Che cosa cela l’attivismo politico, istituzionale e mediatico del francese Moscovici in Italia?
L’intervista rilasciata dal commissario Ue uscente, Pierre Moscovici, al Corriere della Sera proietta una luce inquietante sui rapporti tra Italia e Bruxelles tra dicembre 2018 e giugno 2019.
Moscovici afferma senza tanti giri di parole che la differenza tra la manovra di bilancio degli ultime due governi non sta tanto nel merito (pochi decimali, che non hanno mai avuto alcuna rilevanza economica), quanto nella differenza di approccio e di metodo. Il governo giallorosa ha da subito espresso la volontà di rispettare le regole comuni e non ha adottato l’approccio sfidante dei gialloverdi. Anzi, sottolinea che Tria e Conte furono “coraggiosi”, attribuendogli di fatto il ruolo di “quinta colonna” all’interno di un governo e di una maggioranza politica che invece premeva per una, sia pur modesta, forzatura di regole, peraltro considerate dannose da quasi tutti gli economisti.
Moscovici certifica quanto già noto da tempo: ci fu una lotta politica contro il governo italiano, condotta brandendo la maschera di regole opache e discutibili.
A proposito del Mes, il commissario evidenzia il ruolo di paracadute del fondo di risoluzione delle crisi bancarie e conclude sostenendo che l’eventuale aiuto del Mes a Stati in difficoltà non è automaticamente soggetto alla ristrutturazione del debito pubblico, presentandolo come un buon risultato negoziale dell’Italia. Ci invita cioè a gioire per finire sotto ghigliottina dopo un processo le cui regole assurde sono note ex-ante, anziché essere giustiziati direttamente.
Ma se questo è stato il clima, quanto avrà influito sulla contemporanea trattativa per il rafforzamento dell’Unione (di cui la riforma del Mes è elemento decisivo insieme al completamento dell’unione bancaria), partita con l’Eurosummit del 29 giugno 2018?
L’incrocio delle date è impressionante. Il 21 novembre 2018 la Commissione emetteva il suo parere sulla non conformità del nostro bilancio e minacciava l’apertura della procedura d’infrazione. Il 3 dicembre l’Eurogruppo stabiliva i principi fondamentali della riforma del Mes. Il 14 dicembre l’Eurosummit li approvava. Il 19 dicembre il Governo scriveva accettando il taglio di circa €10 miliardi alla prima bozza di bilancio per il 2019 (il famoso 2,04%) e la risposta della Commissione faceva rientrare la minaccia di procedura. Il 13 giugno 2019 l’Eurogruppo approvava la bozza di Trattato di riforma del MES. Il 21 giugno l’Eurosummit la confermava. A completare il quadro, il 2 luglio 2019 Tria e Conte scrivevano la famosa lettera di ‘resa’ ed il 3 luglio la Ue non procedeva con la procedura d’infrazione.
Va notato che la bozza di riforma del Mes licenziata dall’Eurogruppo del 13 giugno 2019 è il risultato di una lista di condizioni (term sheet) approvata proprio il 3 e 14 dicembre rispettivamente da Eurogruppo ed Eurosummit, in piena bagarre sulla legge di bilancio. Il dubbio che il nostro potere negoziale sia stato fortemente penalizzato dalla lotta politica in atto è alimentato da recenti affermazioni del professor Giampaolo Galli in cui sostiene che il risultato ottenuto sul Mes a dicembre 2018 e giugno 2019 fu il massimo ottenibile perché andammo ‘terrorizzati’ e col ‘cappello in mano’ e bisognerebbe ringraziare Tria, Conte e Rivera (direttore del Mef) “…per essere riusciti ad evitare l’automatismo della ristrutturazione nel Trattato del Mes, nonché l’apertura di una procedura di infrazione per debito eccessivo contro l’Italia. Date le condizioni politiche… hanno fatto un mezzo miracolo”. Questa affermazione fa il paio con un tweet del 31/7 quando Galli, commentando l’attacco del deputato leghista Borghi al ministro Tria sul Mes, scriveva “provate ad abolire il Mes e vediamo cosa succede allo spread Italia!”. Entrambe forniscono ampi indizi che la trattativa fu congiunta ed avvenne in un clima affatto ideale per la difesa degli interessi nazionali.
E la memoria non può andare alle fasi concitate dell’approvazione del bail-in, a proposito della quale Saccomanni affermò in Commissione d’inchiesta sulle banche che quella trattativa si svolse sotto la minaccia della reazione dei mercati verso un ritardo o, peggio, un fallimento dei negoziati. Nel febbraio 2019, l’allora ministro Tria in Commissione Finanze del Senato la qualificò come “ricatto”.
“…Che cosa poteva succedere all’Italia, al debito pubblico, al nostro spread, in un periodo di tale durata? Era effettivamente un rischio importante… Pertanto, questa combinazione di fattori… ha fatto sì che anche le argomentazioni che noi avanzavamo venissero accolte privatamente dicendo: sı`, in effetti voi avete ragione, questa situazione rischia di essere difficile da gestire, pero`… Lascio i puntini di sospensione per non dire cose più sgradevoli… si era in una situazione in cui non c’era alcuna possibilità di bloccare il negoziato e, se anche ci fosse stata, sarebbe stato molto probabilmente più dannosa che altro…”.
È forse accaduto qualcosa di simile tra dicembre 2018 e giugno 2019? Il presidente Conte avrà modo di chiarirlo in Parlamento il prossimo 10 dicembre.
(Versione integrata e aggiornata di un articolo pubblicato dal quotidiano La Verità)