di ALCESTE
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Venerdì. Parto per il mio annuale pellegrinaggio nel Viterbese, a ridosso dell’Umbria.
La raccolta delle olive.
Col tempo questa ricorrenza è mutata nel mio animo.
Qualche anno fa era una ricorrenza felice, con dei pallidi riflessi orgiastici, una sorta di Dionisiache dell’autunno.
Oggi assomiglia a un itinerario del dolore, della privazione.
Già quando si scavalla sulla Cimina ci si accorge che qualcosa non va.
I castagni lungo la strada, che una volta donavano liberamente e spontaneamente i loro frutti, oggi sembrano stitici. Ricordo che, negli anni passati, decine di viaggiatori fermavano le loro auto sul ciglio della strada per fare incetta dei ricci caduti sulla strada e passare, quindi, la serata accanto al fuoco.
Oggi di castagne non se ne vede ombra.
La produzione è a picco.
Forse un parassita, forse il diavolo. Le piante hanno un aspetto malaticcio. Il mio minuscolo castagneto, d’altra parte, è abbandonato da qualche tempo, e ormai infruttifero.
Questa la campagna. Un tempo donava, oggi bisogna strapparle i frutti a bastonate di anticrittogamici e pesticidi, come un vecchio ronzino renitente.
Sopravvive, in tale carestia, solo qualche anacronistica festa della castagna. Come i documentari del National Geografic: tigri e leoni stanno scomparendo, ma loro continuano a sfornare reportage sulla selvaggia e terribile fauna felina. Così il fesso sulla poltrona continua a credere che il mondo della sua infanzia (leoni, ippopotami e tigri ne popolavano i sussidiari) persista come sempre.
Le castagne non ci sono, ma si fa la castagnata.
La sagra delle castagne, la festa delle castagne.
Una volta presi a parte uno degli organizzatori. Confessò, senza troppi rigiri di parole, che il grosso dei frutti utilizzati nella sagra era stato acquistato all’ingrosso.
“E dove le pigliate?” Gli feci. “Al mercato X. Pare che siano castagne del Bangladesh” rispose con rassegnato candore. “Bangladesh? Mi pigli per i fondelli?“. E quello, come a canzonarmi: “Da quelle parti hanno due raccolti all’anno“. Interviene un altro: “Ma che Bangladesh. Sono spagnole. Il Bangladesh compra le eccedenze in Spagna per due lire e poi le rispedisce a noi coglioni a prezzo pieno“. Le castagne del Bangladesh, prosegue il tipo, sono di altro tipo, crescono in acqua. L’altro interlocutore si acconcia alla nuova spiegazione: “Tanto che cambia?“.
Infatti non cambia niente: le castagne non ci sono e il Bangladesh ci tiene per le palle. Intervengo a lume di logica: “Ma perché non le compriamo noi in Spagna per due lire?“. Nessuno lo sa. Alla fine arriva la botta di depressione: “Se continua così qui è finita. Finita“.
Rassegnazione e scherzo. Conosco tale stato d’animo. È la leggerezza di chi non sente il destino nelle proprie mani. Fatalismo. Il potere li ha condotti in un vicolo cieco, giorno dopo giorno, tassa dopo tassa, direttiva idiota dopo direttiva idiota; si sono fidati nell’ordine della Coldiretti, della DC, di Forza Italia, ora del PD; non scorgevano, come al solito, il disegno complessivo: la progressiva eliminazione di ogni realtà agricola medio-piccola. Li hanno portati qui, togliendogli ora un’esenzione, lì un incentivo, qua una detassazione. Li hanno allagati di leggine folli, regolamenti inattuabili, obblighi, imposte, burocrazia inutile. E ora eccoli, con un pugno di mosche in mano, una generazione di figli menefreghisti e nessuna prospettiva. La situazione è senza sbocco: non rimane che farsi una risata sull’orlo del l’abisso.
Anche lo storico titolare del frantoio Matteucci, Mario Matteucci, scioglie il suo grido di dolore. Il suo frantoio è uno degli ultimi a utilizzare la vera spremitura a freddo, con torchi e fiscoli. E infatti Matteucci, un uomo senza età, una sorta di genius loci, ancora attivo ed energico, è un maestro fiscolaio.
Il fiscolo è una sorta di anello in fibra vegetale su cui è spalmata la pasta delle olive che scende dalla mola. I fiscoli vengono poi inanellati nel torchio e schiacciati gradatamente dalle presse. Il liquido ottenuto è poi decantato della sua parte acquosa residuando quale olio. Olio d’oliva spremuto a freddo.
Matteucci intreccia fiscoli, canapa e fibra di cocco da parecchi decenni. Vi ricordate il celeberrimo cavalcone de L’armata Brancaleone di Monicelli? L’ha fatto lui, con le sue mani. Ne conserva ancora qualche spezzone.
Per arrivare al frantoio (che risale al 1856, è in Via del Paradosso) occorre attraversare uno dei luoghi più belli di Viterbo. O del mondo. In realtà non si va a visitare un luogo: vi si reca in pellegrinaggio.
E, al solito, non è importante l’arrivo, ma ciò che accade alla nostra anima durante il viaggio. Come nella leggenda del Simurgh. Tutti gli uccelli del mondo partono alla ricerca del favoloso Simurgh, la Fenice; durante il viaggio sopportano terribili sofferenze, quasi tutti muoiono. Infine arrivano, in numero di trenta, e solo allora, dopo la purificazione del viaggio e del dolore, sono finalmente in grado di capire: il Simurgh sono essi stessi, il dio è quei trenta sopravvissuti.
In autunno, verso l’imbrunire, senza negozi e automobili a ricordare la volgarità dell’eterno presente, incamminarsi verso la Via del Paradosso è un’esperienza memorabile, almeno per chi è sensibile a tali sortilegi.
Nonostante la vicinanza del centro storico, il silenzio è quasi totale; le luci fievoli. Domina la possanza gentile del tufo e della pietra. L’angusto camminamento medioevale ci conduce coi suoi parapetti, le scalinate secolari, le rientranze delle mura e gl’improvvisi saliscendi; ecco un arcata, o un ponticello; l’erba vetriola spunta a ciuffi qua e là: alcune dimore abbandonate hanno il tetto sfondato, ma non stonano mai col paesaggio, quasi fossero i naturali invecchiamenti di un nobile corpo. Il verde cupo dei cipressi immobili si staglia meravigliosamente sul grigio delle pietre.
Matteucci è alla plancia dei comandi. Ordina, controlla. “Qui bisogna fare il Napoleone o non si capisce più nulla“. Ma anche lui, in fondo, è rassegnato, e non certo per l’età. “Non c’è niente da fare, è finita. È come la morte per un vecchio. Non sai quando arriverà, ma arriverà, è sicura … prima o poi … presto“. Italia kaputt. Poi la litania, sempre la stessa: lo Stato porco, i politici ladri, l’euro, gli immigrati. O, a piacimento: l’euro, lo Stato porco, i politici ladri, gli immigrati. “Sono sempre stato antifascista, ora voglio solo qualcuno che dica: andate via“. Guardo il suo lavorante più fidato, un egiziano, occupato a scaricare casse di olive. Lui capisce al volo: “Quello non è un immigrato, è un ingegnere. Un ingegnere vero. Sta con me da dodici anni. Una mosca gialla“. Cioè, una eccezione. Lo stato porco, l’euro, Equitalia. Il lavoro impossibile: chi fa qualcosa è svantaggiato, meglio non fare più niente … e così via. “Sono giusti gli obblighi: i NAS, l’antisofisticazione … ma quando ti entra ogni giorno in azienda una sanguisuga … devi riparare la tettoia, devi spostare quello, devi fare quello … quattrocento di qua, trecento di là … come fai?“.
I grani del rosario scivolano nel discorso. Tutti li conoscono. Non si ha, però, più voglia di lottare. “Assuefazione al declino“, l’ha chiamata un sociologo. E i figli? I figli sono già assuefatti perché non ricordano l’Italia che funzionava e produceva.
I politici ladri e menefreghisti sono gli amici più cari dei castagnari del Bangladesh che, in presenza del menefreghismo e in assenza di politica, si fanno gli affari loro. Affari che non coincidono con quelli degli Italiani. Le castagne del Bangladesh! Altro che leggenda metropolitana.
A Roma i caldarrostari, come si chiamano, sono tutti dei loro. L’armamentario è quello vecchio stile, col piatto bucherellato e le braci. Le castagne, gigantesche, con la buccia intagliata in un sorriso di scherno, invece no. I bangladini, grassi, tarchiati, inattaccabili dal fisco e da Equitalia e dalla legge in generale, aria dimessa e cellulare ultima generazione pronto in tasca, proliferano nelle strade romane a parodiare l’antico burino che, nei mesi freddi, svernava nella grande città per tirare su il companatico. Il rapporto città/campagna, ancora vivo nel dopoguerra, oggi pare definitivamente interrotto.
Persino Georges Simenon, negli anni Sessanta, se ne lamentava: dove sono, si domandava, quelle piccole trattorie che si rifornivano dalle fattorie perse nelle secolare campagna della Francia profonda, gretta, umile e sanfedista? Ah, i bei tempi! E infatti pure Simenon passava per reazionario.
Eccoli i bangladini castagnari, a loro agio come un pesce mutante in un ruscello di Chernobyl. Con la loro presenza silente e incongrua pare che si siano portati appresso pure il clima. Umidiccio, afoso, rotto da improvvise, brevi, e violente piogge, incostante. Anche qui, nella bassa Tuscia, mi perseguita questa aria opprimente e malsana, quasi tropicale. Il clima stona con il paesaggio, con i palazzi medioevali, con le merlature dei castelli signorili: un’arietta ostile, buona per i bonghi e il voodoo, non certo per le delicate architetture di queste parti. Sembra che un miasma ostile deteriore costante ciò che pareva inalterabile. A inizio novembre siamo in maniche corte, persino il vento è cambiato: umidiccio, cattivo, tiepido. Suggestioni?
Senza una basica alternanza fra clima caldo e freddo tutto imputridisce. Le piante, soprattutto, costrette a vegetare continuamente per dodici mesi, si sfiancano. E si sfiancano anche gli edifici patrizi, le abbazie, le torri, non abituati a tale ristagno da tam tam. C’è un vago sentore di palude, di disfacimento. Sacrificare questi luoghi equivale a condannare l’Italia.
Non ho null’altro da aggiungere a ciò che disse il poeta negli anni Sessanta:
“I monumenti, le cose antiche, fatte di pietra o legni o altre materie, le chiese, le torri, le facciate dei palazzi, tutto questo, reso antropomorfico e come divinizzato in una figura unica e cosciente, si è accorto di non essere più amato, di sopravvivere. E allora ha deciso di uccidersi: un suicidio lento e senza clamore, ma inarrestabile. Ed ecco che tutto ciò che per secoli è sembrato ’perenne’, e lo è stato in effetti fino a due tre anni fa, di colpo comincia a sgretolarsi, contemporaneamente. Come cioè percorso da una comune volontà, da uno spirito. Venezia agonizza, i sassi di Matera sono pieni di topi e serpenti, e crollano, migliaia di canali (stupendi) in Lombardia, in Toscana, in Sicilia, stanno diventando dei ruderi: affreschi, che sembravano incorruttibili fino a qualche anno fa, cominciano a mostrare lesioni inguaribili. Le cose sono assolute e rigorose come i bambini e ciò che esse decidono è definitivo e irreversibile. Se un bambino sente che non è amato e desiderato – si sente ’in più’ – incoscientemente decide di ammalarsi e morire: e ciò accade. Così stanno facendo le cose del passato, pietre, legni, colori. E io nel mio sogno l’ho visto chiaramente, come in una visione”.
Riparto verso il mio oliveto. Già tutto pronto. Temo il peggio, come detto.
E il peggio arriva.
Le olive, molto semplicemente, non ci sono. Quasi tutte cadute. La mosca dell’olivo in dieci giorni ha fatto strage.
Anche gli alberi non stanno bene. Incerti, con delle ramaglie essiccate, malinconici.
Corro ai ripari. Intervengo sugli alberi più promettenti, in fretta.
Un giorno e mezzo di lavoro e ho finito.
Da circa ottanta piante ricavo quattro quintali.
Peggio di due anni fa quando i quintali furono sei.
Lontani i tempi dei trenta o quaranta quintali.
Allora si nuotava nell’olio.
Al frantoio, poi, le cose non vanno meglio.
Due anni fa, almeno, le olive rendevano. Poche, ma buone. Fecero quasi un diciotto (diciotto chili di olio per ogni quintale); oggi siamo su un dieci per quintale.
Con quattro quintali i conti sono presto fatti: al netto della tara del contenitore di zinco ecco i sudati frutti del lavoro di un anno: 41 chili d’olio.
E che ci faccio? Al massimo una bruschettata.
Cominciano le vociferazioni. L’olio dell’anno scorso è già introvabile. Quello di quest’anno veleggia sui dieci euro per chilo. E sono prezzi stracciati. In altre zone del Viterbese e dell’Umbria già passa di mano a dodici, quattordici, quindici. Al nord arriverà a diciotto o venti.
Mentre aspetto la spremitura al frantoio parlo del più e del meno con gli altri coltivatori. L’età media è alta, sui settanta. Ci si lamenta, certo, ma giusto per passare il tempo. Come sopra. Al solito ci si divide fra mistici e scientifici.
I Mistici danno al colpa alla globalizzazione, gli Scientifici incalzano e rilanciano.
I Mistici, in netta minoranza, vogliono la chiusura delle frontiere, il ritorno alla zappa, alle potature d’antan e alla merda di cavallo.
Gli Scientifici agognano sempre più tecnica: concimi chimici, concimi da terra e foliari, diserbanti, anticrittogamici e insetticidi: due, quattro, sei volte all’anno, da maggio a settembre. La vicenda sembra dargli ragione: sono quelli che hanno subito meno danni. A che prezzo? Il coltivatore con più successo (è arrivato a centoventi quintali) è ritenuto una specie di untore: verderame più sette passate di anticrittogamico. Le sue olive però sono eguali alle altre.
Le divisioni fra Mistici e Scientifici si costituiscono naturalmente, spesso solo per sfottere. Il mulino è una prova di virilità, soprattutto. Una sorta di gara a chi ce l’ha più lungo. Sei stato un anno a zappettare e tagliare e ora come ti presenti? Con quella miseria? Ce l’hai corto allora. E giù sarcasmi. Perché, alla fine, dopo un anno, tutto si riduce a questo: a fissare la cannella che spunta dalla mola, dai torchi, dai miscelatori e dai separatori: se da quella zampilla l’olio denso e verde hai le palle, altrimenti sei un cornuto impotente.
Giusto così.
Un Mistico improvvisamente mi prende a parte. Ha ottantacinque anni e l’aria del cospiratore. “Sono dei coglioni” esordisce asciutto. “La mosca dell’olivo c’è e combina quello che combina, ma questi si sono mai chiesti il perché?“. Prosegue: “La mosca dell’olivo c’è sempre stata, ma non ha mai provocato questi danni“. Si ferma per aspettare teatralmente la mia inevitabile domanda. “E come mai li provoca adesso?” chiedo infatti. “Semplice, sono i concimi stessi a richiamarla“. Incredibile, un vegliardo complottista. “Prima non si usavano concimi, solo merde di pecore o di vacche o di cavalli. Non si avevano i soldi per le scarpe, figuriamoci per i concimi … sono i concimi chimici che richiamano i parassiti così sei costretto a comprare anche gli antiparassitari“. È un’idea, rispondo un po’ convinto e un po’ no. “E quali parassiti richiamano?” domando. “Tutti .. tutti … anche quelli che non si erano mai visti“. È un’interpretazione. Grande la confusione sopra e sotto il cielo. “Due anni fa … quando non c’erano olive come oggi … quella non era la mosca …“. “E cos’era?” mi rassegno a chiedere. “Il clima” risponde. “Nebbie la mattina, e quaranta gradi a mezzogiorno. Le olive erano cotte, vizze. Quando si è mai visto un clima così? Nebbia d’estate fino a mezzogiorno e poi canicola? Cotte, erano cotte“.
Parassiti, clima impazzito, tecnologie del neocapitalismo impazzito.
Un comune denominatore c’è: la scomparsa del piccolo coltivatore, dell’azienda familiare, della microimpresa. Un tessuto produttivo schiantato in un paio di decenni.
Ma sì, che crepino tutti! Manca l’olio? Lo si prenda congelato dal Nord Africa, dove coi diserbanti (altro che Roundup) ci fanno il bagno. La melma viaggia al riparo da ogni ASL, Guardia di Finanza, e Padoan di sorta. Qui da noi si scongela, come il sangue di S. Gennaro, fa il giro in qualche alambicco, e finisce imbellettato nelle bottiglie artistiche delle “botteghe del gusto”, spesso esornato dal nome pubblicitario che fa tanta cassa; oppure, più prosaicamente, dopo ulteriori tagli, rifluisce nelle lattine da cinque litri/quindici euro dei discount. Tutti con la fascia tricolore, bottiglie trendy e lattine da discount … sempre con la fascetta tricolore, Dio non voglia che i gonzi si accorgano che quel liquido giallino altro non è altro che la distillazione di feccia nordafricana (non a caso i marocchini stanno facendo incetta dei macchinari dei frantoi italiani dismessi: cinque l’anno scorso, solo nella mia zona).
Solo così si ha ragione di un paradosso di costume tutto italiano: più decresce la produzione, quest’anno a livello di carestia, più aumentano i programmi gastronomici e i libri di cucina per coglioni à la page ispirati al gusto italiano, alle radici italiane, alle eccellenze italiane, alle bontà italiane.
La provincia sprofonda, ridotta a zero, in macerie, e sovrastata da un imperio burocratico e amministrativo vicino all’oppressione e al mobbing, e intanto i nostri ministri se ne vanno in giro a decantare la mirabile cucina, i sapori nostrani, il verdicchio, il grana, la lenticchia, la sfogliatella tal dei tali.
Un immaginario da Mulino Bianco e intanto qui si sta all’inferno.
La pizza italiana, l’olio italiano, le castagne, le noci, le ciliegie, i fichi, i cachi, il miele.
Ma di che parlano?
Le ciliegie quest’anno non c’erano, a meno di non averle irrorate con l’ultimo ritrovato chimico.
Molto semplicemente: i ciliegi non producono ciliegie. Semplice, no?
Anche qui un parassita. Punge il frutto. Esso rimane apparentemente intatto. Dopo la coglitura, però, la ciliegia deprime in poche ore. Che fare? Gli Scientifici non hanno dubbi. E allora via con l’antimuffa, il vermicida, l’anticrittogamico.
Ma di che parlano?
I consorzi agrari che prima si occupavano di distribuire i prodotti sul territorio sono stati sistematicamente annientati.
E il piccolo coltivatore che fa? Va da un produttore medio-grande a offrire la sua eccedenza. E questo gli fa il terzo grado. Alle ciliegie hai messo l’anticrittogamico Y? No, allora non le prendo. Il contadinotto allora si acconcia all’anticrittogamico. Torna l’anno dopo coi suoi quintali di ciliegie. Ecco qui, ho messo quello che mi avevi chiesto. Un po’ caro, ma ne vale la pena, no? Ma l’altro rilancia: ma l’antimuffa? L’hai spruzzato quello? Che faccio, ti compro dieci quintali di ciliegie e poi in due giorni mi ritrovo con la frutta marcia? E così via.
I prodotti italiani si stanno estinguendo come la tigre della Siberia. La ciliegia Maggiolina non va bene, la Ravenna ha il verme … allora si importano altre piante, mai viste a queste latitudini. Tutto bene per qualche anno, poi le piante, incredibilmente, manco fossero a tempo, avvizziscono velocemente.
Ma è lo stesso per il grano. Prima spuntava da solo, ora serve una laurea in bioingegneria.
I prodotti italiani?
C’hanno fatto pure un Expo. Appaltato alla camorra, ça va sans dire. Ma cosa reclamizzavano? Non certo i nostri prodotti, ormai alla deriva.
Ma è lo stesso con altre colture.
I fichi. Una raccolta disastrosa. Pessimi. Piccoli, annacquati. I cachi? Avevo tre piante, producevano a quintali. Quest’anno i frutti li ho contati singolarmente: trentadue.
Le noci? Alcuni alberi (pure loro) sono inariditi, così, da un anno all’altro. Gli altri producono qualche frutto, svogliatamente.
Comincio a credere anch’io alle teorie del mistico ottantacinquenne. La prova me l’ha data un boscaiolo romeno. Si chiama Anton, ma tutti lo chiamano Antonello.
Da mesi mi assilla perché vuole tagliare un boschetto di quercette che possiedo alla fine del campo. “Ti do soldi, se no che ci fai tu?” ripete tutte le volte che lo incontro. “E i noci secchi, te li strappo col verricello … ti spiano tutto … ci metti gli olivi più belli …“.
È un’idea. “Non sono secchi … è solo che non fanno noci … e comunque il noce ha un grande valore” gli ribatto. “Mi dai troppo poco”.
“Ma che grande valore! Non lo vuole nessuno il legno del noce! Né mobili né fuoco. Gli italiani non ci fanno niente col noce!” si infervora.
“E allora perché mi rompi i coglioni per queste tre piante?“.
“Vale da noi, in Romania. Il noce ha radici lunghissime, grossissime … quello che hai più grande ha radici lunghe come tutto il campo … noi ci facciamo le pipe … sono famose le pipe … ”
E mi racconta che i suoi in Romania hanno questi alberi di noci secolari … alti decine e decine di metri, con tronchi giurassici … alberi commoventi e semplici, tutti rigurgitanti di frutti. “Con le radici ci facciamo le pipe …” riprende, cantilenando come un fabulatore de Il Novellino “poi la sera … che da noi che vuoi fare … è buio … ci mettiamo tutti a spaccare le noci … ma le dobbiamo tirare fuori tutte intere … stiamo tutta la sera a rompere le noci … raccogliamo tutte le noci che abbiamo tirato fuori intere e poi le vendiamo … vengono coi camion … ci pagano … e chissà dove vanno i camion …“.
Ma sì, ci credo, è così. Camion dalla Germania e dalla Svizzera avidi di noci romene. Basso costo, tutto in contanti. Romania, l’antica Dacia di Traiano, Romania, paradiso incorrotto! Per adesso gli va bene ai romeni: sono preservati nella loro purezza dall’assoluta mancanza di tecnologia.
Questo il succo del nuovo postmoderno: più si è arretrati meglio si sta. Niente digitalizzazioni o dichiarazioni EU, niente Equitalia e università agraria per Anton il furbacchione! Cambio vantaggioso! Da Euro a moneta locale sonante! Comunicazioni al Ministero? Ministero di che?
Li invidio, questi birbantelli.
E pensare che mi danno del razzista!
I romeni non sono stranieri immigrati o quant’altro. Sono gli italiani degli anni Quaranta o Cinquanta, con le pezze al culo, ma non miserabili: liberi dalle paturnie dello psicologismo angloamericano, scaltri, reattivi, capaci di ogni sacrificio.
Anche questa la tengo come una verità inossidabile: la vitalità di una nazione è data non dalla speranza, ma da ciò che si è stati. Essere italiani è una distillazione di millenni.
Siamo così poiché essere così ci preserva dall’estinzione. Uno stile di vita che si trasmette naturalmente e a cui è possibile ritornare nei momenti di difficoltà: la salvezza. E però ci hanno detto che eravamo arretrati, barbari e puzzoni. Siamo perciò cambiati, siamo diventati progressisti … e ora, dimenticato il passato, non sappiamo più a che santo votarci.
L’italiano di oggi è fondamentalmente un depresso: gli basta chiudersi in casa coi suoi quattro balocchi: computer, cellulare, pornografia, calcio, l’ultimo cartone animato per il proprio frugoletto-bacarozzo … nel suo animo intuisce d’essere spacciato, ma se ne frega.
Sebbene di una generazione posteriore, anch’io, fino a metà degli Ottanta, vivevo alla romena. La casa della nonna, la stessa di oggi, era una casa di campagna, in blocchi di tufo, di quelli antichi, squadrati sul posto. Si viveva qui almeno due mesi all’anno, senza acqua calda, termosifoni, bidet, televisore, frigorifero. Ci si puliva nelle conchette e, una volta al mese, si faceva il bagno nella tinozza di zinco, quella che, dopo l’introduzione della caldaia e della doccia, fu relegata a vaso per il basilico (ne ho recentemente ammirata una in un mercato dell’antiquariato a un prezzo sorprendentemente alto).
Eravamo dei bruti, insomma. Sporchi? Chi lo sa? Forse, coi parametri attuali, sì. Allora si mangiavano cose che oggi, al solo pensiero, mi fanno rivoltare lo stomaco: gamberacci di fiume, cervella, lumache, fegati … eravamo dei veri romeni … e come scrissi qualche tempo fa, davvero liberi: la nostra corrispondenza con banche, poste, società di servizi (una corrispondenza di decenni) trovava comodamente posto in una scatola di scarpe. Il contante circolava libero, ogni atto necessitava di poche parole e ancor meno timbri.
Gli affari, anche quelli di cuore, erano regolati sulla parola.
Non era un paradiso, non rimpiango quei giorni.
Era così e basta.
E adesso che uso ipad, cellulari e quant’altro mi tocca battere il noce a settembre altrimenti i frutti cadono o marciscono o sono sistematica preda dei cinghiali.
Cinghiali? Una volta erano cinghiali. Ora sono sfrontati bestioni di oltre un quintale, prolifici e dannosissimi. Un’altra alzata d’ingegno dei nostri sgovernanti. Ripopolamento con cinghiali ungheresi, o incroci fra cinghiali italiani e maiali inglesi. Vacci a capire. Un bel risultato. Per avere qualche patata occorre mettere i fili elettrificati.
Anche i noccioli non stanno bene.
La vite sta scomparendo.
Ovviamente parlo di piccole e medie produzioni, la spina dorsale dell’agricoltura italiana.
Ma va tutto bene.
Leggo dal televideo l’ultima trovata del cretinificio scientista:
“Spinaci bionici che rilevano esplosivi. Le braccia di Popeye diventavano di ferro grazie agli spinaci, ma ora negli Usa hanno scoperto che questa verdura può diventare bionica. Arricchite con nanotubi di carbonio nelle foglie, si trasformano in sensori capaci di rilevare la presenza di esplosivi nel terreno per poi allertare l’uomo wireless inviando una mail su uno smartphone … gli ingegneri stanno sviluppando anche altre piante che monitorano l’ambiente e dialogano con l’uomo: per riferire la presenza di inquinanti o un’imminente siccità“.
Nessuna preoccupazione, quindi. D’altra parte le statistiche, ultimo rifugio delle canaglie, scatteranno a breve minimizzando il tutto.
Ho poco da fare, il raccolto era quello che era.
Allora me ne vado in giro per la provincia.
Faccio visita alla solita chiesa diroccata di cui ho parlato in altri post.
Lì vicino c’è il campo di un fruttarolo che conosco. Gli faccio visita. Si parla del più e del meno. A dir la verità tutta questa voglia di parlare manca, è solo uno sfogo.
Gli argomenti son sempre gli stessi, si ripetono in circolo, tutte le volte, come una filastrocca apotropaica.
Si lamenta il fruttarolo, che chiameremo Giuseppe. Si lamenta dei ladri, che gli hanno sottratto un macchinario trifase, degli sgovernanti, che non gli permettono più di fare nulla – concimare, bruciare frasche – e della gente in generale.
“Appena vedono le mie pesche un po’ storte, cambiano subito banco … gli frega assai del gusto a questi … vogliono i frutti rotondi, grossi, senza difetti sulla buccia … contenti loro se non sanno di niente … e ti credo … sono frutti da serra, gonfi d’acqua e diserbanti … vogliono la scena a tavola mica la frutta …”
Il nostro eroe si ostina a tenere lavoranti italiani, ma per lui butta male.
Ha licenziato un italianuzzo e assunto un africano … in nero … tempo un mese, però, e quello si è dileguato con l’incasso di due giorni di mercato … centrotrenta euro …
La storia della frutta spettacolare, rotonda, gonfia, insipida, senza bitorzoli, buona per un concorso europeo, la ricollego ad altre vicende, molto più dure.
Tempo fa il consigliere comunale di un paese nei dintorni, lo chiameremo Giovanni, denunciò alcuni individui che avevano sversato rifiuti tossici presso alcuni terreni che costeggiano il Tevere. In cambio ricevette una denuncia per diffamazione.
I due fendenti giudiziari, però, ebbero diversi destini. Mentre la denuncia per lo sversamento viaggia ormai verso la prescrizione, quella per diffamazione è viva e vegeta. Il nostro, insomma, è nei guai fino al collo tanto che gli è passata – lo so – qualsivoglia fisima eroica. Un suo compagno nel consiglio comunale che lo spalleggiava, è, intanto, passato ad altri lidi: gli hanno promesso il posto in una cooperativa che si occupa di migranti.
E gli sversamenti?
I terreni sono stati spianati, ma non bonificati, e riadattati per la coltura biologica.
Questo non è uno scherzo. Come detto: è così e basta.
Gasperino e Giovanni non si conoscono. Sono io che ricollego le loro storie.
E tali vicende posso, a mia volta, ricollegarle a un ulteriore aneddoto.
Circa sei anni fa il marito di una mia mezza parente doveva testimoniare in un processo. Una società era accusata di aver sversato rifiuti tossici in una cava.
La metto giù piatta: il giorno prima della testimonianza il Nostro (lo chiameremo Giulio) scomparve. Lo ritrovarono qualche giorno dopo. Morto. Un incidente di motocross: collo spezzato. Incidente avvenuto proprio in quella cava.
La famiglia volle vederci chiario, ovvio. Con timidezza. A queste latitudini la gente è sprovveduta e naturalmente indotta a prestar fede all’autorità, qualunque essa sia.
La passione per il motocross, la fatalità. Il processo cominciò a rallentare, la vicenda a sbiadire, lenta, dopo i primi clamori. Si accettò il verdetto dell’ineluttabile.
Rimasero i sussurri, buoni per i pettegolezzi a mezza bocca: dietro ci sono i Casalesi, no, c’è la camorra di Latina … e quant’altro …
Sono storie così, il quotidiano tran tran del malaffare e del crimine. Storie che trovano una loro sistemazione solo nel mio cervello e a cui non s’interessa nessuno.
E nel cervello degli inquirenti e dei magistrati trovano sistemazione? Non facciamo ridere, dai …
Un mio parente (un cugino buono, stavolta, come dicono da queste parti) vanta oramai una carriera ventennale nelle forze dell’ordine.
Una volta gli domandai, tanto per chiacchierare: “Ma a quante inchieste hai partecipato in zona? Inchieste serie, intendo“.
Spalancò gli occhi. Dopo vari farfugliamenti mi confessò di aver partecipato a una sola vera azione davvero rilevante e fuori dell’ordinario. Contro un truffatore. “Un truffatore? E che faceva?“. Pare che vendesse automobili online, a prezzi stracciati e quanto mai allettanti. Si faceva dare un anticipo, lo incassava, e poi si rendeva irreperibile. Tutto anonimo, inconsistente, digitale. Online. Attenzione. Irreperibile in che senso, direte voi. Nel senso, rispondo io, che non rispondeva più nè alle mail nè al telefono … in realtà non si spostava di un millimetro … E da dove moveva i suoi tentacoli questo cyberFantomas, direte voi? Ma dal suo paesetto, rispondo, lo stesso paesetto in cui svolgono le funzioni, usi a obbedir tacendo, i militi in cui milita il cugino buono. Ma c’è il lieto fine; alla fine il tizio lo incastrarono. E come? Grazie allo sforzo congiunto dei sopraddetti militanti e della solerte procura cittadina. Una magistrata, preda d’un empito repressivo, ordinò il controllo delle mail e dei cellulari del manigoldo … mesi di auscultazioni febbrili, poi le cimici oggettivarono qualcosa di compromettente … e scattarono le manette … un’operazione stra-ordinaria …
Durata: circa un anno, o due …
E il truffatore? Abita sempre nel paese, ovviamente … prima era agli arresti domiciliari, ora non saprei.
* * * * *
A volte mi chiedo se questa non sia la “terre guaste” del Graal.
The waste land, la terra desolata, o devastata. Sterile.
Il Re è ferito, è inadatto a governare, ha perso autorità. Oppure: un cavaliere straniero ne ha usurpato la sovranità, irridendolo agli occhi dei sudditi.
E il Re è la terra e la terra è il Re.
Ferito il Re, ferita la terra. Terra che diviene guasta, infruttifera, terremotata, precaria.
Quando la nazione è preda dei traditori e il genio della nazione è scacciato dagli usurpatori, la terra si ammala.
Chi si metterà in cerca del Graal risanatore? Chi sanerà la piaga del Re ferito ristabilendo l’ordine delle cose? Chi è il nostro Perceval che rimetterà le cose basse in basso e quelle alte in alto?
Non c’è alcun Re da restaurare. Il Re è uno, impersonale, eterno. Per questo si dice: il Re è morto, viva il Re! Il Re siamo noi. L’Italia è morta, viva l’Italia! dovremmo poter cantare.
Tutte queste considerazioni valgono nulla agli occhi disincantati dell’italiano.
Ma sono necessarie. Tutti, nei momenti di crisi, aspirano a una spiegazione, a qualsiasi spiegazione. È come salire su una vetta, qualsiasi vetta, e ammirare il panorama, qualsiasi panorama.
La vista ristora, purifica, rallenta il battito. Ciò che, ai piedi della vetta, era sembrato naturale ed era invece pervertito, qui sulla vetta ci appare nella sua inconfutabile realtà.
L’Italia è morta, viva l’Italia!
Alceste