di Roberto PECCHIOLI
Francisco Quevedo, uno dei grandi della letteratura universale, scrisse, nelle Poesie infantili, alcuni versi divenuti famosissimi: “poderoso caballero es Don Dinero. Madre, yo al oro me humillo, él es mi amante y mi amado.” Non crediamo occorra traduzione. A questo pensavamo, leggendo dei cosiddetti Panama Papers, ovvero le informazioni rese pubbliche dal gruppo Mosack Fonseca, uno studio legale panamense “che fornisce informazioni su oltre 214.000 società offshore, includendo le identità degli azionisti e dei manager” (Wikipedia). Le rivelazioni dei giornalisti investigativi che hanno lavorato al caso sono assai interessanti. Tra gli undici milioni di file, alcuni gettano una luce nuova – quella vera – su alcuni personaggi amati dal pubblico, beniamini della stampa internazionale, alfieri del messaggio politicamente corretto.
Tra i detentori di conti e affari nei paradisi fiscali figurano infatti stelle della musica pop come Madonna e del rock come Bono, leader degli U2. Si tratta di campioni del buonismo internazionale, sempre pronti a cavalcare le cause umanitarie ed ergersi a difensori dei poveri e degli sfruttati. Non manca il più stretto collaboratore di un’altra icona progressista, il primo ministro candese Justin Trudeau, giovane, bello e “de sinistra”, eccetto quando si tratta del portafogli, né qualche esponente del partito laburista inglese. La vera star dei Panama Papers, tuttavia, è Sua Graziosa Maestà la Regina Elisabetta II d’Inghilterra, che avrebbe messo al sicuro almeno dieci milioni di sterline. Che volete che sia, fanno sapere da casa reale, non si tratta che dello 0,3 per cento del patrimonio degli Windsor, e certamente l’anziana sovrana non ne sapeva nulla, fiduciosa nei suoi consulenti ed amministratori.
Tutte queste notizie, peraltro, non sono che folclore, poco più che aneddoti su un mondo, quello della finanza, che avrebbe bisogno di far scoprire ben altro rispetto a quanto emerso dai documenti panamensi. In più, la notizia si è ormai raffreddata sui grandi media mainstream, i cui padroni e mandatari – pochi grandi gruppi internazionali – sono parte integrante del sistema ed hanno tutto l’interesse a concentrare l’attenzione su singole persone , fossero pure esponenti della monarchia di una vecchia potenza imperiale , sviando il pubblico da un fenomeno, quello dell’elusione fiscale, del labirinto del denaro, dei luoghi e dei modi in cui si esercita il vero potere, la cui conoscenza , anche parziale, cambierebbe in maniera irreversibile la visione del mondo di miliardi di esseri umani.
Lasciamo dunque la Regina alle sue dubbie giustificazioni sulla modestia delle somme oggetto della marachella, magari facendo una mano di conti sul patrimonio (quello ammesso!) della casa di Windsor, sul cui Commonwealth non tramonta mai il sole, che sarebbe, calcolatrice alla mano, di almeno tre miliardi di sterline. Cerchiamo invece di andare al sodo, ovvero all’immenso problema dei paradisi fiscali. La prima notazione strappa un sorriso: il termine inglese tax haven non significa paradiso fiscale, come è tradotto in diverse lingue, ma rifugio, porto. L’equivoco nasce dalla confusione tra heaven, paradiso, e haven. Un caso, o un capolavoro di programmazione neurolinguistica? Anni fa, un liberista a ventiquattro carati, il senatore e professore Antonio Martino dichiarò che se esistono i paradisi fiscali è perché ci sono gli inferni tributari. C’è del vero nella battuta del cattedratico siciliano, peccato che l’inferno, in genere, riguardi, in Italia e fuori, soprattutto la massa dei lavoratori dipendenti, dei pensionati, dei piccoli e medi imprenditori e non i giganti, comprese le entità finanziarie globali.
Un dato su tutti: Facebook ha dichiarato in Francia un giro d’affari di oltre 210 milioni di euro nel 2015, ma ha pagato imposte per poco più di 300 mila euro, lo zero virgola quindici per cento. Forse i paradisi, o rifugi fiscali, c’entrano qualcosa, insieme con l’apparato legislativo di molti paesi che consente di celare redditi, creare passività, organizzare vorticosi giri del pianeta da attribuire a società controllate o a veri e propri fantasmi, giocare con i bilanci, realizzare mille spericolate operazioni di ingegneria finanziaria.
Desta altresì un certo stupore digitare il sintagma “paradisi fiscali” su un grande motore di ricerca, ed imbattersi in numerosi, serissimi siti che offrono la più ampia assistenza per mettere in piedi società offshore. Anche in questo caso, il significato è assai indicativo della forma mentis che ci viene imposta. Offshore, infatti, significa “fuori costa “, ma nell’uso corrente si tratta del nome attribuito a società localizzate in territori, situati spesso in piccole isole oceaniche (lett. “al largo della costa”) in cui vigono legislazioni particolarmente permissive per quanto riguarda il trattamento fiscale, gli adempimenti contabili e societari, combinati con rigide garanzie di riservatezza e anonimato sui movimenti bancari e societari. La definizione è assi autorevole, giacché è tratta dall’enciclopedia Treccani.
I siti, molto professionali, con linguaggio impeccabile e dovizia di riferimenti legislativi spiegano molte cose anche a chi non intende costituire società offshore. Una delle società specializzate individuate in rete, ad esempio fornisce un apprezzato servizio, come dire, chiavi in mano, affermando che “le grosse società riescono ad ottimizzare il proprio carico fiscale, facendo figurare in perdita le succursali che si trovano nei paesi ad alta tassazione e realizzando profitti – occultati alle amministrazioni fiscali aggressive – attraverso società schermo”.
Il magistrato Bruno Tinti, che si sta occupando di questo tema, dubita della liceità penale di tali aspetti. Lasciamo il dilemma ai giuristi, ma prendiamo atto di alcuni elementi: il primo riguarda le “grosse società”. Sono dunque esse le maggiori beneficiarie dei vorticosi giri di denaro favoriti dalla tecnologia informatica nonché dall’internazionalizzazione dell’economia e della finanza. Un altro fa riferimento alla concorrenza tra sistemi tributari, un fatto su cui Giulio Tremonti aveva messo in guardia già all’alba del mercato unico europeo e della globalizzazione alla metà degli anni Novanta. Un terzo riguarda “l’aggressività” dei sistemi tributari dai quali i paradisi fiscali difenderebbero le povere grandi corporazioni vessate da un fisco famelico poco meno che bolscevico. Anche il termine schermo è estremamente equivoco, giacché schermare, in questo caso, significa occultare, nascondere, opacizzare. In genere, ed in ogni ambito dell’agire umano, si nasconde ciò che è illecito, o immorale, o ingiusto. Ognuno tragga le sue conclusioni, senza dimenticare che gli stessi promotori parlano di società schermo, dunque ammettono pacificamente il carattere fittizio, strumentale di un numero sterminato di società, dunque di milioni di transazioni.
Questo è il sistema, però, non la sua degenerazione o la sua patologia. Il mercato sovrano questo è e su queste regole prospera, inutile nascondersi dietro un dito. Senza i paradisi, o rifugi non tanto fiscali, ma finanziari, senza questa infrastruttura, una sorta di perfetta fognatura della struttura globale, non potrebbero sussistere i buchi neri che inghiottono il denaro, ne celano la vera provenienza, la destinazione finale, i suoi veri domines e i loro obiettivi; il mercato misura di tutte le cose, la globalizzazione, la privatizzazione del mondo non funzionerebbero. Tanto più che le informazioni tratte dagli addetti ai lavori parlano di cifre impressionanti. L’insider Bsd stima attorno al 60 per cento la quota di capitali internazionali allocati offshore. Altre valutazioni sono assai più prudenti, ma la domanda dello stesso Tinti è semplice quanto drammatica: che succederebbe se i titolari dei capitali fossero noti, dovessero far conoscere i fatti loro e pagare i tributi corretti, nel senso di dovuti secondo legislazione degli Stati sviluppati? Il mondo sarebbe molto, molto diverso, probabilmente sarebbe un luogo migliore.
Elisabetta d’Inghilterra, in fin dei conti, non ha fatto altro che depositare un poco del suo sudato tesoretto in uno dei numerosissimi conti riconducibili a società residenti in qualche angolo del mondo sotto l’influenza dell’impero britannico. I paradisi, o rifugi, se preferiamo la traduzione letterale di Tax haven, sono in numero impressionante. Sono sparsi equamente in tutto il mondo, con preferenza per l’Europa e le Americhe, ed in genere si tratta di staterelli, isole o enclaves legate al vecchio impero britannico, senza dimenticare gli antichi possedimenti di un’altra ricchissima monarchia di mercanti, l’Olanda degli Orange. Nuovi paradisi sono sorti un po’ ovunque, poiché, come sapeva già Vespasiano imperatore, il denaro non puzza.
Teoricamente, esiste una lista nera di paesi e luoghi che la stessa comunità internazionale considera sentina di illegalità, ma la realtà è assai più complessa ed articolata, e fa impallidire la stessa Svizzera, la cui secolare neutralità è la ragione stessa della reputazione della confederazione crociata come porto sicuro per capitali alla ricerca di tranquillità, silenzio, stanze ovattate dove svolgere ogni genere di acrobazie con al centro Don Dinero, Don Denaro. Pensiamo all’ Unione Europea: Cipro, Lussemburgo, Malta sono paesi membri, ma, in modi e con clientele diverse (pensiamo ai capitali russi allocati a Cipro) sono anche paradisi fiscali, in barba alle norme comunitarie. I microstati come Monaco, San Marino, Andorra, Liechtenstein, Gibilterra non hanno altra ragione d’esistenza se non la funzione di comodo rifugio per affari di ogni genere.
Una delle cause scatenanti dell’attuale crisi catalana è la circostanza che dal 2018 il minuscolo principato pirenaico di Andorra eliminerà in gran parte il segreto bancario, facendo emergere le prove di corruzione e probabilmente di coinvolgimenti in affari indicibili da parte di settori politici, economici, finanziari ed imprenditoriali di Barcellona, disposti a giocare la carta della separazione dalla madre patria. Del ruolo dell’Istituto per le Opere di Religione vaticano è opportuno tacere per carità cristiana, ma figure come quella di monsignor Marcinkus sono note in tutto il mondo. Poi ci sono le isole del canale (Jersey e Guernsey) e l’isola di Man tra Irlanda e Gran Bretagna, entrambe dipendenze dirette della Corona inglese, ma, opportunamente, non facenti parte del Regno Unito, tanto che i loro cittadini esibiscono un passaporto con la dicitura Isole Britanniche anziché United Kingdom.
Gli stati, starerelli e protettorati vari che fungono da paradisi fiscali sono in genere privi di valuta propria, senza esercito, la loro vita politica è spesso caratterizzata dall’assenza di partiti e sindacati. E’ evidente che se esistesse una volontà chiara di farla finita con le pratiche di finanza ombra e con il lucroso sistema delle sedi sociali di comodo, l’esito sarebbe certo e persino rapido: sanzioni economiche, interruzione delle linee informatiche, blocco nelle comunicazioni metterebbero in ginocchio l’intera filiera. Quanto all’eventualità di ricorrere alla guerra, gli Stati Uniti invasero senza problemi Grenada e lo stesso Panama, allorché il presidente Noriega cessò di essere funzionale ai loro interessi. Dunque, si deve concludere che i tax haven sono parte integrante ed insostituibile di un sistema generale opaco, antipopolare, con non pochi tratti criminali.
John Kennedy provò nel 1962 senza successo ad istituire la tassazione dei profitti esteri delle corporazioni americane. Chissà che tale sgarro, unito al tentativo di emettere banconote governative al posto della Federal Reserve, non sia tra i moventi di chi ha armato la mano del sicario di Dallas nel novembre 1963.
I Caraibi fanno la parte del leone, nell’universo offshore: vicini agli Usa, cuore dell’impero, protetti da svariate formule giuridiche in quanto alla forma statuale ed istituzionale, sono la colonna vertebrale della finanza ombra: Barbados, Bahamas, Bermude, le Isole Vergini Britanniche, e poi Anguilla, Grenada, Trinidad e Tobago, le Cayman, senza dimenticare l’Honduras Britannico o Belize in America centrale. Poi ci sono le Antille Olandesi (Curaçao), naturalmente Panama, culla degli interessi americani per via del canale e tante altre piccole realtà. Poiché oggi il cuore del denaro si è spostato ad oriente, citiamo le opache monarchie del petrolio, Singapore, Hong Kong, Macao, persino Taiwan. Infine, resta l’immensa area oceanica del Pacifico, con Tonga, Vaunatu, la Nuova Caledonia (Francia), le Isole Marshall.
L’elenco è lungo, incompleto ed impreciso, ma dimostra un fatto: il denaro non vuole controlli, odia gli Stati sovrani, sfugge non solo e non tanto il fisco, ma la chiarezza e la trasparenza. Ama scomparire e ricomparire, celare i suoi viaggi e soprattutto non far sapere da dove viene e dove va, chi e cosa paga, chi muove i fili e chi finanzia, di quali vergogne, crimini, misfatti è ragione, prova, protagonista. Il suo fine ultimo non è l’arricchimento, ma il dominio, a vantaggio di una cupola (possiamo chiamarla cricca, o direttamente banda?) che ha nel sistema finanziario il proprio santuario e nelle nuove tecnologie, specie quelle informatiche e di controllo, il più potente strumento di potere mai apparso sulla scena del mondo. Non è un caso che ai colossi tradizionali – le grandi banche d’affari, i gruppi petroliferi, alcune centinaia di multinazionali- si siano aggiunti i giganti dell’elettronica, i GAFU, Google, Apple, Facebook, Amazon, più Microsoft.
La sola Irlanda, per restare in Europa, ha abbonato tasse ad Apple per 13 miliardi di euro, mentre il conto dell’elusione realizzata nei grandi Stati europei è pressoché incalcolabile, e la reazione debole, tardiva, difensiva, destinata alla sconfitta se il sistema non cambia alla radice.
I paradisi fiscali, infatti, non sono che uno dei tasselli di una gigantesca costruzione in cui i padroni delle tecnologie digitali ed informatiche, in perfetta sinergia con i vertici del sistema finanziario ed economico, all’ombra del potere politico militare e degli apparati riservati statunitensi, sono contemporaneamente utenti e fornitori delle tecniche per nascondere i flussi di denaro, dei grandi server di controllo, conservazione e presumibilmente manipolazione dei dati, oltreché i massimi beneficiari.
E’ per capirci, una partita in cui lo stadio, il pallone, l’arbitro e le squadre in campo dipendono dallo stesso padrone. Unica variabile, il pubblico pagante a cui deve essere fatto credere che il risultato non è prestabilito. In mezzo, ci sono gli Stati, che non hanno obiettivamente strumenti per opporsi al fiume di dati, di denaro, di transazioni di cui non riescono ad avere né il controllo né la stessa conoscenza.
Qualcuno parla di un minimo di 21 mila miliardi nascosti, un trenta per cento del PIL mondiale, altre fonti parlano di cifre diverse. Si parla, oltretutto, delle sole ricchezze finanziarie, non dei beni di lusso, come navi, quadri, oro o gioielli. Ciò che è chiaro a tutti coloro che hanno studiato il fenomeno è che l’80 per cento delle somme nascoste nei paradisi fiscali sono in capo allo 0,1 per cento dei più ricchi del mondo. Di questo tesoro pressoché incommensurabile, la metà sarebbe saldamente nelle mani dello 0,01 di super ricchi. Viene in mente Aristotele e la sua distinzione tra economia e crematistica, ovvero l’accumulazione di ricchezza derivante esclusivamente dall’uso del denaro.
All’orizzonte, è intanto apparso un nuovo paradiso fiscale, virtuale questa volta, in linea con la dematerializzazione di tutto generata dall’alleanza tra finanza e tecnologia informatica ed elettronica. E’ il sistema delle criptovalute, le monete virtuali che possono essere trattate in un mercato parallelo e sottostante agli altri. La capitalizzazione delle criptovalute, tra le quali spiccano il Bitcoin e l’Ethereum (nomen omen…) è in costante ascesa e supera ormai i 155 miliardi di dollari. Poco o nulla, dinanzi ad Apple, con 815 miliardi, o Amazon (474 miliardi), ma un nuovo attore globale è entrato in campo, un filone che sfuggirà ad ogni controllo indipendente. Il giornalista economico Paolo Panerai segnala lo strano caso della risoluzione 72/E del 2016 dell’Agenzia italiana delle Entrate che ha dichiarato “non imponibili mancando la finalità speculativa “le operazioni in criptovalute. Misteriosamente quanto opportunamente, il documento ministeriale è scomparso dal sito dell’Agenzia.
Un altro settore è quello del cosiddetto “shadow banking” le transazioni ombra, specie di titoli derivati, che avvengono prevalentemente utilizzando i canali dei paradisi fiscali. Altrettanto interessante sarebbe poter seguire il denaro che transita nel grande mare del clearing, ossia del sistema di compensazione interbancario tra crediti e debiti, dominato da Claistream ed Eurostram con sede a Lussemburgo, le due società che possiedono anche il circuito Swift che permette i pagamenti e bonifici internazionali. In realtà Swift è controllato dal governo statunitense e, si dice, bloccò per alcune settimane le operazioni della banca vaticana, sino alle inspiegabili dimissioni di Benedetto XVI.
Esiste dunque, all’insaputa dei popoli, un immenso fiume carsico legato al denaro che appare, scompare, riaffiora a seconda degli interessi di pochi. Non vi è dubbio che i paradisi fiscali siano il luogo privilegiato del riciclaggio del denaro proveniente dalle più odiose attività criminali, traffico di armi, droga, organi, tratta di esseri umani. Un capitolo a parte meriterebbe la pratica del signoraggio, ovvero i profitti occultati che il sistema finanziario trae dalla creazione monetaria sottratta agli Stati sovrani. In tutto ciò, gioca sicuramente un ruolo chiave il sistema delle banche centrali, il cui cardine è la BRI di Basilea (Banca dei Regolamenti Internazionali) la cupola delle banche centrali. Vale la pena ricordare che la BRI, insieme con le sue consociate, tra le quali spiccano la BCE e la Federal Reserve, gode di statuto privilegiato, passaporto diplomatico per i dirigenti, divieto di ispezioni, perquisizioni e controlli, tanto da parte di autorità pubbliche che di entità indipendenti.
Non vi è quindi alcun dubbio che l’intero sistema finanziario mondiale, di cui i cosiddetti paradisi fiscali sono un importante tassello, sfugga non solo a qualunque controllo di legalità tributaria, ma rappresenti il massimo potere planetario, con legami inconfessabili con tutte le forme di ingiustizia, coercizione, illegalità che rappresentano il dominio di pochi su miliardi di esseri umani.
I Panama Papers insomma sono una piccola goccia di verità e non cambieranno la storia, ma almeno adesso sappiamo che persino le istituzioni più antiche e prestigiose, come la stessa casa reale britannica, sono parte integrante di un sistema vergognoso.
Se anche la regina Elisabetta va in paradiso (fiscale), l’inferno è per tutti noi.
ROBERTO PECCHIOLI