AIUTI ALLE BANCHE O REPRESSIONE FINANZIARIA? di Luigi Copertino

AIUTI ALLE BANCHE O REPRESSIONE FINANZIARIA?

Sembra che, in questi giorni, sia stata pubblicamente pronunciata l’espressione maledetta in sede europea: “aiuti di Stato”. A pronunciarla, insieme a Matteo Renzi che lo ha fatto in modo soft, sono stati, nell’ultima convention dell’ABI, il Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, ed il Presidente della stessa Associazione Bancaria Italiana, Antonio Pattuelli. Il ministro dell’economia, Padoan, ha fatto loro prudentemente eco.

La struttura ordoliberale dell’UE, pensata in chiara funzione antikeynesiana, ha da tempo messo al bando l’idea che gli Stati possano aiutare le proprie imprese mediante sostegni finanziari pubblici. Il divieto è giustificato con la tutela della concorrenza, che gli aiuti di Stato finirebbero per distorcere avvantaggiando le imprese nazionali rispetto a quelle estere, e con il dovere di evitare azzardi morali sia da parte degli imprenditori che da parte dei politici, ossia di mettere al bando il “capitalismo assistito”.

Ora però ad essere sull’orlo del tracollo sono le banche europee, non solo quelle italiane. Se Monte dei Paschi e le altre banche della Penisola hanno problemi di sofferenze creditizie – la crisi ha disastrato i bilanci di famiglie ed imprese che non sono più in grado di ripagare i prestiti ottenuti – le banche tedesche, ad iniziare da Deutsche Bank, hanno la pancia piena di derivati ossia di crediti inesigibili per definizione trattandosi di strumenti finanziari che funzionano solo fino a quando il gran casinò virtuale della speculazione globale gira per diventare, appunto, inesigibili non appena la ruota si inceppa e si ferma. Si è calcolato che non meno del 20% dei colossali bilanci delle banche tedesche siano costituiti da presunti attivi da derivati, non esigibili e quindi trasformatisi in veri e propri “buchi neri finanziari” capaci di travolgere l’intera struttura finanziaria europea. L’incidenza dei derivati nei bilanci delle banche italiane non tocca, invece, il 5%. Questo giusto per riequilibrare il moralismo tedesco così rigido verso il permissivismo e la poca produttività degli italiani. Gli amministratori di Deutsche Bank e di altri istituti di credito tedeschi, in barba al moralismo che evidentemente va bene solo se applicato agli altri, non hanno avuto pudore, dopo aver perennemente condannato la prassi mediterranea delle coperture statali, di chiedere al governo della Merkel un piano di salvataggio di almeno 150 miliardi. Che, forse, otterranno se le cose si dovessero mettere davvero male.

I vari Catoni Censori dell’ortodossia eurocratica dovrebbero adesso dimostrare tutta la loro fermezza, quella finora inflessibile quando a soffrire sono state le industrie ed i lavoratori licenziati dalla crisi o gli Stati aggrediti dalla speculazione. Il dogma ordoliberale, infatti, vieta, dovrebbe vietare, qualsiasi aiuto di Stato anche nel caso delle crisi bancarie. Se le banche hanno azzardato speculando – così recita la liturgia ordoliberale – devono tirarsi fuori da sole dall’impiccio. Presupposto di tale professione di fede è, infatti,  la convinzione, del tutto libresca, del mercato autoregolatore, che tutto aggiusta da solo. E sarebbe bello, buono e giusto se tale convinzione corrispondesse alla realtà effettiva delle cose. Ma non è così.

Della non corrispondenza tra il dogma ordoliberale e la realtà storica se ne sono accorti negli Stati Uniti con il fallimento della Lehman Brother, nel 2008, che rischiò di travolgere l’intero sistema finanziario americano e quindi globale. Se ne sono accorti, sempre nel 2008, in Inghilterra quando il governo conservatore fu costretto a nazionalizzare la Northern Bank sull’orlo del precipizio con i correntisti che già ne assalivano gli sportelli nella corsa a chi prima ritirava i propri risparmi. Se ne accorsero anche nell’UE, tra il 2008 ed il 2013, quando, con l’istituzione dell’Esm, si decise di salvare le banche franco-tedesche, esposte verso il credito privato greco diventato inesigibile, accollando sui bilanci pubblici i costi del salvataggio.

Ma, allo scopo di non sconfessare platealmente il dogma, camuffando sotto forma di “Fondo Salva Stati”, appunto l’Esm, il sostanziale aiuto pubblico alle banche speculatrici, nell’UE ordoliberale si è introdotta, dal 2015, la normativa del Bail-in, “salvataggio interno di mercato”, sulla base della quale a rispondere dei deficit bancari devono essere gli azionisti e gli obbligazionisti delle stesse banche. Ma anche, e questo è uno degli inganni sottesi a detta normativa, i correntisti ed i depositanti. Si è detto che si tratta solo di quelli con depositi superiori ai centomila euro ma, in realtà, nulla garantisce che detta soglia non sia all’occorrenza abbassata o che non siano in qualche modo trascinati nei fallimenti bancari anche i piccoli risparmiatori. Senza poi contare che a depositare somme ingenti in banca sono solitamente gli imprenditori che, se rimanessero travolti da un eventuale fallimento della loro banca, sconterebbero – in un assurda mescolanza, sebbene indiretta, tra capitale finanziario e capitale industriale – gli effetti del tracollo bancario sulle loro aziende e sui posti di lavoro da esse garantite.

Di fronte a questa dimostrazione pratica – che ci si poteva evitare se non si fossero ciecamente seguiti i dogmi ordoliberali – dell’incapacità di autoregolazione del mercato, in particolare del mercato finanziario, ora in sede UE, senza ammetterlo apertamente, si ha intenzione di chiudere un occhio e di autorizzare deroghe al Bail-in per il Bail-out ossia di acconsentire ai vituperati aiuti di Stato.

E tuttavia l’intera faccenda suscita indignazione perché ogni qualvolta si è trattato, come di recente da noi per il caso dell’Ilva, di ipotizzati interventi dello Stato a salvaguardia delle imprese in difficoltà e dei posti di lavoro a rischio, la risposta di Bruxelles è sempre stata un deciso e perentorio “no!”. Adesso, però, che ad essere in difficoltà sono le banche ecco che la stessa eurocrazia, Juncker, Tusk, la Merkel, Schauble, Draghi, e via dicendo, si mostra più flessibile e financo disposta a tacitare il proprio ordoliberismo rigorista e dogmatico. Questo fa capire, ancora una volta, chi è il vero padrone tra la politica e la finanza.

Quando, durante un convegno, un paio di anni fa, feci notare ad un docente di economia questa strana ed assurda dogmatica secondo la quale gli Stati devono essere incaprettati dall’austerità, e quindi costretti a tagliare servizi ai cittadini, mentre le banche vengono salvate con pubblici interventi – il mio riferimento in quell’occasione era al caso della Lehman Brother – mi fu risposto che il salvataggio delle banche è necessario al fine di non far crollare l’intera economia globale. Too big to fail!

Eppure la storia dimostra che l’intervento pubblico può avere altre efficienti impostazioni, altre finalità etiche ed altri benefici effetti.

Ammettere “aiuti di Stato” intesi solo come erogazioni a fondo perduto o prestiti agevolati dello Stato a privati in fallimento non è affatto un intervento di politica economica keynesiana. Casomai è stata, in passato, una prassi di comodo finalizzata alla costruzione elettoralistica del consenso.

In altri contesti – sia democratici come quello dell’America di Roosevelt sia autoritari come quello dell’Italia socialnazionale di Mussolini – l’intervento pubblico di salvataggio delle imprese e delle banche in crisi, a causa degli azzardi morali di un finanza troppo libera, dell’incapacità degli imprenditori e dei limiti intrinseci del mercato che non è affatto un meccanismo armonico ed equo, non è avvenuto lasciando inalterate le istituzioni e le regole fino a quel momento vigenti.

A seguito del grande crollo del 1929, durante gli anni del New Deal, intere dinastie di banchieri, fino ad allora ritenute intoccabili, e noti ed influenti money manager furono sottoposti a processo parlamentare. Il Congresso americano aprì una serie di inchieste per capire cosa era successo e sullo scranno degli imputati/testimoni furono chiamati i Rockefeller, i Morgan, i Mitchell, i Wiggin, i Lamont ed altri ancora. Gli uomini del New Deal avevano ben individuato il nemico della nazione in questi esponenti della casta finanziaria e li sottoposero alla pubblica gogna costringendoli ad abbassare la trionfa alterigia alla quale erano abituati ed a sottostare alle riforme che il governo Roosevelt andava mettendo in atto e che consistevano in provvedimenti volti alla cosiddetta “repressione finanziaria” ossia a vincolare l’attività finanziaria verso obiettivi utili all’economia reale sottraendola alla tentazione autoreferenziale e speculativa.

In Italia, negli anni ’30 del secolo scorso, tecnici a-fascisti come Alberto Beneduce – socialista e massone (1) – e Donato Menichella (2), coperti dalla protezione politica e dalla fiducia personale di un Mussolini nient’affatto dimentico del suo socialismo, imposero ad industriali e banchieri, fino ad allora abituati ad essere trattati dai governi (non escluso quello fascista della fase di compromesso ancora semi-liberista degli anni ’20) con i guanti bianchi, una ferrea disciplina che si spinse fino alla parziale nazionalizzazione, mediante l’istituzione dell’Iri e dell’Imi, del patrimonio industriale e finanziario italiano. Furono così create le basi del sistema economico “misto” del dopoguerra.

Che la festa per i banchieri fosse finita se ne accorse, ad esempio, Josef Leopold Toeplitz, il banchiere polacco di origine ebraica, ma naturalizzato italiano, presidente della Banca Commerciale Italiana (la Comit), quando, recatosi da Beneduce con la convinzione di trovare presso di lui gli “aiuti di Stato” senza contropartita, si vide platealmente e rabbiosamente messo alla porta ed alla fine subì anche la nazionalizzazione delle partecipazioni industriali in possesso della sua banca. Infatti, l’idea di fondo di Beneduce era quella di un intervento statale nell’economia del paese che, però, doveva essere contenuto nei limiti del controllo finanziario e non estendersi anche a compiti di programmazione e di gestione, in modo da limitare l’influenza dei gruppi privati sulla politica senza però immettere quest’ultima nella gestione industriale ed evitando così il rischio dell’affidamento della conduzione delle imprese a personaggi incompetenti e scelti solo per “meriti politici”. Questa concezione di tipo “produttivistico” era quel che, neanche tanto segretamente, univa il socialismo riformista di Beneduce, che militò nel partito socialista con la corrente di Bissolati, ed il socialismo massimalista di Mussolini, che nello stesso partito socialista aveva a suo tempo capeggiato l’ala radicale e rivoluzionaria. Beneduce, quindi, era avverso ai programmi socialisti che chiedevano la statizzazione degli strumenti di produzione e la direzione statale dell’attività produttiva perché, molto più realisticamente, sosteneva la necessità di un intervento indiretto, di stimolo e di controllo, dello Stato sullo sviluppo economico, da realizzarsi soprattutto attraverso strumenti finanziari.

La Comit di Toeplitz, al momento della crisi del 1929, era la vera padrona dell’economia italiana controllando il 20% del capitale industriale nazionale. Lo stesso Toeplitz sedeva contemporaneamente in ben 32 consigli di amministrazione delle principali banche ed industrie nazionali. Travolto dalla crisi, come si è detto, Toeplitz si rivolse al governo, rappresentato da Beneduce spalleggiato da Mussolini, ma fu costretto ad accettare, per il salvataggio, condizione tali che mettevano fine al suo impero bancario-industriale. Mussolini, infatti, aveva scelto Beneduce, con il quale condivideva l’antica militanza socialista, con l’intenzione di nazionalizzare, senza usare metodi bolscevichi, le grandi imprese. Beneduce impose, pertanto, a Toeplitz a conferire tutte le sue partecipazioni industriali alla Sofindit, una società a prevalente capitale pubblico affinché le potesse amministrare in via transitoria in attesa che fossero rilevate dall’Iri del quale si era già deciso la costituzione. Insieme alle partecipazioni industriali Toeplitz fu costretto a cedere anche gran parte delle quote di maggioranza del capitale della Comit che, alla fine del 1932, diventò una vera e propria banca pubblica, di “interesse nazionale” come si diceva all’epoca. Tuttavia gli si lasciò la guida della banca ma egli fece un altro passo falso quando cercò di arginarne il ridimensionamento a istituto di credito ordinario, dando in tal modo pretesto alle autorità finanziarie per imporne la destituzione. Fu sostituito dal banchiere “esoterista” Raffaele Mattioli che, mentre ostentava ossequio al governo fascista, fece della Comit un centro di resistenza antifascista, nel quale iniziarono la loro carriera gli uomini del partito d’azione come Ugo La Malfa, preparando la sua successiva fusione con Mediobanca guidata dall’“oscuro” genero di Beneduce ossia Enrico Cuccia, il vero gran patron finanziario del capitalismo italiano prima della globalizzazione.

Il sistema bancario italiano nel 1930 era sull’orlo del tracollo perché le banche erano implicate direttamente, con massicce partecipazioni azionarie, nel capitale industriale delle imprese travolte dalle ripercussioni del grande crollo americano del 1929. Le banche, quindi, erano impossibilitate sia a concedere altri prestiti sia a ritirarsi, senza far crollare tutta la struttura industriale nazionale, dal capitale industriale. Il contrasto, nel 1931, di Beneduce con Toeplitz fu determinato dal fatto che il presidente della Comit guardava al salvataggio delle banche, che andava profilandosi con l’istituzione prima dell’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e poi dell’IRI (Istituto di Ricostruzione Industriale), due holding a capitale azionario pubblico ma gestite con criteri privatistici e soprattutto autonome dalla politica, come ad un favore governativo concesso alle banche che, ringraziato, avrebbero poi potuto continuare a partecipare al capitale industriale in modo da controllarlo per i propri fini speculativi.

Invece Beneduce assegnava all’intervento dello Stato il compito di eliminare i rischi insiti nella prassi del finanziamento privato alle industrie, separando il capitale bancario da quello industriale e il credito commerciale da quello industriale. Quest’ultimo, il credito alle industrie, sarebbe diventato di competenza dello Stato, soprattutto per aiutare le piccole e medie imprese perennemente esposte a carenza di liquidità e di credito perché di solito prive di accreditamento presso i mercati finanziari e le banche.

Nel 1933 se non fosse intervenuto lo Stato l’intera economia nazionale si sarebbe inabissata come il Titanic dopo la collisione con l’iceberg, tanto la situazione patrimoniale delle banche era ormai del tutto compromessa rischiando anche il tracollo di gran parte dell’apparato industriale. Per Beneduce, che impostò l’intervento pubblico, lo Stato doveva mettere a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite e compiere le altre operazioni di salvataggio ma, come contropartita, acquisire, al prezzo di mercato del momento ossia quello di imprese svalutate, i titoli e le proprietà industriali delle banche provvedendo, per proprio conto, alla loro gestione e risanamento. Inizialmente non era escluso il successivo smobilizzo ossia la vendita ai privati delle aziende risanate dallo Stato. Ma poi prevalse la decisione di mantenere le imprese salvate in mano pubblica, di fronte all’impossibilità o alla non volontà del capitale privato di ricomprare le aziende risanate all’effettivo prezzo di mercato rivalutato dopo il risanamento. Beneduce, infatti, non era contrario, per principio, a rivendere ai privati le imprese risanate dallo Stato – infatti così fece nel caso della Bastogi prima del 1937, anno di decisione della definitiva “irizzazione” delle imprese salvate – purché ciò avvenisse senza perdite per lo Stato ossia che i privati riacquistassero a prezzo rivalutato.

Tuttavia la decisione di conservare in proprietà dello Stato, mediante l’Iri, le imprese risanate evitò di effettuare una svendita e quindi un favore al capitale privato in danno dello Stato, come è invece accaduto con gli accordi di privatizzazione, a prezzi di realizzo, del patrimonio pubblico italiano, ereditato appunto dall’Iri, stipulati da Mario Draghi, all’epoca dirigente del Tesoro, sul Britannia, a largo di Civitavecchia, nel 1992, con la consulenza delle grandi banche d’affari transnazionali tra cui Goldman Sachs, della quale Draghi diventò di li a poco presidente della sezione europea, e Lehman Brothers. Le stesse banche d’affari che avevano fornito a Soros le risorse e gli appoggi per mettere in atto, nella primavere ed estate dello stesso anno, il suo attacco speculativo alla lire ed alla sterlina onde costringere Italia ed Inghilterra a svalutare, uscendo dallo Sme, in modo da far crollare anche il prezzo delle industrie pubbliche italiane in procinto di essere privatizzate dal governo Amato. Che se fosse stato un governo nazionale, e non il primo esempio di commissariamento estero della nazione, come altri ne sarebbero poi seguiti soprattutto dal 2008 con Mario Monti, e se avesse avuto ancora il controllo sul debito pubblico, attraverso la sua monetizzazione da parte della Banca Centrale, non avrebbe mai dovuto vendere a ribasso.

A seguito degli accadimenti degli anni ’30 del secolo scorso nacque, in tutto il mondo occidentale, un sistema normativo che imponeva la “repressione finanziaria” ossia uno stretto controllo dello Stato sulla finanza – che, come si è visto nel caso italiano di Beneduce, non significava affatto controllo della politica o dei partiti, questo tipo di degenerazione avvenne più tardi a partire dagli anni ’70 – in modo da dirigerla verso fini di bene comune e di servizio all’economia reale ed allo Stato sociale. Leggi come la statunitense Glass Steagall Act, che imponevano la separazione tra banche commerciali e banche d’affari dedite alla speculazione, o la legge bancaria italiana del 1936, anch’essa da ascrivere alla competenza di Beneduce e Menichella, che nazionalizzava la Banca Centrale e ne faceva il controllore delle operazioni e dei movimenti di capitale, nacquero in questo clima di intervento “sussidiario” dello Stato. Diciamo sussidiario perché – e lo ricordiamo agli ordoliberali – il principio cattolico di sussidiarietà afferma il diritto/dovere dello Stato di intervenire, appunto ab subsidium, laddove il mercato, che non è perfetto, fallisce (3). La legislazione di repressione, vigente in occidente fino agli anni ’90, faceva della funzione finanziaria, in quanto espressione della sovranità monetaria che non può che appartenere allo Stato, una funzione di carattere pubblico anche laddove esercitata dalle banche private. Con la conseguenza che gli amministratori di dette banche erano equiparati, in quanto a responsabilità giuridica penale, ai funzionari pubblici e come tali passibili di incriminazione nel caso di violazione delle norme di tutela pubblica poste a salvaguardia del credito dalle degenerazioni antisociali e speculative. Tutta questa legislazione è stata abrogata, con l’inizio della globalizzazione, in nome delle liberalizzazioni e della libertà di mercato (4).

Come si vede, l’intervento dello Stato non può ridursi, come nell’attuale dibattito in Europa, alla questione aiuti pubblici sì oppure aiuti pubblici no. Porre la questione in tali termini è estremamente riduttivo ed anche truffaldino. L’intervento dello Stato in economia serve innanzitutto a riformare la vigente regolamentazione, esclusivamente favorevole alla speculazione finanziaria ed agli interessi privati avulsi da qualsiasi compatibilità sociale ed etica, in modo da tornare a sistemi normativi che reintroducano la “repressione finanziaria”, combattano la perenne tentazione di autoreferenzialità della finanza – in questo infatti consiste massimamente l’usurocrazia –, consentano l’intervento pubblico di salvataggio ma connesso a ben precise contropartite di disciplina dell’anarchia mercatista sì da permettere al mercato di funzionare emendato, per quanto possibile, dalla sua connaturata tendenza all’asimmetria sociale tra ceti e tra nazioni.

Giulio Tremonti, un liberale non dogmatico che gli ambienti della politica e della finanza transnazionale li conosce bene essendo stato ministro dell’economia ed essendo membro di importanti think tank come l’Aspen Istitute, ha più volte ricordato – anche nel suo ultimo libro “Mundus furiosus” – che nel 2008, nel pieno della crisi bancaria mondiale e prima del salvataggio statale senza contropartite che ha poi consentito alle stesse banche, salvate con pubblico denaro, di aggredire speculativamente i debiti pubblici, c’è stato un momento, simile al 1929, nel quale i governi, se ne avessero avuto la consapevolezza culturale e se avessero voluto, avrebbero potuto riformare l’intero sistema finanziario globale, introducendo un nuovo “global legal standard” ossia una nuova normativa di repressione finanziaria, e sottomettendo l’arroganza dei finanzieri e dei banchieri.

I governi non capirono spaventati dalle minacce dei banchieri centrali – in primis il solito Mario Draghi che non aveva dimenticato il tentativo dello stesso Tremonti di nazionalizzare la Banca d’Italia di cui egli, Draghi, era all’epoca governatore – scesi a tutela del mondo bancario, dato che da quando sono state privatizzate e rese indipendenti le Banche Centrali servono la finanza transnazionale e non gli Stati, e lasciarono che le nuove regole fossero scritte dai banchieri. Che è stato un po’ come lasciare scrivere un nuovo codice penale dai ladri, dai rapinatori, dai truffatori, dai sequestratori, dai mafiosi.

Intanto giunge, in questi giorni, notizia che Manuel Barroso, predecessore di Juncker alla presidenza della Commissione Europea, è stato nominato presidente di Goldman Sach Europa, ruolo che, a seguito dei servigi resi nell’affaire Britannia, fu già di Mario Draghi attuale governatore della Bce. Quando si dice “conflitto di interessi” …!

Luigi Copertino

 

NOTE

  1. Alberto Beneduce era entrato in loggia in quanto, a suo tempo, stretto collaboratore del primo sindaco anticlericale, post-unitario, di Roma, Ernesto Nathan, di origini ebraiche e probabile figlio segreto di Giuseppe Mazzini (o almeno così si disse). Non solo il liberalismo risorgimentale ma anche il partito socialista, in particolare la sua ala riformista e moderata, aveva strette contiguità con la massoneria. Non sappiamo quanto Beneduce condividesse effettivamente la gnosi massonica o se egli vide nella loggia solo uno strumento per far carriera. Sicuramente nella sua formazione culturale e nella sua azione tecnico-politica è evidente, sottesa, l’idea che l’uomo sarebbe assoluto padrone del proprio destino ed artefice della costruzione del mondo a sua immagine. In tal senso va letto anche il suo dirigismo. Tuttavia non per questo si può affermare, di contro, che il liberalismo non abbia anch’esso radici e contiguità nella filosofia massonica ed umanitaria. D’altro canto il fatto che Beneduce fosse massone, benché deve essere sempre debitamente tenuto in evidenza da un punto di vista di critica cristiana, non può velare, sotto il profilo storiografico, i suoi meriti di tecnico altamente competente ed anche custode degli interessi nazionali in opposizione a quelli privatistici di altri esponenti della medesima cultura massonica o para-massonica come Toeplitz.
  2. Il figlio di Donato Menichella ci ha lasciato questo ricordo di suo padre: «…mio padre era uno “specialista dell’autoriduzione”. Autoridusse il suo stipendio nell’anteguerra a meno della metà. Non ritirò, quando fu reintegrato all’IRI, due anni e mezzo di stipendio; al presidente Paratore rispose: ‘Dall’ottobre 1943 al febbraio 1946 non ho lavorato!’. Fissò il suo stipendio nel dopoguerra a meno della metà di quanto gli veniva proposto; lo mantenne sempre basso. Se il decoro del grado si misura dallo stipendio, agì in modo spudoratamente indecoroso! Il 23 gennaio 1966, al compimento del settantesimo anno, chiese ed ottenne che gli riducessero il trattamento di quiescenza, praticamente alla metà, giustificandosi così: ‘Ho verificato che da pensionato mi servono molti meno danari!’. Ai figli ha lasciato un opuscolo dal titolo: ‘Come è che non sono diventato ricco’, documentandoci, con atti e lettere, queste ed altre rinunce a posti, prebende e cariche. Voleva giustificarsi con noi: ‘Vedete i denari non me li sono spesi con le donne; non ci sono, e perciò non li trovate, perché non li ho mai presi!’ Mia madre (gli voleva molto bene) ha sempre accettato, sia pure con rassegnazione, tali sue peregrine iniziative (anche quando dovemmo venderci la casa e consumare l’eredità di lei); però ogni tanto ci faceva un gesto toccandosi la testa, come a dire: ‘Quest’uomo non è onesto, è da interdire’ poi sorrideva e si capiva che era orgogliosa di lui». Cfr. Vincenzo Menichella, Roma, “Giornata Menichella”, 23 gennaio 1986. Come si vede la stessa etica anima i manager pubblici di oggi, dell’Italia secolarizzata e priva di qualsiasi fede religiosa o civile che sia!
  3. Se è vero che lo Stato, che è rappresentato ed “incarnato” da uomini, può sbagliare le sue politiche perché fallibili sono, appunto, gli uomini – i quali per ridurre i margini della propria fallibilità dovrebbero sempre fare tesoro dell’esperienza storica come anche del rilievo teologico e filosofico dell’esistenza mondana dell’umanità – e altrettanto vero che anche il mercato, e per gli stessi motivi di fallibilità e fragilità umana, proprio perché costituito anch’esso da uomini è sempre a rischio di fallimento. Sicché la mitologia del mercato quale spontaneo e benefico dispensatore di ricchezza, armonia sociale ed allocazione ottimale delle risorse si dimostra per quel che è ossia, come detto, una mitologia. Alla fine, tanto nell’ambito pubblico quanto nell’ambito privato, quel che davvero conta ed è decisivo è il cuore dell’uomo, se esso è votato al bene del prossimo o invece al proprio tornaconto.
  4. Chiediamo, pertanto, agli ordoliberisti se, alla luce della deflazione globale cui ci ha condotto quarant’anni di liberalizzazione dei capitali finanziari, essi ritengano ancora sufficiente limitare l’azione dello Stato alla sola incorniciatura giuridica – la costituzione economica – del mercato quale garanzia, anti-oligopolista, del suo trasparente funzionamento nella corretta concorrenzialità, oppure se invece non sia necessario un intervento più incisivo regolatore e controllore, e dove necessario anche gestore, dello Stato (ossia di competenti tecnostrutture pubbliche, composte da uomini onesti e votati, quasi monasticamente, alla loro mission pubblica e non, quindi, legati ai partiti) soprattutto nell’ambito degli strumenti finanziari e del loro uso. Sappiamo che agli ordoliberisti, seguaci di Popper, Platone non piace ma, forse, anche il grande ateniese qualche ragione ce l’aveva quando guardava alla qualità degli uomini prima che ai sistemi politici ed economici che essi costruiscono.