di Federico Dezzani
E’una prassi secolare delle potenze marittime “isolare” i propri nemici con una cortina fatta di sanzioni economiche, accerchiamento militare, condanna politica e ideologica: in passato, “l’isolamento” o “strangolamento” è stato quasi sempre il prodromo della guerra. Sono quindi da guardare con preoccupazione gli ultimi sviluppi in Europa: in Regno Unito si è sfruttato il maldestro avvelenamento dell’ex-spia russa Sergei Skripal per esacerbare ulteriormente i rapporti diplomatici con la Russia e spingere “gli alleati” nella stessa direzione, mentre in Slovacchia il premier Robert Fico, contrario ad un totale appiattimento alle politiche NATO, è stato rovesciato con un’operazione sporca. Il blocco atlantico ha ormai “ostracizzato” Mosca e, negando i suoi diritti, i suoi interessi e la sua legittima sfera d’influenza, prepara il terreno alla guerra.
Servizi segreti e propaganda hanno preso il sopravvento sulla diplomazia
Si respira in Europa un’aria simile a quella di inizio Novecento, quando la Germania guglielmina, in piena ascesa economica e militare, ambiva al ruolo di grande potenza mondiale, insidiando il primato britannico. A partire da primi anni del secolo, Berlino fu così progressivamente emarginata dalla comunità internazionale sotto la sapiente supervisione inglese: costretta a legarsi indissolubilmente a Vienna, vittima di una (giustificata) sindrome di accerchiamento, la Germania maturò la certezza che la guerra fosse inevitabile. Era, come poi effettivamente fu, questione di vita o di morte.
Liquidata la Germania in due riprese (1914-1918 e 1939-1945), non rimaneva alle potenze marittime che neutralizzare la potenza russa per dichiararsi padroni dell’Eurasia (l’Hearthland di Halford Mackinder) e quindi del mondo. Con lo smantellamento dell’URSS, possibile grazie alla complicità di Michail Gorbacev, e lo sprofondare della Russia in una crisi economica, sociale e politica senza precedenti sotto la presidenza di Boris Eltsin, la missione sembrava compiuta. Con l’ingresso al Cremlino di Vladimir Putin il processo di dissoluzione della Russia si arresta e, poi, si inverte: nel giro di un ventennio, Mosca ritrova il rango di potenza mondiale, sigillato dai recenti successi in Siria e Medio Oriente.
Progressivamente, inizia così il “reflusso”: la potenza continentale (la Russia) torna a premere sulla fascia costiera dell’Eurasia (il Rimland di Nicholas John Spykman), insidiando gli angloamericani in Europa come nel Levante.
Rispetto al 1945, però, le potenze marittime si trovano in posizione di debolezza perché:
- non esiste più la barriera ideologica del comunismo a frapporsi tra l’Europa occidentale e Russia;
- la quota di PIL mondiale prodotta dal blocco atlantico (e quindi i mezzi a disposizione) si è drammaticamente ridotta;
- il libero accesso al mercato mondiale ed un sistema economico meno sclerotizzato, rendono la Russia più temibile.
L’establishment liberal ha dinnanzi a sé, quindi, una scelta: o abdica all’egemonia mondiale, oppure sferra un disperato attacco all’Hearthland, dichiarando cioè guerra alla Russia e cercando di portare a termine la conquista manu militari dell’Eurasia, di cui la liquidazione della Germania è stata la tappa principale del secolo scorso. La prima opzione, rinunciare cioè all’egemonia mondiale, è in netto contrasto con i principi “universalistici” che animano l’oligarchia atlantica; non resta così che la seconda opzione, la neutralizzazione della Russia: da qui nasce quel clima opprimente di cui parlavamo in principio.
Come a inizio Novecento l’establishment liberal isolò ed accerchiò la Germania, fino a dichiararle guerra, così oggi sta attuando uno “strangolamento” economico, diplomatico, militare e mediatico della Russia: l’esito, nonostante gli armamenti nucleari, rischia di essere lo stesso.
Se l’obiettivo ultimo della strategia è l’annientamento dell’avversario, è inevitabile che, un poco alla volta, la diplomazia ceda il posto alla provocazione, la ragione alla violenza, il dialogo alla minaccia.Purtroppo, è quanto sta avvenendo dal 2014 (golpe in Ucraina) in avanti e la dinamica sta, anno dopo anno, accelerando. Due recentissimi episodi, in particolare, sono sintomo della volontà euro-atlantica di esacerbare i rapporti con la Russia fino a portarli al punto di rottura: il cambio di regime con cui è stato estromesso il premier slovacco Robert Fico ed il quasi concomitante affare Skripal.
Come la vicina Repubblica Ceca, la Slovacchia è finita nel mirino atlantico a causa della sua eccessiva apertura alla Russia e del parallelo rifiuto di appiattirsi alle politiche della NATO. Nel caso di Praga, si è cercato di uccidere nella culla il problema: il “populista e filorusso” Andrej Babis è stato colpito in piena campagna elettorale da un avviso di garanzia che, però, non gli ha impedito di vincere le elezioni dello scorso ottobre. Indagato e privato dell’immunità parlamentare, Babis sta così faticando non poco a varare il suo governo, mentre in piazza si assiste alle prime proteste di matrice atlantica contro la deriva “autoritaria” del Paese1. Il problema di Bratislava risale, invece, a qualche anno addietro: è nel 2006, infatti, che il socialdemocratico Robert Fico conquista la poltrona di primo ministro. Filorusso, contrario alle sanzioni economiche contro Mosca, Fico ha sempre dimostrato la sua allergia verso la NATO: “Slovak PM follows Czechs in ruling out foreign NATO troops”, scriveva la Reuters nel 2014, sottolineando l’opposizione di Bratislava a qualsiasi base permanente dell’Alleanza Nord Atlantica.
Come il premier ungherese Viktor Orban, anche Fico è perciò annoverabile tra gli “amici della Russia” in Europa Centrale: qualsiasi attacco al suo governo è, indirettamente, un attacco a Mosca, destinato ad alimentare ulteriormente le tensioni tra la Russia ed il blocco euro-atlantico. Sarà senza dubbio questo l’esito dalla manovra con cui si è defenestrato Roberto Fico: una manovra che è identica a quella con cui si è cercato di rovesciare a Malta il premier, anch’egli “filorusso” e socialdemocratico, Joseph Muscat.
Il 22 febbraio è assassinato, con la sua compagna, il giornalista slovacco Jan Kuciak che, come l’omologa maltese Daphne Caruana Galizia, appartiene alla rete che ha divulgato, per conto dei servizi angloamericani, i dossier dei “Panama Papers”2. I media avvalorano la tesi che i due siano stati uccisi dalla criminalità organizzata, probabilmente italiana, su cui il giornalista stava indagando: di più, come nel caso di Daphne Caruana Galizia, Kuciak stava scavando sui legami tra la mafia e i membri del proprio governo (filorusso). La notizia della morte del giornalista ha eco internazionale e scuote alle fondamenta il governo di Fico: piovono accuse di collusione con la criminalità, mentre nella piazze si riversa il solito popolo delle rivoluzioni colorate. “Death of investigative journalist sparks mass protests in Slovakia” scrive il The Guardian il 9 marzo. Benché Fico denunci pubblicamente il ruolo di George Soros e le manovre straniere per rovesciare il suo governo3, la pressione è troppo forte perché il premier possa resistere: il 14 marzo Fico annuncia le dimissioni.
Certo, per la Slovacchia non si preannuncia un cambio di regime “radicale” (Robert Fico ha già scelto il suo successore tra le fila del partito socialdemocratico), ma è l’ennesimo segnale della lotta senza esclusione di colpi che si combatte da Malta all’Ucraina, passando per i Balcani: qualsiasi governo “filorusso” è sistematicamente destabilizzato, perché l’establishment liberal nega la legittimità degli interessi di Mosca in Europa e nel Mediterraneo. È una politica che, nel medio-lungo periodo, non può che portare allo scontro diretto.
Più grave ancora è l’affare Skripal, che dimostra come la propaganda, le manovre occulte dei servizi segreti e la campagna d’odio contro la Russia abbiano ormai preso il sopravvento in Occidente. Domenica 4 marzo, a Salisbury, è trovato in grave condizioni, insieme alla figlia, Sergej Skripal: si tratta di un ex-agente russo, ormai 66enne, arrestato per alto tradimento nel 2004 con l’accusa di venduto informazioni agli inglesi e poi successivamente liberato grazie ad uno scambio di spie. Emerge che Skripal è stato avvelenato con un agente nervino e, benché non sia fornito nessun valido movente per il tentato omicidio di questo vecchio doppiogiochista, si formulano accuse che portano dritte ai vertici della Russia: secondo la stampa britannica, il probabile mandante è Putin in persona4.
L’affare Skripal cresce così a dismisura nel volgere di una decina di giorni, dinnanzi allo sbalordimento dei russi che, per bocca del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, bollano l’intera faccenda come uno “show da circo”: il 14 marzo Theresa May annuncia l’espulsione di 23 diplomatici russi, precipitando verso nuovi minimi i rapporti anglo-russi. L’indomani, il governo inglese emette un comunicato, firmato anche da USA, Francia e Germania, dove si imputano a Mosca le responsabilità del tentato omicidio: il blocco euro-atlantico, apparentemente diviso dalla Brexit e dall’elezione di Trump, si ricompatta. Per attaccare la Russia.
A coronare l’escalation atlantica contro Mosca, è l’annuncio, sempre del 15 marzo, di nuove sanzioni degli Stati Uniti, in riposta alle presunte interferenze russe durante le presidenziali del novembre 2016.
Oppure la nuova strategia nucleare annunciata dal Pentagono ai primi di febbraio che, oltre a “facilitare” il ricorso alle armi atomiche rispolverando gli ordigni tattici della Guerra Fredda, abbassa anche la soglia del loro utilizzo, fissandola ad un attacco nemico, convenzionale o cibernetico5? Non è certo casuale se, davanti alle Camere riunite, Putin abbia annunciato il primo marzo una nuova generazione di missili supersonici in grado di bucare qualsiasi difesa6: Mosca ci tiene a ribadire che qualsiasi azione ostile comporterà una reazione (devastante).
Le operazioni sporche, la prevaricazione e la propaganda hanno il sopravvento sulla diplomazia: ipotizzare che l’establishment atlantico voglia soltanto infastidire la rielezione di Vladimir Putin (presidenziali del 18 marzo) o sabotare il mondiale di calcio in programma in Russia (14 giugno) potrebbe essere soltanto un tranquillizzante autoinganno, quando all’orizzonte si profila, giorno dopo giorno, un nuovo scontro tra Terra e Mare.