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La finestra di Overton della Chiesa
di PAOLO GULISANO
IL PROCESSO SINODALE E LA CRISI DELLA FEDE
Della crisi della Chiesa si sta parlando da diverso tempo, e a ciò si deve aggiungere anche un recente stato di crisi proprio tra le persone che più sono sensibili a questo tema, che lo avvertono in tutta la sua drammaticità. Da questo punto di vista, particolare allarme sta destando il Sinodo sulla Sinodalità che impegnerà la Chiesa dall’autunno del 2023 fino al 2024.
Un anno di lavori, che produrranno documenti, e naturalmente un gran vociare mediatico, che potrebbero rappresentare una vera e propria rivoluzione all’interno della Chiesa Cattolica. Il Sinodo determinerà il modus vivendi e operandi della Chiesa del futuro. Sarà il sigillo del pontificato di Jorge Mario Bergoglio, che avrà esaurito il suo compito, che – come ha sempre enunciato- è quello di “avviare processi”. Temi già dibattuti a livello teutonico potrebbero essere quelli dominanti il Sinodo di tutta la Chiesa: il ruolo delle cosiddette “minoranze emarginate”, l’”inclusività”, la “democratizzazione” della Chiesa, lo stravolgimento del concetto di famiglia, l’abrogazione di fatto del sesto comandamento, e così via. Alla fine del Sinodo potremmo trovaci di fronte ad una Chiesa radicalmente trasformata.
Il Sinodo sarà una tappa fondamentale e cruciale della Finestra di Overton che si è aperta anche per la Chiesa, dopo essersi spalancata per la società civile. La finestra di Overton, come noto, è un approccio per identificare le idee che definiscono lo spettro di accettabilità di politiche governative. I politici possono agire soltanto all’interno dell’intervallo dell’accettabile. Spostare la finestra implica che i sostenitori di politiche al di fuori della finestra persuadano l’opinione pubblica ad espandere la finestra.
E’ avvenuto così per molti princìpi morali e civili, e lo “stato di emergenza” pseudopandemico ha sancito un nuovo paradigma per le libertà personali. Allo stesso modo, è in atto da tempo un processo di metamorfosi della Chiesa cattolica, finalizzata a modificarne il credo, la dottrina, la liturgia, la struttura stessa. Il Sinodo, gestito da una ristretta élite di prescelti, nell’indifferenza quasi generale del popolo cattolico delle parrocchie abituato ad accettare ogni cambiamento in quanto buono per definizione, farà poi in modo di convincere il Popolo di Dio a considerare normali e accettabili (come lo sono già per l’opinione pubblica) comportamenti, scelte e politiche ecclesiali che dovrebbero essere considerate normalmente eterodosse e inaccettabili. Sarà il tracollo mentale di cui aveva parlato quasi un secolo fa Chesterton.
Di fronte a questo scenario, la domanda quasi disperata che si alza, quasi sempre, è: che fare? E’ chiaro che i nuovi padroni della Chiesa Cattolica sarebbero ben felici che gli “indietristi” come si suole definire chi si oppone al processo rivoluzionario, se ne andassero e facessero loro, lo scisma. Probabilmente il senso di responsabilità dei fedeli più legati alla Tradizione li porterà ad un atteggiamento di rispettosa obbedienza, e di sopportazione fino ad una sorta di martirio non cruento ma molto doloroso, nel permanere nella neo-Chiesa. Ma le cose potrebbero anche andare diversamente: tutto dipenderà da fino a che punto si spalancherà la finestra di Overton…
LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO SU: “L’esilio di Dio” – Visione n. 8, Dicembre 2023, € 15.00.
SOMMARIO DI VISIONE N. 8
- Se Dio non c’è, tutto è permesso – Editoriale di Francesco Toscano
- Dum tempus est Finché c’è tempo – Introduzione di Carlo Maria Viganò
Se Dio non c’è, tutto è permesso
Pubblicato il da Francesco Toscano
L’esilio di Dio: un invito a riflettere sulla necessità di un altro sguardo
Nell’era dell’illimitata tolleranza e del relativismo dilagante, la rivista “Visione, un altro sguardo sul mondo” presenta il suo ultimo volume, “L’Esilio di Dio”, con un richiamo provocatorio all’affermazione di Dostoevskij: «Se Dio non c’è, tutto è permesso». Francesco Toscano, nell’introduzione, ci conduce in un viaggio attraverso il panorama moderno, sottolineando la paradossale situazione in cui tutto sembra permesso tranne parlare apertamente di Dio.
Il mensile Visione si propone come spazio di dibattito per affrontare il grande tema della presenza e del ruolo di Dio nella storia umana. In un’epoca in cui qualsiasi teoria può essere difesa senza rischio di riprovazione sociale, la discussione aperta su Dio sembra essere l’unico tabù rimasto, suscitando reazioni violente anche da parte di coloro che si considerano credenti.
Il clamore intorno a questo argomento riflette l’attuale clima di becero materialismo e pseudo-razionalismo, che ha raggiunto il suo apice con l’evoluzione verso uno scientismo grottesco. L’articolo sostiene che molte delle tragedie contemporanee possono essere viste come il risultato della rimozione di Dio dalla coscienza collettiva, lasciando un vuoto che le pulsioni folli e superbe cercano inutilmente di colmare.
La modernità, descritta come una concezione distorta di progresso, offre un’apparente libertà illusoria mentre nasconde una schiavitù sostanziale. La reificazione dell’individuo, la sua riduzione a un consumatore con una data di scadenza, è considerata uno dei frutti amari del capitalismo assoluto.
L’autore mette in discussione l’utilizzo della scienza, evidenziando come, durante la pandemia, la narrazione scientifica abbia assunto toni quasi religiosi. Si sottolinea la necessità di distinguere tra il miglioramento tecnico e scientifico e l’uso distorto della scienza per fini politici.
Il nucleo del ragionamento affronta la sfida della società moderna nei confronti del libero arbitrio, elemento cruciale per coloro che credono in un Dio che offre una via anziché una schiavitù imposta. Si esplora anche la sfida posta dalla società digitalizzata, che, mescolando l’umano e le macchine, sembra sfidare il Creatore.
In conclusione, l’articolo invita alla riflessione critica sulla direzione della società contemporanea, evidenziando la necessità di un approccio più equilibrato e consapevole nei confronti di temi importanti come il ruolo di Dio nella nostra esistenza. Si chiude con la “parabola dei due figli”, un invito a giudicare non dalle etichette, ma dalle azioni concrete.
Non lasciatevi sfuggire l’opportunità di arricchire la vostra comprensione del mondo che vi circonda. Acquistate “L’Esilio di Dio” e unitevi a una conversazione che sfida i limiti imposti dal pensiero convenzionale.
Un cattivo papa, o un papa cattivo?
Di Mattia Spanò | Dicembre 11th, 2023
Foto: papa Francesco
di Mattia Spanò
Quando ne I demoni Dostoevskij introduce il personaggio di Nikolaj Vsèlovodovič Stavrogin, fa un preambolo circa la crudeltà del personaggio. Il risultato è il cattivo par excellence, una figura monumentale, a mio giudizio insuperata.
Il grande russo nel descrivere la perfidia di Stavrogin apparecchia una tensione narrativa – climax simile si ritrova nell’accostarsi di Raskol’nikov all’omicidio della vecchia usuraia in Delitto e castigo – che soddisfa raccontando tre aneddoti su Stavrogin. Questi ad una prima lettura disorientano il pubblico rassegnato ad un’indicibile mostruosità, e che invece assiste a tre fatti, per dir così, domestici. Quasi a significare che il male più carsico è tutt’altro che estraneo alla quotidianità dell’uomo comune.
Sono tre momenti minimi. Nel primo un vecchio trombone col vezzo di ripetere in continuazione la frase “non mi si prende per il naso”, viene afferrato proprio per il naso da Stavrogin davanti a tutti.
Nel secondo, durante un ballo di fidanzamento, Stavrogin bacia la promessa sposa con voluttà e sempre in pubblico. A seguito di questo fatto scandaloso, una spedizione militare diplomatica – Stavrogin è un giovane ufficiale – viene mandata a casa del nostro per chiedere spiegazioni su quell’offesa terribile.
Stavrogin promette che confesserà il motivo di quell’affronto all’orecchio del colonnello, e questo è il terzo episodio. Si apparta con lui vicino alla finestra, e accostando la bocca all’orecchio dell’ufficiale lo morde con forza trattenendolo per lunghi istanti, mentre il secondo ufficiale assiste alla scena convinto che Stavrogin stia davvero confessando la ragione delle sue malefatte.
Il genio poderoso di Dostoevskij si manifesta in almeno tre aspetti estremamente raffinati. Il primo è l’apparenza ridicola di questi fatti, che appaiono persino comici. E la comicità ha sempre un che di sulfureo.
In anni vicini a Dostoevskij Baudelaire scriverà un saggio sul riso mettendone in luce l’essenza satanica. In questo caso Baudelaire – la cui sensibilità acuminata è affine a quella del romanziere russo – porta l’esempio di chi assiste ad una caduta rovinosa di qualcuno che scatena le risate di fronte al dolore umano. Gesù Cristo, chiosa il poeta, è uno che non ha mai riso in vita sua, specie considerata la gravità della sua missione e il carattere drammatico della vita umana.
Il secondo aspetto, meno evidente, è l’assoluta mancanza di movente e di scopo nelle azioni di Stavrogin, la gratuità sfrontata che in fondo è il brodo di coltura dell’autentica cattiveria. Lo scrittore russo sembra considerare con ironia l’imbarazzo e la ricerca ostinata di motivazioni da parte dei “buoni” in offese mortali che al contrario non ne hanno alcuna. Mentre il buono spiega, il cattivo distrugge.
Il terzo è la mortificazione della vittima, che viene colta alla sprovvista e spietatamente annichilita. La mortificazione, lo dice la parola, è l’uccisione dello spirito in un uomo vivo.
Un altro accento della crudeltà di Stavrogin è il vilipendio in odio alla carità che egli fa della goffa natura umana. Stavrogin in nuce è l’uomo incapace di simpatia per l’uomo. È il canzonatore dell’uomo comune, che il quale si suoi occhi appare come lo sciocco che spera in qualcosa di immeritato come una grazia divina o, in mancanza di meglio, sociale.
Qualcosa di simile alla psicologia di Stavrogin si rintraccia in non pochi gesti e parole di papa Francesco. Ad esempio nel fatto recente di aver tolto casa e stipendio al cardinal Burke. Un gesto di bassezza e meschinità che impietriscono.
È difficile non trovare un riferimento esplicito a questo gravissimo provvedimento in queste parole del papa: “Si può essere anche canonisti (Burke è un canonista, ndr), ma nel modo di ragionare essere senza fede. Tutte le dimensioni e strutture ecclesiali debbono operare una conversione pastorale e missionaria, per portare al mondo l’unica cosa di cui ha bisogno: il Vangelo della misericordia di Gesù […] anche quando va applicata una sanzione severa a chi avesse commesso un delitto molto grave, la Chiesa, che è madre, gli offrirà l’aiuto e il sostegno spirituale indispensabili perché nel pentimento possa incontrare il volto misericordioso del Padre. Di questo compito sono investiti tutti i battezzati, ma specialmente i Vescovi e i Superiori Maggiori. È così che la Chiesa missionaria evangelizza anche attraverso l’applicazione della norma canonica. […] Siate consapevoli di essere strumenti della giustizia di Dio, che è sempre indissolubilmente unita alla misericordia”.
A quanto pare Bergoglio, che pratica la sospensione del giudizio nel caso di omosessuali “che cercano Dio” – l’ormai celeberrimo “chi sono io per giudicare?” – non si fa alcuno scrupolo nell’accusare Burke di non avere fede. Giudizio tagliente che riservò anche ad un altro americano illustre bollato di non essere cristiano, Donald Trump, perché non ne condivideva le politiche di contenimento dell’immigrazione.
Tralasciando il fatto che il papa applichi a Burke, già bersaglio di parole tremende del papa quando si trovava in terapia intensiva per il Covid, con scrupolo lo stesso principio alla base del green-pass – la cancellazione dei diritti più elementari e la privazione dei mezzi basilari di sussistenza, casa e reddito, se contraddici l’autorità – ho già scritto che la puntigliosa descrizione che Bergoglio fa della misericordia divina indiscriminata e avulsa dal peccato spalanca le porte, nella sostanza, alle peggiori nefandezze. Se tutto è perdonato a credito, se siamo già salvi, il male più sfrenato è del tutto lecito. “È così che la Chiesa evangelizza”, conclude il papa. Roba da scappare a gambe levate.
La dimostrazione della validità del teorema la fornisce il papa stesso: priva di tutto un cardinale, un uomo di settant’anni, e affermando che è una cosa buona per la sua crescita personale. È davvero arduo immaginare un’esibizione di ipocrisia più laida di questa.
Per la verità non è la prima volta che in ambito cattolico mi capita di assistere a simili storture malamente mascherate da “bene della vittima”. L’umiliazione, la mortificazione del prossimo suffragata da autentici Smeagol spirituali come aiuto alla sua crescita spirituale e personale. Un’ignominia della più bell’acqua che trova zelanti esecutori in non pochi ambienti cattolici. Una menzogna peccaminosa che grida vendetta al cospetto di Dio.
C’è un altro aspetto nella vicenda letteraria di Stavrogin che ricorda da vicino il papa argentino. Dostoevskij inserisce Stavrogin nella cornice di una civiltà morente, quella della Russia zarista, ormai soffocata da un formalismo anche spirituale che la rende sonnacchiosa e incapace di reagire alla violenza del male.
Qualcosa di simile sembra attraversare ciò che resta del cattolicesimo romano imbelle di fronte ai raid dottrinali e spirituali di un pontefice che non fa mistero di detestare l’eredità cattolica in toto. Così come lo stesso cattolicesimo risulta friabile, a orror del vero, al cospetto di istanze culturali smaccatamente anticristiane. Il cattolico adulto ormai dialoga apertamente coi fantasmi che popolano la sua mente, o con figure che Cristo, nella sua sapiente mitezza, chiamerebbe sobriamente “razza di vipere”.
In questo senso l’intero pontificato di Bergoglio si manifesta come un sintomo terminale di questa cupio dissolvi che aleggia da decenni nella Chiesa Cattolica. L’impressione è che anche in chi non condivide o critica il magistero di Bergoglio – ammesso che ne abbia uno – non abbia alcun fatto oggettivo da opporgli. A parte una blanda critica ossequiosa, che giunti al tramonto lascia il tempo che trova, e certo non scalfisce di un’unghia la fredda determinazione con la quale papa Francesco porta i rottami della Chiesa all’isola ecologica più vicina.
A Bergoglio, come del resto al titanico Stavrogin, bisogna riconoscere il merito oggettivo di mettere in luce i limiti di una fede stanca, esangue e depressa al punto da vivere la propria negazione come affermazione di sé.
Se consideriamo la fede come quella forma di ragione che travalica la morte – ragion per cui ad esempio si fanno figli ben consapevoli che un giorno saranno mangime per vermi, il che in qualche misura sembra vanificare tutto l’amore che si possa nutrire nei loro confronti – allora il fatto che papa Francesco non sia semplicemente un cattivo papa, ma un papa cattivo, non è questione accademica ma sostanziale.
L’incapacità di chiamare le cose col proprio nome, cercandoscorciatoie come Cappuccetto Rosso nel bosco, è il preambolo della fine. Questo genere di annebbiamento della fede e della ragione non segue Bergoglio, ma lo precede e di questo passo gli sopravviverà. Trionfalmente.