Il 27 luglio, a fianco di Putin visita al presidente della Finlandia, è apparso di nuovo Sergei Ivanov. Giusto un anno fa, nell’agosto 2016, l’uomo era stato congedato , se non rimosso, dalla posizione di capo dello staff di Vladimir Putin; con tutti gli onori e ringraziamenti del caso, il presidente l’aveva nominato suo “rappresentante speciale per l’ambiente e le questioni dei trasporti”. Una carriera ventennale nella sezione esteri del KGB, poi nel ’98, quando Putin divenne direttore del FSB chiamato da lui a fargli da vice, capo del Consiglio di Sicurezza, poi energico ministro della Difesa, vice primo ministro e infine capo dello Staff – Sergei Borisovic Ivanov è sempre stato visto come il braccio destro di Putin, che lo ha sempre chiamato personalmente ai posti successivamente ricoperti, suo uomo di fiducia, e – insieme – il rappresentante dei Siloviki (“uomini della forza”), la vecchia guardia patriottica degli Kgb al potere fuori di vista. Energico carattere, personalità rilevante e fine analista, era da sempre considerato anche l’esponente dell’ala della fermezza, e il consigliere dell’ala dura accanto a Vladimir.
Il suo congedo a 63 anni fu dunque interpretato come una vittoria della linea duttile e pieghevole, diplomatica, mirante alla concciliazione ed amichevole, di Putin verso gli occidentali, contro un’ala dell’Establishment che ha sempre considerato quella linea troppo molle.
Adesso, la ricomparsa di un redivivo Ivanov accanto a Putin in una missione estera (a meno che non sia occasionale: Ivanov è stato capostazione del KGB ad Helsinki e parla l’improbabile lingua locale), è un segnale che qualcosa di profondo è cambiato nel Deep State russo. Dopo le mille provocazioni in Siria e Ucraina, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’isteria anti-moscovita del Congresso e la raffica di nuove sanzioni, e la minaccia di fornire armi anticarro a Kiev: è perduta la speranza di organizzare un modus vivendi normale e stringere accordi distensivi con gli Usa, su cui Putin basava i suoi metodi e la sua flessibile diplomazia. Nonostante una popolarità che resta mai vista (l’83%) presso i russi, Putin “si trova sempre più vulnerabile ad una critica”: quella di “mollezza”. Gli ambienti che contano, in Russia, hanno visto che la pazienza di Vladimir non ha portato a nulla, anzi: mai le relazioni con Washington e l’Europa sono state peggiori, nonostante tutti gli sforzi.
Lo ha detto lo stesso Putin durante la visita in Finlandia, a proposito delle forsennate nuove sanzioni del Congresso. Il comportamento americano “distrugge le relazioni internazionali e il diritto internazionale. Noi ci siamo comportati in modo trattenuto e paziente, ma ad un certo punto bisogna rispondere. Ci è impossibile tollerare all’infinito questo genere d’insolenza verso il nostro paese”.
Se anche Medvedev è diventato un duro…
Va notata anche la reazione del primo ministro Dimitri Medvedev alle nuove sanzioni. Medvedev può essere visto come l’opposto di Ivanov: liberista, filo-occidentale, moderato, persino “atlantista”. Succeduto a Putin come presidente della Federazione nel 2008 fino al 2012, è stato Medvedev a firmare il New START, una (ulteriore) riduzione congiunta delle armi atomiche con gli Usa, che è stato anche un”reset” (riaggiustamento) delle relazioni russo-americane, danneggiate dalla guerricciola della Georgia (armata dagli israeliani) nel 2008; ad aumentare la cooperazione con gli altri Paesi della NATO; a far entrare la Russia nella Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2011. Insomma un personaggio fin troppo conciliante, per gli eurasiatisti alla Dugin persino una quinta colonna del monetarismo, e relativamente incolore. Ebbene: la sua reazione è stata violenta, espressa in un linguaggio pesante ed in qualche modo irrevocabile, di fronte al quale le frasi di Putin (la Russia “ha ancora molti amici” in America, là esistono ancora “persone di testa sobria”) sono sembrate camomilla.
Cosa ha detto, anzi scritto su Facebook, Medvedev? Che le nuove sanzioni contro la Russia portano “a tre conclusioni. La prima è che bisogna abbandonare ogni speranza di qualunque sia miglioramento den nostri rapporti con la nuova amministrazione; la seconda, che gli Usa hanno appena dichiarato una guerra economica totale contro la Russia; la terza, che l’amministrazione Trump ha ceduto il potere esecutivo al Congresso nel modo più umiliante e si trova praticamente privata del potere”.
Finito il linguaggio diplomatico e cortesemente reticente. “Lo scopo finale dell’Establishment washingtoniano è di eliminare Trump dal potere. L’isteria antirussa è diventata un fattore essenziale non solo della politica estera, ma anche della politica interna Usa, e questo è nuovo. Le sanzioni sono divenute un fattore strutturale e dureranno decenni, salvo un miracolo […] non prevedono alcuna deroga e non possono essere sollevate da un ordine speciale del presidente senza l’accordo del Congresso. Di conseguenza, le relazioni fra la Federazione Russa e gli Stati Uniti diverranno estremamente tese quali che siano la composizione del Congresso e la persona del presidente. Né potranno essere aggiustate da organismi internazionali e dal rifiuto di risolvere i problemi maggiori”.
Ed ecco la conclusione di Medvedev:
“Cosa significa per la Russia? Noi continueremo a lavorare per lo sviluppo delle sfere economiche e sociali, ci adatteremo per trovare sostituti alle importazioni, adempiremo ai compiti principali dello Stato, contando essenzialmente su noi stessi. Abbiamo cominciato ad imparare a farlo negli ultimi anni. Nella maggior parte dei mercati finanziari, gli investitori e i creditori esteri avranno paura di intervenire in Russia per via della possibilità di sanzioni. In un cero modo, ciò ci farà bene nonostante le sanzioni siano, in generale, insensate. Ci arrangeremo”.
E’ un discorso da stato di guerra. Dove Medvedev rinuncia alle sue speranze personali di integrazione globale, e descrive con precisione e crudo realismo la realtà della nuova situazione, senza edulcorazioni; e in uno scritto destinato all’intera opinione pubblica, non alla camera caritatis di un’oligarchia. E’ appena il caso di notare che da noi non solo in Italia, ma in Europa non esistono governanti così espliciti e franchi verso i concittadini; da noi danno sempre l’impressione di nasconderci qualcosa, o che la cittadinanza non possa sopportare la verità.
Putin si ripresenterà alle elezioni del 2018?
Ancor più notevole è che questo discorso del molle e liberale Medvedev può sembrare una analisi cruda e recisa del “duro” Ivanov. E se Medvedev parla come Ivanov, è un segno di una rinsaldata unità fra due ali che possono divergere sui dettagli, ma che di fronte al pericolo estremo, convergono con decisione. Il che pone una domanda su Vladimir Putin: fino a che punto questa saldatura lo indebolisce? Sarà ancora lui a gestire una politica estera così cambiata, oppure passerà la mano? Dopotutto, è al potere da diciassette anni (come presidente e come primo ministro), ed ha lasciato affiorare qua e là una certa stanchezza – ben comprensibile, nel ventennio più drammatico della storia russa e mondiale . Lui stesso ha lasciato intendere che forse non si candiderà alle presidenziali del 2018; ed anche senza dar credito alle voci di una sua malattia, sarebbe naturale un avvicendamento.
Un passo indietro può essere perfino l’ultimo dei grandi servizi che ha reso alla sua patria. Togliere il bersaglio in cui si è fissata ossessivamente , monotematicamente – tipico del deliro psicotico – la voglia americana di distruzione. Infatti, come ha raccontato il Wall Street Journal echeggiando noti pareri del Deep State, “lo scopo di [fornire] armamento letale [all’Ucraina] è alzare il prezzo che Putin paga per il suo imperialismo, fino a che si ritiri o si pieghi alla pace … I russi non vogliono soldati morti che tornano a casa nei sacchi prima delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo”. E’ la sete di assassinio puro, ma potrebbe essere sorpresa se alle presidenziali del 2018, che l’assassino vuole rovinargli portandogli dei cadaveri sotto casa, Putin non ci fosse.
Certo è che, come scrive Dedefensa, “In ogni caso è difficile pensare che il comportamento erratico e furioso di Washington la Pazza non abbia conseguenze sulle elezioni presidenziali del 2018 , con l’annuncio, con Putin o senza lui, di un indurimento russo”.
E un avvento di duri al Cremlino è estremamente pericoloso perché, a parere di chi scrive, la Russia non ha la forza reale per sfidare in una guerra mondiale gli Stati Uniti, cosa che il Deep State dissennatamente vuole; e che nello stesso tempo i duri possono sentirsi messi con le spalle al muro e tentati di azzardare il tutto per tutto militare prima che si completi il dissanguamento della Russia, economico e militare, che è lo scopo strategico degli psicotici: la situazione di disperazione in cui Roosevelt mise il Giappone spingendone i comandi a tentare Pearl Harbor. La guerra avverrà in Ucraina, è certo; nelle volontà, sarà una guerra “limitata”. Come sempre le guerre mondiali.
Bruxelles, altre sanzioni a Mosca
Inutile, in questo grave passo, guardare all’Europa per una soluzione. Sapete cosa ha fatto Bruxelles venerdì scorso? Ha imposto nuove sanzioni a tre imprenditori e aziende russe, per via delle due grandi turbine Siemens che sono apparse in Crimea mentre la Siemens le aveva vendute a un’altra regione, volendo rispettare le sanzioni Usa che vietano ogni rapporto economico con la Crimea occupata. I beni dei tre imprenditori in Europa sono stati congelati, ed essi stessi rischiano l’arresto se tornano qui.
Una politica estera zombificata è quella europea, del tutto sorda e cieca al rovesciamento velocissimo della situazione geopolitica. Bruxelles la Zombie continua ad eseguire le istruzioni di Washington la Pazza.
..E la Libia accusa Gentiloni davanti alla “comunità internazionale”. Di cui il conte dice di avere l’appoggio.
Ma nessuno supera nella zombificazione il nostro Gentiloni: non solo l’abbiamo visto fare un accordo con un Sarraj che notoriamente è un miserabile piccolo fantoccio in mano alle sue stesse milizie, e alle sua fazioni divise nel suo microscopico regno, e appena tornato a casa ha dovuto rimangiarsi le promesse fatte ad Alfano. Non solo il governo mai eletto, sulla questione libica, ha offeso Haftar, il contendente vincitore, che ha la forza reale e le alleanze reali che contano (fra cui l’Egitto da cui la sinistra vuole “la verità su Regeni”), e che ormai è stato legittimato dall’invito di Macron: ma no, Gentiloni fa come se Haftar non esistesse nemmeno, e parla con un Sarraj che continua a definire “il solo riconosciuto dalla comunità internazionale” – una comunità internazionale che palesemente non esiste più.
Adesso, il vice di Sarraj, questo Fathi Al-Mejbari, non solo ha ingiunto all’Italia “di cessare immediatamente la violazione della sovranità libica”, perché la presenza di navi da guerra italiane nelle acque libiche “non rappresenta e non esprime né la volontà dell’intero Consiglio, né del governo di intesa”. Ha anche fatto appello a quella “comunità internazionale” cui Gentiloni dice di obbedire, chiedendo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e (oltreché alla Lega Araba e all’Unione Africana) di condannare l’intrusione italiana. Finirà che ci troveremo le nostre navi affondata dai cannoni delle milizie di Libia, e saremo condannati pure dall’Onu – dove le ONG hanno tanta voce – per violazione delle acque territoriali. Non ci stupirebbe apprendere che per aver invaso la Libia, Bruxelles la Zombi ci applicherà delle sanzioni. Ma chi più zombi della Farnesina che di fronte alle intimazioni del vicepresidente di Sarraj risponde che “ l’ostilità di alcune fazioni libiche alla missione rientra nella «dinamica del dibattito interno», «che l’Italia rispetta pienamente», e «non inficiano in alcun modo il rapporto di cooperazione tra i due Paesi»? La missione insomma va avanti.
In qualunque paese, una così fitta raffica di meritate disfatte di politica estera, di tante umiliazioni geopolitiche raccolte dalal totale insipienza dei nostri “leader”, di tante prove che questo governo non conta nulla agli occhi non solo degli “alleati”, ma delle ONG internazionali, al punto che persino un capetto libico da noi sicuramente pagato (facciamo la politica delle mazzette – senza di noi Sarraj non avrebbe i soldi per sopravvivere politicamente) può prenderci a schiaffi – in qualunque oaese un gruppo di tali cretini sconfitti si sarebbe dimesso e non ne sentiremmo parlare più. Niente, questa sinistra inetta unisce la ignoranza e incapacità estera all’arroganza. E non stupisce. Un popolo-zombi si lascia governare da partiti-zombi. Risultato, si troverà in guerra senza saperlo.