Spiegato bene dal Signore del Discorso Fubini sul Corriere
Solo il provincialismo di una parte della classe politica italiana — incredibile dopo quasi un quarto di secolo di vita nell’euro — poteva creare un miraggio del genere: l’illusione che quel che succede a Roma resti a Roma. Che non sia legato da un rapporto d’influenza reciproca con quanto accade a Bruxelles o Francoforte.
Naturalmente è vero il contrario. Fra quel che accade in Italia e nei centri nevralgici dell’Unione Europea esiste una relazione riflessiva: ciascuna dimensione modifica l’altra in una serie di rimandi fra le due che possono produrre un equilibrio virtuoso, al meglio, oppure difficoltà e frustrazione da entrambe le parti quando a dominare sono l’ignoranza e l’incomprensione.
La scelta di far cadere il governo di Mario Draghi rientra nel diritto del parlamento, ma è stata presa come se questa relazione di mutuo scambio non esistesse. Per questo si sente parlare così poco di alcuni fattori così ingombranti da imporsi inevitabilmente sulla campagna elettorale e sul governo che verrà.
Il primo riguarda la Banca centrale europea, che ieri ha alzato i tassi per la prima volta dal 2011. L’inflazione preoccupa quindi la Bce continuerà ad alzare i tassi, anche se non è chiaro per quanto. Proprio mentre aumentava il costo del denaro del doppio rispetto a quanto annunciato in giugno, la presidente Christine Lagarde ha parlato di «nubi» sull’economia.
L’umore dei consumatori dell’area euro è il più nero da quando viene misurato e la frenata internazionale in corso fa sì che i 30 materiali e materie prime fondamentali della globalizzazione — dal petrolio al litio, dall’acciaio, al cotone, al grano — nell’ultimo mese siano scesi di prezzo. Tutti, nessuno escluso.
Per ora però siamo entrati in una stretta monetaria che contribuisce a far salire i rendimenti del debito italiano — dunque il costo di sostenerlo — nel pieno di una crisi di governo. Lagarde ieri ha presentato uno «strumento» di protezione — un piano di acquisti — se i titoli di Stato finissero sotto un attacco «disordinato e ingiustificato». Il meccanismo è pensato per l’Italia.
Ed è sottoposto a condizioni perché esso possa scattare o magari, con il fatto stesso di esistere quale ipotesi, inibisca lo scatenarsi di una tempesta finanziaria. Perché l’ingranaggio sia credibile occorre però che le condizioni poste dalla Bce vengano rispettate dal Paese potenzialmente beneficiario. Ed esse vanno al cuore dell’agenda di qualunque governo si formi in autunno.
In primo luogo un Paese che voglia aver diritto allo «scudo» della Bce non dev’essere sottoposto a una procedura di Bruxelles per deficit eccessivo. O almeno deve darsi da fare per uscirne. Ciò non sembra rilevante oggi dato che il Patto di stabilità resta sospeso, invece lo è: da mesi la Commissione Ue sta chiedendo all’Italia (anche con Mario Draghi premier) di ridurre la spesa pubblica in proporzione alle dimensioni dell’economia e su questo punto può ancora aprire una procedura.
Se dunque la revisione delle pensioni in autunno fosse fatta con i costi di «Quota 100» nel 2018, allora il rapporto fra Roma, Bruxelles e Francoforte entrerebbe in tensione e con esso forse anche la stabilità finanziaria dell’Italia. Non proprio ciò di cui si sente il bisogno, in mezzo a una pandemia senza fine e alle conseguenze di una guerra.
Le altre condizioni della Bce recapitano poi un messaggio che l’intera classe politica non ha capito. Vale per il prossimo governo come sarebbe valso per Draghi: il vincolo di bilancio sta tornando.
È finita la stagione dei bonus a pioggia da decine di miliardi di euro e altri simili miracoli. Il pagamento degli interessi sul debito occuperà sempre più spazio in bilancio, dunque ce ne sarà meno per il resto. Inoltre la Bce intende valutare e giudicare la tenuta e la traiettoria finanziaria di qualunque Paese possa beneficiare dei suoi interventi, dunque far scendere deficit e debito ridiventa importante.
Qui entra in gioco un secondo fattore dell’interazione fra l’Italia e il resto d’Europa, perché in questi mesi si stanno disegnando le nuove regole di bilancio. Si profila un compromesso che renda meno asfissiante la tabella di marcia di calo del debito, in cambio però le misure per chi viola sarebbero meno aggirabili. Se ora il prossimo governo italiano desse l’impressione di rifiutare i vincoli (o magari l’euro stesso), per reazione altri Paesi chiederebbero regole più soffocanti.
Anche un terzo fattore del gioco fra l’Italia e l’Europa è saltato fuori ieri nelle parole di Christine Lagarde: chi vuol essere protetto dallo «scudo» della Bce deve anche dimostrarsi puntuale nelle riforme indicate dal Piano di ripresa. E anche questo ha un significato concreto, una volta declinato a Roma.
Il parlamento per esempio deve approvare la legge delega sulla Concorrenza entro l’estate, altrimenti non ci sarà tempo per preparare e votare i decreti attuativi entro l’anno. A quel punto il Paese perderebbe una rata del Recovery da 19 miliardi, prevista a dicembre. Inutile dire che la legge di Concorrenza e i molti interessi che tocca sono fra i tabù infranti per i quali Draghi è stato appena giubilato. A meno che anche questo non sia stato puro teatro politico e alla resa dei conti tutti, ma proprio tutti, capiscono l’ovvio: quel che accade a Roma non si ferma a Roma.