Roberto PECCHIOLI
La stazione ferroviaria di una città padana, interno sera di una soffocante domenica estiva. Rari passeggeri scendono dal treno di una linea secondaria, in attesa della coincidenza. Nell’atrio, la biglietteria è già chiusa; sprangati, letteralmente, i due o tre negozi, il bar, la tabaccheria- edicola.
Tra l’uscita e i giardini che danno sulla piazza, un grande baccano. Una folla di persone, tutti africani. Le donne, per atteggiamento e vestiario, sono manifestamente in attesa di iniziare un antico, triste mestiere nei viali delle grandi città vicine. Tra gli uomini, prevalgono tipacci dall’aria patibolare, presumibilmente i loro sfruttatori. Non sono pochi, tuttavia, i giovani maschi con telefonino, cuffie e berrettino con la visiera all’indietro che di giorno stazionano davanti a locali e supermercati in attesa dell’elemosina. Sembrano curiosi e perplessi, più che eccitati: gli ultimi arrivati, quelli dei barconi. Una delle viaggiatrici rientra frettolosamente sul marciapiede e mormora al suo accompagnatore: siamo in Africa.
Avevamo pensieri analoghi, sperando nell’annuncio liberatorio del treno per casa, ma il tono della signora, una tristezza composta, lontana dal rancore o dal moralismo, chissà perché, ci ha fatto riaffiorare una frase letta tanti anni prima: amo il mio paese perché è mio. Fu scritta sette secoli fa da un vescovo cristiano, Stepanos Orbelian, storico dell’Armenia, una terra sfortunata, troppo vicina alla Turchia. La cosa più strana è la fonte di quella memoria lontana, non un testo di filosofia o un’opera letteraria, ma un racconto giallo di Rex Stout imperniato sull’imponente figura di Nero Wolfe, l’investigatore amante delle orchidee che non lasciava mai la sua casa di arenaria nel centro di New York.
Amo il mio paese perché è mio: poche parole definitive, sottili, tutt’altro che retoriche. Non si parla di patria o di nazione, solo di paese, e l’amore per esso non riguarda glorie passate, missioni storiche o destini futuri. Si avverte più un’idea misurata di possesso che l’orgoglio del padrone, mio è quello che riconosco, sta sotto i miei piedi, le pietre, le voci, le credenze, i costumi, le facce che mi somigliano. Le ragioni di Orbelian sono elementari: il mio paese è mio nel primo panorama visto da bambino, nella comunità che mi protegge, nelle parole che designano le cose, le persone, i sentimenti, pronunciate in una certa lingua, tra le case, i monti, i fiumi, che sono lì da sempre, gli stessi che hanno accompagnato la vita di altri come noi. Una delle prime grandi emozioni dell’infanzia di chi scrive fu la visita al cimitero, al tempo dei Morti, leggere il proprio cognome sotto fotografie invecchiate di gente tanto simile alla mamma, al papà, ai nonni. Senza saperlo, idee senza parole, cominciavamo ad amare qualcosa, semplicemente perché ci sembrava, era “nostro”, vivo, concreto attorno a noi.
In quella stazione, oppressi dalla calura, colpiti dall’estraneità profonda dell’umanità che avevamo sotto gli occhi, abbiamo compreso di colpo perché, già da tempo, non riusciamo più ad amare il nostro paese. Ovvio, non è più nostro, è stato espropriato, e non soltanto per la massiccia immigrazione sostitutiva, ma perché nulla sopravvive che somigli a quello che era pochi decenni or sono. La grande bellezza italiana, del paesaggio naturale come di borghi e città ha ceduto il passo a periferie anonime e uguali dovunque, la stessa tonalità di grigio, perfino i graffiti paiono tutti identici, chiazze informi che qualcuno definisce arte; chilometri di cubi e parallelepipedi lungo le principali strade di accesso, capannoni opprimenti multiuso, molti abbandonati, incuria ovunque, sciatteria generalizzata, costumi civili imbarazzanti, i centri storici delle città lasciati al degrado o in mano a criminali di cento nazionalità, indifferenza dilagante, burocrazie opprimenti, litigiosità.
Nessun principio condiviso ci rende comunità, Dio è morto, la famiglia è diventata arcobaleno o è allargata, eufemismi per non riconoscerne la fine. La patria fa ridere, il lavoro non c’è e quando c’è è precario, flessibile, a chiamata. Il nostro paese, ormai, è il trolley con le rotelle, bagaglio leggero per una vita zingara. No, zingaro non si può dire, meglio nomade, munito di smartphone, connessione veloce e carta di credito. Oppure la faccia oscura della luna, masse di poveracci sradicati da mafie in doppiopetto, illusi da cinici sfruttatori, il cui unico orizzonte è il centro di accoglienza, un presente tanto diverso da quello prospettato dagli schiavisti, nessun futuro. Chi è sradicato, sradica, è una spirale verso il basso, descritta dal genio di Simone Weil nella “Prima radice”.
Forse fa velo la malinconia che ci coglie invariabilmente d’estate: troppo caldo, troppa luce, folle scamiciate e sudate, ritmi e abitudini che mutano con l’alzarsi della temperatura, il mito delle ferie a ogni costo, l’esibizione sfrontata di sé, e non parliamo di corpi, ma di comportamenti. La decomposizione della società in questa parte dell’anno pare farsi visibile, tangibile, la senti, la annusi, un elemento del panorama. Magari è la stagione della disillusione personale, si preferisce la solitudine non in sé, ma perché segna la distanza da ciò che non ci piace e soprattutto non riusciamo più a comprendere. Nel carnaio della guerra di trincea, la distruzione circostante destava l’orrore di Giuseppe Ungaretti, ma gli faceva dire “è il mio cuore il paese più straziato”. Più modestamente, lo strazio è aver smesso di amare il proprio paese in quanto non lo si riconosce più. Cambiate le facce, le voci, le idee, i modi di essere, come amare ciò che non è più tuo?
Ulisse, l’eroe archetipo della civiltà occidentale, astuto, indagatore del mondo, anelava un’isoletta fatta soprattutto di pietre, Itaca. Nel vasto mare che aveva imparato a conoscere, sapeva che quello scoglio, uno dei tanti del mare greco, era la meta in quanto patria, luogo dell’anima, ma anche destino del corpo fisico che voleva trovarvi riposo. Ne era simbolo il letto nuziale fabbricato con le sue stesse mani. Lì voleva tornare, certo per rivendicare i diritti di re, ma soprattutto per rivedere le persone amate, respirare l’aria natia che un poeta italiano, Umberto Saba, avrebbe definito tormentosa. Il cane Argo, il vecchio padre Laerte, il pastore Eumeo, la moglie Penelope, il figlio Telemaco erano “suoi” più del trono, e Ulisse era certo che Itaca fosse lì ad aspettarlo. Questa è la differenza: per alcuni, dotati di una sensibilità incomprensibile al tempo corrente, Itaca non c’è più. Amavamo il nostro paese perché era nostro, finché era nostro. Per mille motivi, non lo è più e ci siamo trasformati in esuli senza esserci mossi da casa.
Scacciata la malinconia, abbiamo preso una decisione: dichiararci ufficialmente stranieri. Nulla di difficile, è solo la presa d’atto di una condizione esistente. Privi di un’Itaca a cui tendere, possiamo abitare nell’ Isola- che-non-c’è, la Neverland di Peter Pan, senza il dolore per il mancato ritorno, poiché questo è il significato di nostalgia, una ferita interiore che diventa dolore fisico. Probabilmente il guaio è stato crescere, il paese che amavamo non sarà mai esistito: da stranieri, ci sentiamo già meglio. In fondo Itaca è piccola, sassosa, i Proci hanno le loro ragioni, Penelope è invecchiata, l’isoletta la può amare solo chi non ha visto nulla del mondo. Con il trolley alla mano e Google Maps sullo schermo dello smartphone, torna il sorriso.
Diceva una vecchia canzone romana che “basta ‘a salute e un par de scarpe nove, poi girà tutto er monno “. Non importerà più la tua terra sfregiata, la tua lingua messa da parte a favore di un indigeribile grugnito anglofono, chi se ne frega se il sindaco di una città ligure difende a norma di costituzione le bestemmie pronunciate da “artisti” in uno spettacolo pagato dal municipio – il titolo è Gogol Bordello – non facciamo una piega se l’esame medico urgente è tra otto mesi, nostro figlio guadagna cinquecento euro nonostante la laurea, certi stranieri stuprano le donne ma il signor presidente si scomoda solo per raccomandare accoglienza e indignarsi contro i suoi ( suoi?) concittadini.
Ma no, meglio così, sta parlando in nostro favore, siamo stranieri, finalmente qualcosa che ci piace. Chissà, abbiamo ritrovato un’Itaca di ricambio. E’ bastato uscire da noi stessi, non sentirsi più quelli che eravamo. Facile transitur ad plures, è facile passare alla maggioranza, avvertiva Seneca nelle lettere a Lucilio. Che razzista quella signora indignata per la presenza di una folla africana, che stupidi coloro che deprecano l’indifferenza religiosa, il consumismo, la dissoluzione dei legami familiari e comunitari, l’opportunismo e il tornaconto sovrani. Siamo liberi, ci siamo liberati. Da stranieri stiamo proprio bene, adesso basta con questi termini antiquati. Non ci sono stranieri, né frontiere, né differenze. Itaca non è mai esistita e se c’è fa schifo, i diritti devono essere estesi, i doveri aboliti. Amo il paese dove posso fare ciò che mi pare, il resto sono chiacchiere da vecchi parrucconi. Incubo di una notte di mezza estate.
ROBERTO PECCHIOLI