senza la trascendenza, senza quel Dio a cui abbiamo asportato la D.

Un credente prega per l’anima dello sfortunato Fabrizio Antoniani. Un ateo china la testa dinanzi al totalmente Altro. Ma l’addio alla vita di un giovane non è, non può essere lo scatenamento bestiale di un’ideologia di dominio sulla vita e della vita, o una convulsione in più di un mondo in frantumi, che non riusciamo a definire altro che morgue society, l’obitorio più lindo della storia.

 

Roberto PECCHIOLI