Cattolici e Stato, oggi. di Luigi Copertino
1 luglio 2012
Forse è il caso di ripassare, brevemente, un po’ di storia delle idee per capire da dove viene l’attuale antistatualismo di molti cattolici. Il problema nasce con la modernità che imponendo il giurisdizionalismo ha posto lo Stato, o in genere la Comunità Politica, contro la Chiesa (nel medioevo invece il conflitto Chiesa – Impero riguardava la ripartizione di competenze in un quadro “sacrale” unitario). Da qui, dalla lotta contro lo Stato liberale hegeliano del Risorgimento, nasce il, perdurante, sentimento di diffidenza dei cattolici verso lo Stato moderno. Ma è possibile sostenere in via di principio una tale posizione dovuta a particolari contingenze storiche? Personalmente penso di no, memore del fatto che se è vero che il Cristianesimo ha “sdivinizzato” lo Stato è pur vero che sulla linea agostiniano-tomista la Comunità Politica, di cui lo Stato è la forma moderna, è definita “organismo morale”, “societas perfecta” che ingloba pur senza annullarle le “societates imperfectae” minori, dalla famiglia ai diversi corpi intermedi.
Certamente, secondo la Dottrina Sociale Cattolica, la Comunità Politica deve essere retta da principi morali di Giustizia, senza i quali, diceva Agostino, nulla la differenzia dalle compagnie di briganti. Insieme al giurisdizionalismo lo Stato liberale impose l’abolizione, oltre che degli usi civici e delle terre comuni, anche delle arti e mestieri, delle corporazioni. Anche questo corrispondeva all’ideologia liberale che voleva porre di fronte a sé, nudi, lo Stato e l’individuo, preso, quest’ultimo, nell’astrattezza della sua solipsistica singolarità. Questa dialettica “statalismo/individualismo”, naturalmente, favoriva, nei rapporti sociali, gli imprenditori che, così, liberati dai “lacci e lacciuoli” delle corporazioni e dei compagnonaggi (i proto-sindacati), dalle norme morali e dagli strumenti mutualistici e di carità imposti dalla Chiesa e dalla Corona, pattuivano, da una posizione di forza assoluta, le condizioni salariali con i singoli lavoratori. Il panorama di miseria e pauperismo denunciato da Dickens era il risultato della “liberalizzazione” rivoluzionaria iniziata con i fisiocrati settecenteschi. Tutto il sindacalismo moderno, e soprattutto tutto il movimento sociale cattolico ottocentesco, fu una risposta, una reazione, allo Stato liberale ed al suo contrattualismo meccanicistico.
A fine XIX secolo Leone XIII, però, non invitò a tornare semplicemente alle forme sociali del passato medioevale ma invitò i cattolici, attraverso i “sindacati anche di soli operai” (così nella Rerum Novarum), a lavorare per un sistema normativo che imponesse agli imprenditori di venire a patti, di Giustizia, con gli operai. Per questo quel Papa benedisse la contrattazione collettiva e l’intervento mediatore dello Stato al quale si chiedeva di abbandonare il vecchio schema liberale, agnostico in economia e nel sociale. Qualcuno, tra questi Savino Pezzotta, ha affermato che Leone XIII abbia anticipato Keynes. Dunque il cattolicesimo sociale, tra fine ottocento ed inizio novecento, abbandonò la mera prospettiva “tradizionalista medioevaleggiante” per aprirsi, soprattutto con Giuseppe Toniolo, alla modernità pur senza accettarne gli aspetti soggettivisti, individualisti, contrattualisti.
Ciò significava, certo, il riconoscimento giuridico della realtà delle comunità intermedie sindacali ma anche la richiesta di un ruolo forte dello Stato, che doveva intervenire nel conflitto sociale e nella sfera economica. Non sto qui a dire come, per questa strada, molti settori del cattolicesimo sociale guardarono alle realizzazioni sociali del fascismo come ad un inveramento delle loro speranze. Si rilegga, in proposito, la Quadragesimo Anno di Pio XI che per quanto critica d’altro canto elogia il corporativismo fascista. Si rileggano le pagine di Alcide De Gasperi, rifugiato in Vaticano, di critica alla dittatura ma al contempo di apprezzamento della politica sociale fascista nella quale non poteva non vedere certe continuità con gli auspici che erano stati del cattolicesimo sociale.
Ruolo forte dello Stato naturalmente significa anche, e soprattutto, sovranità monetaria e controllo della Banca Centrale. E’ vero che in questo primato dello Stato possono esserci anche dei rischi. Non lo nego affatto. Ma la contropartita è la realtà attuale di indipendenza dei banchieri centrali dal Politico e di sudditanza degli Stati e dei popoli ai “mercati finanziari” che impongono non – si badi! – una migliore amministrazione del Welfare ma il suo smantellamento in ossequio al più rigido liberismo. Non sarà certo il liberalismo tinteggiato di cattolicesimo di uno Sturzo, che non a caso è diventato il nume tutelare dei think tanks catto-cons come il “Tocqueville-Acton” e dei loro maitre a penser quali Flavio Felice e Dario Antiseri, a costituire una risposta, seriamente cattolico-sociale, al liberismo trionfante. Si tenga conto che Sturzo è stato aderente alla linea cattolico-sociale, sopra tratteggiata, fino a quando, mandato in esilio dal fascismo, non soggiornò prima a Londra e poi in America innamorandosi del mondo liberale anglosassone e credendo di vedervi – è lo stesso errore che fanno oggi i cattoconservatori – una continuità con le forme comunitarie di un’età a-statuale (ma, certamente, non antipolitica perché l’Impero era all’epoca la Comunità Politica prestatuale) come il medioevo.
Si trattava e si tratta di una svista storica e filosofica perché, sotto questo profilo, non sussiste alcuna continuità tra medioevo e mondo anglosassone moderno. Nella loro essenza filosofica le forme sociali anglosassoni moderne nascono sulla base del medesimo contrattualismo sociale che permea lo Stato giacobino europeo. Locke era contrattualista, sosteneva cioè che la convivenza politica nasce dal contratto (cui poi ha dato nome di Costituzione). Allo stesso modo però contrattualisti erano anche Hobbes e Rousseau, benché declinassero il contrattualismo in modo diverso dal padre del costituzionalismo liberale: Hobbes in termini autoritari e Rousseau in termini totalitari.
La linea di Hayek e Mises si aggancia direttamente al liberalismo massonico austriaco del XIX secolo che propendeva verso il liberalismo pragmatico ed antistatualista anglosassone, nato sulla scorta del pensiero di Locke, più che verso il liberalismo hegeliano-statuale al quale invece guardavano i liberali italiani come Silvio Spaventa. Ora la domanda è la seguente: questo percorso liberale austro-inglese che ha a che fare con il percorso seguito dal cattolicesimo sociale otto/novecentesco? Nulla! Infatti non fu un caso se la politica degasperiana nel dopoguerra non seguì per niente Sturzo, il quale anzi si prestò pure ad equivoche operazioni elettorali di matrice conservatrice, purtroppo caldeggiate dalla Curia romana, sfocianti però nel sostegno di fatto al liberalismo occidentale. Non fu neanche un caso se De Gasperi appoggiò in pieno Enrico Mattei che, sulla fascista Agip, creò l’Eni, un ente pubblico nazionale per rendere indipendente energeticamente l’Italia e lanciare una politica mediterranea di collaborazione con i popoli arabi.
Che oggi il mondo politico cattolico sia fortemente condizionato, per deficienze culturali e di conoscenze storiche, dalle sirene del mondo liberalconservatore è, purtroppo, un dato di fatto. Ma questo non significa affatto che liberalismo/liberismo e cattolicesimo politico coincidano.
Vengo ora ad alcune considerazioni più pragmatiche. I cattolici oggi si riempiono la bocca di “comunità”, “welfare community”, “sussidiarietà”, “economia civile”, etc. Questo li ha posti a fianco dei liberali in nome dell’antistatualismo. Se è possibile comprendere la cosa a fronte di una effettiva eccessiva invadenza del pubblico, non è comprensibile a fronte dell’attuale tendenza a ridurre a nulla la presenza del pubblico. Sono convinto che il cosiddetto “terzo settore” deve, invece, allearsi con il settore pubblico piuttosto che con il mercato, altrimenti verrà fagocitato da quest’ultimo, sia perché è il settore pubblico, politico, a poter creare norme a tutela del terzo settore, sia perché il mercato è finanziariamente più forte del terzo settore e senza appoggio del pubblico la partita è persa in partenza.
Va benissimo, per esempio, anche per alleggerire l’erario, che esistano gli ospedali delle confraternite religiose. Ma poi possono, senza appoggio statuale, sfuggire al mercato ed al malaffare (San Raffaele docet)? Possono poi quegli ospedali – fatta salva la carità di chi vi opera e la Provvidenza del Signore – sostenere i costi per i poveri facendo pagare solo i ricchi (i quali comunque preferiranno sempre farsi ricoverare in lussuose cliniche private)? In una società cristiana, come quella premoderna, certamente era possibile perché i ricchi sovvenzionavano i ricoveri per i poveri, per carità e/o utilità sociale. Non c’erano alternative all’epoca. Ma oggi, che i ricchi secolarizzati ed increduli non si fanno scrupolo alcuno delle sofferenze dei poveri, pensate sia ancora possibile se non nella irritante forma proposta da Hayek dell’elemosina statale per evitare la ribellione dei poveri? O il terzo settore si integra, in modo complementare, con il settore pubblico o è destinato ad essere il cavallo di Troia per destualizzare i servizi sociali a favore delle privatizzazioni di mercato. Per restare al nostro esempio: o l’ospedale religioso coopera con lo Stato sociale o il suo posto sarà preso dalla più concorrenziale clinica privata di lusso.
Non nego che una certa esitazione verso un terzo settore considerato risolutivo, panacea di tutto, sussista in me. Per quanto non escludo affatto che esperienze del genere di quelle che si considerano nel novero del terzo settore sussistano o possano sussistere, mi sembra, con buona pace del simpatico ed ottimo Zamagni, che finora esse sono solo di nicchia, tra Stato e mercato, e non hanno affatto quella consistenza che possa renderle davvero una terza alternativa concreta ed universale. Abbiamo troppo spesso fatto l’apologia della “comunità”, e tale dovrebbe essere ad esempio una “impresa sociale”, ma poi in pratica siamo litigiosi su tutto e su ogni quisquiglia, perché l’egocentrismo prende il sopravvento a causa della ferita, che ci portiamo dietro, del peccato originale. Ecco: spesso penso che gli entusiasti del terzo settore e dello spontaneismo comunitario siano portati, pelagianamente, a dimenticare che l’uomo è ferito dal peccato. Certamente, non sarà lo scrivente a cadere nell’errore opposto, luterano, di ritenere l’uomo sola corruzione e quindi da tenere a bada con la frusta. Mi limito solo a ricordare che, cattolicamente, l’uomo, ferito dal peccato, è ancora capace del bene ma che ha bisogno della Grazia per redimersi completamente. E questo vale anche nelle relazioni sociali, anche per il terzo settore, per il “comunitarismo”. Infatti il vero welfare comunitario sono stati capaci di metterlo in pratica soltanto i santi (per esempio, un san Camillo de Lellis o una Madre Teresa di Calcutta).
Tornando a livelli più pratici, per quanto mi consta lo scrivente figlio di artigiani, poi impiegati, e nipote di operai, ha potuto studiare, elevare la propria posizione sociale, farsi una cultura (per quanto nel mondo mercificato di oggi a poco vale) proprio perché a partire dagli anni trenta e poi nel dopoguerra l’intervento dello Stato nel sociale e nell’economia ha consentito ai ceti popolari di migliorare ed ha, cosa che spesso si dimentica, impedito, interclassisticamente, lo scontro sociale più distruttivo o le avventure dell’utopia ideologica. Oggi, con la direzione presa dal mondo dai tempi di Reagan ossia con il ritorno del liberismo, non sono più tanto sicuro di poter garantire ai miei figli, o ad eventuali futuri nipoti, quanto i miei genitori hanno garantito a me. In Inghilterra l’università, ad esempio, è tornata appannaggio dei soli ricchi.
Veniamo ora al ruolo della Banca centrale ed all’inflazione. La Banca Centrale, pur con tutti gli accorgimenti tecnici posti ad evitare eccessi inflazionistici, non può essere avulsa ed indipendente dalla Comunità Politica perché questo significa l’impossibilità della democrazia e l’egemonia della finanza globale che sta distruggendo gli Stati. Per quanto l’inflazione possa essere un problema (e non sempre, anzi mai, la stampa di moneta provoca inflazione: la Fed ha stampato tonnellate di dollari a partire dal 2008 senza provocare inflazione) NON E’ IL VERO problema. Certamente non lo è nelle attuali condizioni dell’economia globale. IL VERO PROBLEMA è oggi la disoccupazione da DEFLAZIONE. La deflazione giova solo ai banchieri ed agli speculatori (i “mercati finanziari”) che non a caso hanno elaborato una ideologia, il monetarismo, per diffondere lo spauracchio dell’inflazione come il principale problema. Una ideologia cui purtroppo occhieggiano più o meno inconsapevolmente anche tanti cattolici vittime dell’equivoco antistatualismo di cui sopra. Per quanto mi riguarda, pur – ripeto – con tutte le prudenza necessarie, preferisco un po’ più di inflazione ed un po’ meno di disoccupazione che il contrario. E’ anche più cristiano.
Cito da Il Tempo, un giornale liberal-conservatore, non da Il Manifesto: “… questa è l’epoca dei contabili senza fantasia e senza alcuna visione del futuro. Se avessero ragionato così gli Schumann, i De Gasperi, gli Adenauer, staremmo ancora spalando le macerie del dopoguerra. (…). Roosevelt uscì dalla Grande Depressione con il New Deal, il patto tra Stato, banchieri, industrie e lavoratori finanziato da capitali pubblici. Il suo predecessore Herbert Hoover aveva al contrario applicato una ricetta simil-Merkel. (…). Oggi non riusciamo a scorgere un Roosevelt (…). Possiamo però scegliere tra fiscal compact e Beppe Grillo.” (cfr. Marlowe “Il voto in Grecia è stato un bluff – il mal d’Europa è a Berlino”, Il Tempo del 19/06/2012).
Agli amici cattolici con simpatie liberali faccio notare che persino Berlusconi, l’alfiere del liberismo nostrano, ha finito per ammettere che è meglio un po’ di inflazione che questa lenta agonia deflazionista che ci sta imponendo la tecnocrazia monetarista di Bruxelles e Francoforte: “Non è una bestemmia – ha dichiarato proprio oggi Berlusconi con riferimento all’ipotesi di una uscita dall’euro e di una svalutazione competitiva – e ci sarà certo uno scandalo su tal ipotesi, ma cosa può succedere? C’è chi pensa che può esserci una perdita di ricchezza ma io non arrivo a capirlo: la casa non avrebbe una perdita di valore. Non bisogna aver paura di una moderata inflazione. Negli anni ’80 avevamo un’inflazione a due cifre ma ci sono stati aumenti di consumi e la disoccupazione era al minimo” (Cfr. “Uscire dall’euro? Non è un tabù”, Il Tempo 21/06/2012).
Ora se persino un liberale come Berlusconi lo ha capito mi chiedo perché mai ci si ostina, in una situazione di morte incipiente per deflazione, ad aver paura dell’inflazione, dell’immissione di liquidità in favore degli Stati (e non solo delle banche). Cari amici cattolici affetti da paura dello Stato, credo che da qui a qualche tempo, nonostante l’affermazione del liberismo su scala globale, dovrete, per la forza degli eventi tragici che abbiamo purtroppo davanti, rivedere molte delle vostre attuali posizioni.
Nel frattempo il Governo Monti parla di 276.000 esuberi nel pubblico impiego. Tutta gente che, dopo anni di contumelie, ora rischia di essere gettata in mezzo ad una strada, come tanti operai delle aziende private (nella pubblicistica liberista lo Stato è solo un’azienda e, dal momento che liberisticamente anche le aziende private non devono essere protette dai rigori della concorrenza globale e del dumping salariale asiatico, può seguirne la stessa sorte). Con una differenza fondamentale che nessuno, però, mette in rilievo: l’esperienza professionale nel privato può essere spesa per ricollocarsi nel privato ma l’esperienza professionale nel pubblico no. Avete mai sentito di una azienda che opera attraverso deliberazioni di Giunta, determinazioni dirigenziali, atti di impegno di spesa, note di liquidazione, accertamenti di entrata, aggiudicazioni di appalti, selezioni concorsuali, insomma tramite il diritto pubblico ed amministrativo? Io no, ed allora non è ben peggiore la situazione dei pubblici rispetto ai privati nella eventuale ricerca di nuova occupazione? Tra una lacrimuccia e l’altra la Fornero, liberista di ferro, ed il gelido (rigor) Monti, al quale pure piace farsi fotografare insieme al Papa, ci stanno riportando all’età nella quale il “lavoro non ha diritti perché funzionale al capitale”. L’età nella quale Leone XIII si opponeva al liberismo denunciandone la totale mancanza etica e protestando che, al contrario di quel che ritengono gli economisti liberisti, “il lavoro non è merce” (Rerum Novarum).