In un’intervista scritta con il periodico Herder Korrespondenz, Benedetto XVI evidenzia la sempre maggiore distanza tra l’autentica missione ecclesiale e la “chiesa d’ufficio”, fatta di burocrazia e documenti senza «il cuore e lo spirito». Una situazione che non riguarda solo la Chiesa in Germania, ma che è più generale e alimenta «l’esodo dal mondo della fede». Richiamando il suo prezioso anno da cappellano a Bogenhausen, Ratzinger ci ricorda che solo Dio è la risposta contro i totalitarismi passati e presenti.
I passaggi più gettonati sono tratti dalla coda dell’intervista dedicata dal Papa emerito alla ricostruzione dell’anno trascorso come cappellano nella parrocchia del Preziosissimo Sangue del quartiere Bogenhausen di Monaco di Baviera (1 agosto 1951 – 1 ottobre 1952).
Nelle ultime battute, Ratzinger ha tratto le conclusioni di quanto ha potuto maturare da quell’esperienza di settant’anni fa fino ad oggi. Giovane sacerdote, alla sua prima avventura pastorale, si era già accorto come la vita della fede si stava gradualmente svuotando, lasciando in piedi delle strutture che divenivano via via sempre più incapaci di alimentare e sostenere la fede. Un processo, nemmeno troppo lento ma inesorabile, che ha portato alla cosiddetta Amtskirche, una “chiesa d’ufficio”, d’apparato, di burocrazia, che resta in piedi come una facciata senz’anima e che non è solo sterile, ma talmente ingombrante da soffocare i germi di autentica vita cristiana che cercano di vivere ed espandersi. «La parola ‘Amtskirche’ è stata coniata per esprimere il contrasto tra ciò che viene ufficialmente richiesto e ciò in cui si crede personalmente. La parola ‘Amtskirche’ insinua una contraddizione interna tra ciò che la fede effettivamente richiede e significa e la sua spersonalizzazione».
Questo fenomeno non viene riferito da Ratzinger solamente alla Chiesa “tedesca”, ma ad una situazione più generale, che trova sicuramente un’espressione particolarmente significativa in «una gran parte dei testi istituzionali della Chiesa in Germania». Ratzinger/Benedetto XVI ha sempre insistito sul fatto che la vera riforma della Chiesa e la sua autentica rinascita dipendono dalla santità dei suoi membri, dalla forza della loro testimonianza. Ma in questa intervista si nota una particolare enfasi su una tensione ormai radicalizzata tra l’ufficio e lo spirito. Tensione nei documenti prodotti: «Finché nei testi istituzionali della Chiesa parlerà solo l’ufficio, ma non il cuore e lo spirito, così continuerà l’esodo dal mondo della fede». Tensione nei posti decisivi: «Nelle istituzioni ecclesiali – ospedali, scuole, Caritas – molte persone sono coinvolte in posizioni decisive che non supportano la missione interna della Chiesa e quindi spesso oscurano la testimonianza di questa istituzione».
Non che in sé vi sia una contraddizione tra ufficio e spirito; ma è come se Benedetto XVI voglia tornare e ritornare su questo punto, perché ormai la Amtskirche ha partorito un numero oltre il tollerabile di documenti e opere senza «il cuore e lo spirito». Non è da sottovalutare una chiave di lettura autobiografica di queste sue ultime esternazioni: lui, il Papa che ha fatto un passo a lato; che ha scelto di salire sul monte, come un nuovo Mosè, mentre la nostra epoca si aggrava sempre di più (perché ingravescente aetate significa anche questo); che ha lasciato non la Chiesa, ma la Amtskirche, fatta di uffici, di cariche, di procedure, senza però abbandonare quell’abito bianco e ostinandosi a mantenere il titolo di Papa emerito.
Egli non pretende in questo modo «di separare i buoni dai cattivi», come intendeva fare il donatismo nell’epoca agostiniana; questo però non significa che non vi sia un’ormai impellente necessità di «separare i credenti dai miscredenti». Problema che oggi, secondo lui, «è diventato ancora più evidente». Di certo non è casuale che Benedetto sia uscito dal suo silenzio per parlare di quell’anno e poco più di esperienza pastorale all’inizio della sua vita sacerdotale. Tra un ricordo e l’altro, raccontati con quel sottile senso dell’umorismo e di autoironia che lo ha sempre contraddistinto, Ratzinger getta nel cuore e nella mente del lettore indizi importanti. Racconta la maiuscola figura del parroco di Bogenhausen, don Max Blumschein, che gli insegnava l’importanza di stare nel confessionale (ogni giorno dalle 6 alle 7 del mattino, e il sabato pomeriggio, dalle 16 alle 20), perché «era meglio trascorrere lì un’ora senza confessione, piuttosto che allontanare qualcuno dalla confessione a causa di un confessionale vuoto». Narra di aver fatto esperienza «molto da vicino di quanto gli uomini aspettino il sacerdote, di quanto attendano la benedizione che viene dalla forza del sacramento […] Vedevano in noi uomini toccati dall’incarico di Cristo e capaci di portare la sua vicinanza agli uomini».
La semplice ma faticosa vita del cappellano e del parroco rendevano la presenza di Cristo e la vita della Chiesa molto più tangibili della pletora di documenti dalla lingua di legno, quando non di ferro, come una spada (si veda il recente motu proprio Traditionis Custodes), che stanno paralizzando la vita della Chiesa da anni. Linguaggio, contenuti e mentalità che non vengono da Cristo, ma dal mondo. Per questo Benedetto XVI richiama il discorso che fece a Friburgo, in occasione del suo viaggio apostolico in Germania nel 2011, nel quale aveva parlato della necessità di una «demondanizzazione». Non è vero, come qualcuno ha scritto, che Ratzinger sarebbe ritornato sui suoi passi. Egli ha al contrario affermato che il necessario processo di purgarsi dal mondo e dalle sue logiche è sì l’aspetto negativo, ma pur sempre necessario di una vera riforma della Chiesa: «La parola demondanizzazione indica la parte negativa del movimento che intendo, cioè l’uscire dal discorso e dalle limitazioni di un’epoca verso la libertà della fede». Non si può pretendere di volare senza tagliare i lacci che ci tengono vincolati al suolo.
Il riferimento all’esperienza di Bogenhausen lo ha segnato anche per un altro motivo, appena accennato nell’intervista, ma più ampiamente messo in luce nella biografia di Peter Seewald. Il suo predecessore nella parrocchia del Preziosissimo Sangue era stato don Alfred Delp, impiccato dalla Gestapo nel 1945 nel carcere di Plötzensee. Delp aveva lasciato un diario e alcune frasi, come questa che aveva inciso sulla parete della sua cella, mentre aveva le mani legate: «L’ora della nascita della libertà umana è l’ora dell’incontro con Dio. Il ginocchio piegato e le mani vuote tese sono i gesti originari dell’uomo libero. Dobbiamo avere fiducia nella vita, perché non la viviamo da soli, ma Dio la vive con noi».
Espressioni che si sono incise indelebilmente nell’animo del giovane Ratzinger e che svelano la pregnanza antropologica della sua insistenza da Vescovo, Cardinale e Pontefice sul primato di Dio nella vita del mondo e della Chiesa. Perché solo Dio – scriveva don Delp – è l’ultimo baluardo di difesa contro quella «pressione dispotica della massa […] che prostituisce anche l’ultimo spazio più intimo, divora la coscienza, violenta il giudizio e infine acceca e soffoca lo spirito». Guai allora a quell’epoca «nella quale le voci di coloro che gridano nel deserto ammutoliscono, sovrastate dal rumore diurno per le strade, o proibite, o andate a fondo nell’ebrezza del progresso, oppure frenate o rese più deboli dalla paura e dalla codardia».
Benedetto XVI non ha semplicemente tirato una “bordata” alla Chiesa in Germania; egli sta cercando, per l’ennesima volta, di indicare l’unica via d’uscita da quello che si sta sempre più rapidamente delineando come il più micidiale totalitarismo della storia. Solo Dio, solo il Crocifisso è l’unico vero argine contro il male montante.