Chi si umilia sarà esaltato

Scrive il profeta Isaia (14,12-15): «Come mai sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: “Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo”. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!». Fu il peccato di superbia a indurre l’angelo più luminoso creato da Dio, a passare dallo stato di grazia e di amicizia con il Creatore, allo stato di dannazione eterna, per aver voluto essere come Dio, ma contro Dio.

La superbia è la regina dei vizi: «Dei vizi che ci tentano, e con battaglia invisibile militano contro di noi al servizio della superbia che li domina, alcuni precedono come capi, altri seguono come esercito. Non tutti i vizi infatti occupano il cuore allo stesso modo. Ma mentre quelli maggiori, che sono pochi, sorprendono l’anima negligente, quelli minori e più numerosi l’affollano in massa. La stessa regina dei vizi, la superbia, quando prende pieno possesso del cuore sconfitto, lo consegna subito ai sette vizi capitali, come a certi suoi capi, perché lo devastino. Cioè, l’esercito segue questi capi, poiché è chiaro che da essi sorge la moltitudine fastidiosa dei vizi. Questo risulterà più chiaro citando ed elencando, per quanto è possibile, i capi e l’esercito distintamente. Radice di ogni male è la superbia, di cui la Scrittura attesta: ‘Principio di ogni peccato è la superbia’(Sir 10,15). I suoi primi germogli, appunto i sette vizi capitali, provengono da questa velenosa radice, cioè: la vanagloria, l’invidia, l’ira, la tristezza, l’avarizia, la gola, la lussuria. Ecco perché il nostro Redentore, preso da compassione nel vederci schiavi di queste sette vizi della superbia, pieno della grazia settiforme dello Spirito, venne ad ingaggiare la battaglia spirituale della nostra liberazione» (san Gregorio Magno, Moralia in Iob, XXXI, 87). Per san Tommaso d’Aquino «La superbia è il vizio e il peccato con il quale l’uomo, contro la retta ragione, desidera andare oltre la misura delle sue condizioni» (STh II-II,162,1), e ancora: «I superbi mentre godono della propria superiorità, trovano fastidio nella superiorità della verità» (II-II,162,3, Concl). «La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia… si vede giugner le ginocchia al petto, così fatti vid’ io color, quando puosi ben cura»: così Dante descrive, nell’XI canto del Purgatorio i tre personaggi rannicchiati su se stessi che camminano sotto il peso del masso che li opprime, costretti – dalla legge del contrappasso – a guardare dal basso il volto di coloro che nella vita furono umili.

L’umiltà è la porta stretta da praticare in questa vita per santificarla, in base alla Parola di Nostro Signore e per ricevere il premio della salvezza eterna. «Il sole», scrive san Giovanni Climaco, ne La scala del Paradiso, XXX, 15, «illumina tutto ciò che si vede; così l’umiltà dà consistenza a tutti gli atti compiuti secondo ragione. Quando manca la luce, tutto diventa oscuro; quando manca l’umiltà, tutto ciò che possediamo è senza valore». Scrive san Pietro «Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili, scrive san Pietro» (1 Pt 5, 5). Afferma sant’Agostino: «Gli uomini che tengono ben presente di non essere altro che uomini capiscono assai facilmente quanto sia utile e necessaria, a modo di cura, la penitenza» (Discorso 351, Il valore della penitenza).

Nel Vangelo di Luca si legge (Lc 18, 9-14): «Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”».

Spiega san’Agostino: «Il fariseo non tanto godeva della sua pretesa integrità, quanto del confronto coi difetti altrui. Di certo gli sarebbe stato più utile mostrare apertamente al medico, dal quale era venuto, i mali di cui soffriva, anziché nascondere le sue piaghe e prendere vanto dal confronto con quelle altrui. Non ci stupisce perciò se quel pubblicano, che non ebbe vergogna a mostrare la sua parte malata, se ne tornò più guarito dell’altro. Nel mondo del visibile, per raggiungere zone elevate, bisogna senza dubbio portarsi in alto; Dio invece, che è la somma altezza, si raggiunge abbassandosi per mezzo dell’umiltà, non innalzandosi». Per questa ragione, continua sant’Agostino, «”Il Signore è vicino a quelli che hanno il cuore contrito” (salmo 33) e ancora: “Eccelso è il Signore. Egli volge lo sguardo verso le umili cose e guarda da lontano le cose eccelse” (salmo 138). Le cose eccelse sta qui ad indicare “i superbi”; le une quindi le guarda per accoglierle, le altre per respingerle. Dicendo che alle cose eccelse volge lo sguardo da lontano mostra a sufficienza che a quelle umili fa attenzione da vicino. E tuttavia aveva definito poco prima “eccelso” il Signore stesso. Ma Dio, lui solo, non è superbo per quanto grande sia la lode con la quale viene esaltato. Non ritenga dunque la superbia di potersi celare agli occhi di Dio perché Dio, conosce le cose eccelse, e non creda che la sua sia un’altezza congiunta a Dio, perché le cose eccelse Dio le guarda da lontano. Chi pertanto rifiuta l’umiltà della penitenza costui non ha in mente di avvicinarsi a Dio: altro è infatti innalzarsi a Dio, e altro è sollevarsi contro di lui. Chi si china davanti a Dio, da lui viene sollevato; chi si erge contro di lui, da lui viene respinto lontano. Una cosa è la solidità della vera grandezza, altra cosa la vanità di un vuoto orgoglio. Chi si gonfia all’esterno si guasta al suo interno. Chi invece sceglie di restare umile alla soglia della casa di Dio piuttosto che abitare nella casa dei peccatori, costui Dio lo sceglie perché abiti nei suoi atri e, mentre egli per sé non pretendeva nulla, lo fa entrare nella sede beata. Per questo con tanta dolcezza e somma verità si canta nel Salmo: Beato l’uomo accolto da te, Signore. Non credere poi che chi si umilia stia sempre in basso, dal momento che è stato detto sarà esaltato. Ma non credere che questo tipo di esaltazione si verifichi davanti agli occhi degli uomini, per qualche superiorità connessa col mondo terreno. Nelle parole: Beato l’uomo accolto da te, Signore è incluso e svelato il livello di altezza spirituale di questa accoglienza. Ha messo gradini di ascensione – prosegue il Salmo – nell’intimo del suo cuore, nella valle del pianto, nel luogo stabilito da lui. Dove dunque ha collocato l’inizio dell’ascesa? Nel cuore, cioè nella valle del pianto. Questo è il significato di Chi si umilia sarà esaltato. Come infatti l’ “ascesa” è l’esaltazione dell’uomo, così la valle ne indica l’umiltà, i suoi gemiti nel profondo delle convalli. Come infatti il dolore è compagno del pentimento, così il pianto lo è del dolore. Si attaglia benissimo al tema il seguito del Salmo: Chi ha dato la legge darà la benedizione . La legge è stata data per mettere in luce le ferite provocate dal peccato, ferite che la benedizione della grazia può risanare. La legge è stata data per manifestare al superbo la sua debolezza e per indurre il debole a penitenza. La legge è stata data perché nella valle del pianto dicessimo [con l’Apostolo]: Vedo nelle mie membra una legge che muove guerra alla legge che è nella mia mente, e che mi rende schiavo della legge del peccato, che si trova nelle mie membra; e gridassimo piangendo con lui: Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Ci venga in soccorso, esaudendoci, colui che rialza chi è caduto, libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, la grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo il Signore nostro!».

Subito dopo il passo relativo al fariseo e al pubblicano, san Luca racconta l’episodio di Gesù e dei bambini, che conferma la dottrina sull’umiltà: «Gli presentavano anche i bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. Allora Gesù li fece venire avanti e disse: Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite perchè a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà» (Lc 18, 15-17).

Commenta sant’Ambrogio: «Perché mai il Signore dice che i bambini sono idonei a entrare nel regno dei cieli? Forse perché normalmente non hanno malizia, non sanno ingannare né ricercano la vendetta; ignorano la lussuria, non desiderano le ricchezze e non conoscono l’ambizione. Ma la virtù di tutto questo non risiede nell’ignoranza del male, bensì nel ripudio di esso; non risiede nell’impossibilità di peccare, ma nel non acconsentire al peccato. Il Signore non si riferisce pertanto all’infanzia in quanto tale, ma all’innocenza che hanno i bambini nella loro semplicità» (Expositio Evangelii secundum Lucam). Aggiunge san Josemaria Escrivá de Balaguer: «Accogliere il regno di Dio come bambini, farsi bambini davanti a Dio, significa rinunciare alla superbia, alla sufficienza, riconoscere che, per imparare a camminare e perseverare nel cammino, da soli non possiamo nulla, ma abbiamo bisogno della grazia, del potere di Dio nostro Padre. Essere piccoli significa abbandonarsi come sanno abbandonarsi i bambini, credere come credono i bambini, pregare come pregano i bambini» (È Gesù che passa, n. 143).

DA SERVO DI PANNELLA A FIGLIO LIBERO DI DIO – Una storia d’amore

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Un caro saluto, Danilo Quinto