di Roberto PECCHIOLI
I parte
La felicità è la grande promessa mancata della modernità, attraversata dalle grandi narrazioni del progresso, della libertà e della felicità. L’utopia dei Lumi ha avuto esiti catastrofici, trasformandosi ben presto nello scatenamento della materia, che ha rovesciato la visione della vita degli europei e degli americani. Probabilmente a Thomas Jefferson, ispiratore della dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio 1776, dovette sfuggire la portata immensa del preambolo a lui attribuito in cui si afferma: noi consideriamo che sono per se stesse evidenti le seguenti verità: tutti gli uomini sono creati uguali; sono stati dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili; tra questi diritti ci sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità (pursuit of happiness).
Tentiamo una valutazione della portata, degli esiti e delle conseguenze della formula citata, enunciata con tanta solennità ed accolta in Europa dal più radicale tra i rivoluzionari francesi, Louis-Antoine Saint-Just. In un discorso del 1794, poco tempo dopo aver fatto passare la legge del Terrore, auspicava che in Francia si propagasse l’amore delle virtù e della felicità, “idea nuova in Europa “. Più o meno negli stessi anni, l’economista figlio dei Lumi e della Rivoluzione, Jean Baptiste Say, definiva la felicità individuale in termini di paragone tra quantità di bisogni materiali e capacità di soddisfarli, affermando: “la felicità è proporzionale alla quantità di prodotti di cui si può disporre”. Non diversamente ragionava l’inglese Bentham, per il quale la felicità coincideva con l’utilità. Su questo è nata e cresciuta la modernità sino agli esiti presenti.
A dar retta alla storia, nessun regime politico, nessuna ideologia umana è riuscita a realizzare la felicità. Il sistema liberale di mercato ha sostituito la felicità, condizione spirituale, con il suo surrogato materiale, l’idea (e la pratica) del benessere. Si tratta di un gioco di prestigio, un simulacro perfettamente accordato ai meccanismi di relazioni pubbliche, di marketing e di pubblicità fatte ideologia, visione del mondo. Un intellettuale francese controcorrente, Philippe Grasset, osservando gli interminabili passaggi pubblicitari su una delle catene televisive diversamente uguali, spiega di “aver realizzato in maniera assai forte, se non brutale, come un lampo che illumina all’improvviso, il fantastico cambiamento di quelle attività dagli inizi, negli anni 60.“ In mezzo all’orgia di messaggi, riconoscendo l’ampiezza dei mezzi dispiegati, il lusso ostentato, la larghezza nell’uso delle tecnologie più raffinate per costruire le immagini che costituiscono altrettanti messaggi, Grasset rileva l’unicità straordinaria di un discorso in cui la forma ideologica precede la specificità del contenuto, il contenuto stesso, per divenire l’annuncio di una suadente ma impietosa ideologia.
Si manifesta, nella comunicazione che chiamiamo genericamente pubblicità, una profonda ideologizzazione della forma che travalica se stessa. Viene escluso qualsiasi dibattito, non viene sollevata né ammessa la minima contestazione. La modernità diventa postmodernità nell’individualismo e nell’orizzonte di post società libertaria, intrisa di un multiculturalismo fatto di quote obbligatorie, produttività globalizzata che celebra e riproduce se stessa colonizzando l’immaginario per coazione a ripetere. Non c’è alternativa al sistema, e perché dovrebbe esserci, se il messaggio esplicito lo postula come l’unico in grado di assicurare il benessere, felicità minore di un’umanità sempre meno sapiens.
Poiché la postmodernità vive nell’ansia di regolare ogni cosa, ha inventato le giornate dedicate alle cause più varie. Il 20 marzo di ciascun anno si celebra la giornata mondiale della felicità sotto l’egida dell’Onu, il che assicura di per sé il fiasco dell’iniziativa. In una società tribolata e melanconica prosperano sorrisi impostati e gesti di falso entusiasmo sotto l’impero ideologico del pensiero “positivo”, tra celebrazioni stanche, frasi vuote, magniloquenti ovvietà. La felicità, che costituì un pilastro del pensiero politico di Aristotele – per quanto riservata a Dio – è ridotta, nelle moderne società di mercato, a categoria psicologica ed economica da celebrare a data fissa. E’ derubricata a benessere da calcolare con eleganti equazioni il cui scopo è misurare la qualità della vita attraverso standard materiali.
L’intenzione è definire in termini statistici uno stato d’animo, una categoria concettuale che rifugge il calcolo aritmetico in quanto fondata su un ineludibile elemento metafisico. I cosiddetti esperti non riescono ad accettare, modelli matematici alla mano, che le società più prospere economicamente siano investite da epidemie di depressione, infelicità scandita dal male di vivere sino ai tanti suicidi di cui dà conto la cronaca. La soluzione “tecnica” è ricercata in termini biomedici, con il sorgere di una sorprendente scienza della felicità. La sua sola esistenza dimostra il tremendo abuso della parola “scienza”, oltre all’urgenza di una filosofia della scienza radicata su più solide basi morali, ed epistemologiche.
Le critiche che investono questa diafana ideologia della felicità declinata in termini di benessere materiale descritto in numeri non riescono a farsi strada nel potente fronte del pensiero cosiddetto positivo, teso all’estasi “felicitaria” attraverso la forma merce. Il vigore della critica, combinato con la sua disperante inefficacia pratica, porta a constatare l’impotenza politica di ogni critica o contrasto di idee nelle democrazie fondate sul mercato. Nell’orizzonte del liberalismo antropologico, cui non sfugge alcun aspetto della vita, la felicità si concepisce come attributo universale vissuto soggettivamente come ben-avere. Confusa con lo stato d’animo che si associa alla salute biologica, si fa coincidere la felicità con il benessere, nozione opaca che riduce il problema della felicità alla biochimica.
Si diffondono farmaci ansiolitici, antidepressivi e euforizzanti, si stampano e diventano best-sellers ridicoli manualetti che promettono la felicità auto costruita. Verrebbe da ridere, sarebbero fonte di buonumore se il sorriso non contenesse una sardonica amarezza. In quelle operine vengono esaltati milioni di “ego” minimi che vivono in una dimensione autocentrata, soggettiva ma incontrastabile. Fragili personalità “autocoscienti” masticano con diletto prodotti di purezza ecologica, annotano ogni tendenza dell’animo, i ritmi circadiani del corpo, registrano i sogni e le pulsazioni cardiache, si compiacciono di ogni osservazione della realtà circostante in cui ciascun dettaglio è definito in funzione del benessere individuale. Coscienze “liberate”, cosmopolite, esercitano la più minuziosa auto analisi in cerca di un durevole equilibrio, convinte che il mondo giri attorno al loro ego ipertrofico, quindi infelice. Un universo a misura di ombelico.
False religioni dell’autocoscienza esprimono puntigliosamente i miracoli dell’egolatria nella forma atomizzata di una felicità universale distributiva, vissuta come diritto. Il problema è che la persona, la coscienza soggettiva, non si sostiene per se stessa: esige un vincolo essenziale, il confronto con gli altri. L’ identità individuale risulta dall’appartenenza a una struttura comune, il che manifesta l’impossibilità di essere persona se non si è in comunicazione con altre persone. L’idea stessa di felicità è un prodotto storico delle circostanze reali e non un criterio universale astratto applicabile a ognuno in base a parametri statistici. La felicità si definisce in mille modalità distinte non misurabili, tanto meno con il vacuo ottimismo pubblicitario del pensiero contemporaneo teso alla statistica; happiness da ragionieri.
Negli anni 20 del XX secolo arrivò negli Usa la prima ondata della comunicazione moderna, una bulimica demenza modernista. Negli anni folli e ruggenti di Fitzgerald, prima di finire nel crac del 1929 e sprofondare nella Grande depressione, si parlava di filosofia della felicità (o dell’ottimismo). Oggi si tratta d’altro, una prassi minimalista dell’essere o meglio della sola possibilità di essere. Quello che si persegue è una sorta di “ipertutto” il cui sbocco sono il transumanesimo e l’Homo Deus. Viene declinata una filosofia dell’istante, il Big Now, il grande adesso, il cui centro non è più la felicità ma il benessere. Si tratta di una parodia volgare e mercantile, una rapina concettuale, un simulacro eretto come totem dalla società dei consumi. E’ la mercificazione del concetto di felicità a profitto dell’ideologia del sistema, mercato, desiderio, consumo. Una rivoluzione antropologica costruita a tavolino ha fatto sì che il comfort, la comodità – ulteriore volgarizzazione del benessere – prendesse posto tra i valori fondamentali, fino a diventare l’aspirazione per eccellenza della nuova ideologia destinata a perpetuare le norme del sistema.
Gli psicologi distinguono i valori strumentali (mezzi) da quelli terminali, che trovano il loro fine in sé. Fanno parte dell’ambito funzionale concetti come sicurezza, rapidità, di quello terminale l’amicizia, l’amore e la libertà. Milton Rokeach, lo psicologo che teorizzò questa scala negli anni 60, fu il primo a indicare il comfort come valore “terminale”, principio centrale della vita. Su queste basi, la società dei consumi ha potuto trasformare il benessere in merce, un travestimento della felicità. In sostanza, ha venduto piacere, o meglio speranza, aspettativa chiamandola felicità. Il benessere trasformato in principio inderogabile è un mezzo per far passare concezioni come quella di “cittadini del mondo” – il linguaggio della globalizzazione- da idea dotata di una sua rispettabilità concettuale a post ideologia volgare incarnata nel consumismo senza limiti, il cui effetto è la riproduzione del Sistema nella sua forma iperliberista.
Intanto, non cessa di approfondirsi il solco tra chi può estendere il benessere a nuovi finti bisogni, capricci o comfort e tutti gli altri. La sorpresa degli economisti per la poca felicità dei benestanti si è arricchita dell’apporto di Richard Easterlin, teorico del paradosso che porta il suo nome. Stupito dall’allegria che constatava nei paesi poveri, realizzò un fortunato modello matematico (tutto oggi deve esprimersi in equazioni!) a dimostrazione della scarsa relazione tra reddito, benessere materiale e felicità.
Un chiaro fallimento, dimostrato more geometrico, del progetto sorto con i Lumi due secoli e mezzo fa, fonte delle grandi narrazioni di progresso e felicità. Invero, anche i più materialisti erano all’epoca persuasi che il progresso tecnico fosse sinonimo di avanzamento morale. L’uomo, nella visione di un Condorcet, sarebbe stato capace di comprendere la responsabilità del benessere e vivere più felice, poiché riteneva evidente il legame tra libertà e felicità. La libertà non era considerata solo il fondamento di un progetto politico emancipatore, ma l’anello essenziale di un contratto che postulava la libera scelta come condizione sine qua non della felicità. Facile è stato il passo successivo di assimilare la società al mercato, facendo del marketing – falso sinonimo di libera scelta di consumo – un garante della stessa democrazia.
E’ sin troppo facile constatare che la modernità non ha mantenuto la promessa; l’uomo non ha compiuto progressi significativi sulla strada della felicità. Appare vero il contrario, non solo nei termini statistici che confermano che non siamo più felici dei nostri antenati nonostante più tempo libero, maggiori svaghi e la speranza di vita allungata dai progressi della medicina. Si è generalizzata un’angoscia sconosciuta alle generazioni precedenti; l’ateismo unito al materialismo più greve induce l’orrore della morte, che trascina con sé l’incapacità di sopportare, concepire e persino osservare la malattia, la miseria, il pericolo. La ricerca della felicità, con buona pace di Jefferson e del sogno americano, esaurite le illusioni circa il progresso morale dell’umanità, si è convertita in un clamoroso fallimento dei Lumi.
Che cosa promettere, dunque, agli uomini, anzi agli individui, se la felicità non è più un orizzonte plausibile? Il capitalismo, erede e beneficiario della tempesta rivoluzionaria, ha trovato la risposta: il surrogato “mondano” e tangibile della felicità è il benessere. Si è trattato di proporre (imporre) a generazioni incapaci di essere felici una specie di avatar, il benessere appunto. L’avatar, lo sanno bene gli utenti della Rete, è una rappresentazione, non una forma concreta, reale. Il benessere diviene avatar della felicità in quanto ne assume le sembianze. Avatar, in sanscrito, significa “colui che discende”; era la definizione della divinità che non si mostrava agli uomini se non indirettamente.
La felicità definisce uno stato duraturo dell’animo che include gioia di vivere, attesa, prospettiva, unione feconda con il mondo circostante, il benessere è un’emozione passeggera essenzialmente sensoriale. Perciò esiste una tradizione filosofica che parla di felicità, ma nessuna centrata sul benessere. La società di mercato disprezza ogni tensione spirituale, combatte qualunque morale non fondata sull’attimo, sulla quantità, su tutto ciò che non sia misurabile e compravendibile. Per questo, l’economia della felicità surrogata diffonde l’idea che i fattori esterni influiscano poco sul benessere, fatto individuale ed edonistico. Abolisce così la ricerca della felicità, spostandola nel godimento, offrendo benessere, piacere, consumo. Tutti insieme, non sono che avatar, rappresentazioni olografiche, succedanei uniti dal principio di mercificazione della vita attraverso una psicologia dell’avere. Il nostro tempo ha inverato la riduzione della felicità al calcolo strumentale espresso nell’unità di conto denaro, movente universale.
Scriveva Charles Dickens in David Copperfield all’alba della rivoluzione industriale: “Reddito annuale venti sterline, spese annuali diciannove sterline diciannove scellini e sei penny; risultato: felicità. Reddito annuale venti sterline, spese venti sterline e sei penny, risultato: disperazione.”
ROBERTO PECCHIOLI