Stefano Fontana, Nuova Bussola Quotidiana
Dopo l’incontro milanese tra Chiesa e massoneria, monsignor Staglianò interviene ancora su Avvenire, con una lunga riflessione sul dialogo, che sarebbe l’essenza della Chiesa. È una visione modernista, che è di scandalo per i fedeli.
EDITORIALI 08_03_2024
Dopo il recente convegno tra Chiesa e massoneria tenutosi a Milano è tornato di gran moda il tema del dialogo. Lo riprende su Avvenire anche monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia e uno dei protagonisti del colloquio milanese. Sembra essere tornati indietro di cinquant’anni. Allora, dopo la Ecclesiam suam e il Concilio, la parola d’ordine era dialogo. Prima di tutto dialogo con il mondo moderno.
L’idea era di dialogare con l’uomo moderno, ma come si poteva farlo senza assumere i suoi modi di pensare e di parlare? Per questo allora il dialogo non fu solo con l’uomo moderno ma con il pensiero moderno, che venne di fatto assunto e fatto proprio per poter dialogare. Tutti sanno che chi assume il linguaggio altrui come strumento del dialogo ha già perso, ha alzato bandiera bianca con le proprie mani e l’esito del dialogo è già determinato.
Questo è stato uno dei tanti errori dell’epoca conciliare: voler dialogare col mondo contemporaneo assumendone le categorie di pensiero. L‘ondata di ritorno nella teologia cattolica è stata travolgente. Lo stesso è stato il dialogo col marxismo. Tutti i teologi che lo intrapresero divennero marxisti. Ricordo ancora bene, per esempio, il caso del salesiano Giulio Girardi. Oggi capita lo stesso con le nuove ideologie moderniste, tra cui la principale è senz’altro la massoneria. Alle difficoltà già evidenziatesi allora, oggi si aggiunge il fatto che la dimensione del dialogo è stata aperta ad una più ampia generalizzazione.
Oggi, come dice Staglianò, si afferma che “La Chiesa è dialogo”. Non solo essa deve entrare in dialogo, come sollecitava Paolo VI, ma essa consiste nel dialogo, la sua essenza è dialogica, il suo fine è il dialogo. A maggior ragione, allora, essa deve dialogare con tutti e dialogare sempre e comunque: prima di tutto il dialogo. Ma se dialoga sempre e con tutti, e se lo fa come negli anni Sessanta e Settanta si faceva col marxismo, dovrà far propria in modo ancora più radicale le categorie di pensiero degli interlocutori, di tutti nessuno escluso. E infatti proprio questo sta avvenendo nella Chiesa, in forme ancora più radicali che non in passato.
Sostenendo che la Chiesa è dialogo, si riconosce al dialogo un carattere essenziale per la Chiesa. Essendo il dialogo un processo, sostenere che la Chiesa è dialogo significa che essa è assolutamente processo, ossia storia. Significa, in altre parole, pensare che la sua natura divenga storicamente tramite la prassi sostanziale del dialogo e che l’assunzione delle categorie di pensiero proprie dei vari momenti storici sia per lei fondamentale, con la conseguenza che la Chiesa diventa continuamente altro proprio in dipendenza con la sua apertura strutturale alle categorie di pensiero di volta in volta contemporanee.
Qui troviamo però l’essenza del modernismo e rimarrebbero da spiegare i motivi della sua condanna da parte del magistero. Certo è che tale condanna diventa impossibile se la Chiesa assume come proprie, per poter dialogare, le categorie di pensiero di quanti sono di volta in volta i suoi compagni di viaggio, sostenendo per di più che questa è la sua essenza.
Chi ha una visione del mondo può certamente chiacchierare con chi ne ha una diversa. Ma quando si parla di dialogo non ci si riferisce al chiacchierare. Il cattolico può dialogare con il musulmano ma, come diceva Benedetto XVI, quando si parla di alta teologia il dialogo è impossibile. Tra il Dio cattolico e il Dio musulmano non c’è dialogo che tenga. Benedetto diceva anche che rimane possibile il dialogo al di sotto di questo livello alto, per esempio nel campo dei diritti umani. Ho qualche dubbio anche su questo, dato che quel livello alto influisce notevolmente anche in questi livelli più bassi. Ma concediamo … perché il punto diventa un altro: qui il dialogo eventuale non è più la chiacchierata al mercato o tra vicini di casa, ma deve essere disputa. Il dialogo socratico non era una chiacchierata, era una disputa e lo stesso avveniva nel Medioevo nei “dialoghi” da cui nascevano i libri delle Quaestiones disputatae. Ogni articolo della Summa di Tommaso è un dialogo dialettico che procede per confutazione.
Oggi però l’assolutizzazione del dialogo vieta di intenderlo come disputa. Si dice infatti spesso di cominciare da quanto ci unisce, mentre la disputa è la ricerca di quanto ci divide, non per motivi soggettivi ma oggettivi, e l’approdo ad una verità che con la sua forza cogente è poi anche capace di unire, ma dopo e non prima.
Il dialogo con la massoneria non sarà quindi una disputa, ma la ricerca di una verità comune non perché sia verità ma perché sia comune o, come sarebbe meglio dire, consensuale. La necessità di rendere ragione della nostra fede, che Staglianò ricorda, implica la disputa e non la chiacchiera, è un processo di duro, anche se leale, scontro. È una forma di apologia, altro termine che l’assolutizzazione modernista del dialogo ha bandito ma che mantiene tutta la sua validità. L’apologia con cui Socrate si difende davanti alla Bulé richiede un grande rigore, personale prima di tutto e poi anche nel chiamare anche i giudici al tribunale della verità. Non si tratta di chiacchiere ma di argomenti come passaggi di una vera e propria lotta. Gli ammiccamenti con i “fratelli massoni” non hanno queste caratteristiche.
Infine, un punto minore ma non trascurabile. San Tommaso dice che affinché il dialogo sia accettabile e lecito non bisogna che dia scandalo nei confronti dei semplici. Se tra gli spettatori del dialogo ci sono delle persone che potrebbero rimanere colpite nella fede e confuse nei principi, il dialogo cessa di essere conveniente. Che questo sia il caso del dialogo con la massoneria è più che certo.