Di Antonio De Felip.
Così narra un’antica leggenda della Val d’Ossola: “Dopo aver creato tutte le cose, il Buon Dio cominciò a dare loro dei nomi e disse loro: siete vive perché avete un nome. Il vostro nome è la vostra anima. Non fatevi togliere il nome perché sareste morte. Non fatevi cambiare il nome perché sareste schiave di chi ve lo ha cambiato”.
Un ambito in cui l’azione sovversiva della dittatura del politically correct, del progressismo liberal e anticristiano in tutte le sue forme, è stata sistematica, pervasiva, ma spesso sottile, inavvertita e di lungo periodo (prova questa di una strategia preordinata) è quello della perversione della lingua e delle parole. Le parole servono, ovviamente, per comunicare. E’ attraverso le parole che noi diamo senso e significato al mondo, ai concetti, alle idee, ai valori. Di più: noi pensiamo con le parole, con esse stabiliamo i concetti pensati.
Pervertendo il significato delle parole, introducendo nuovi termini che s’incaricano di trasmettere non solo un concetto, ma anche un giudizio di valore, impedendo l’uso di altre parole, giudicate offensive, si influenza non solo la comunicazione, ma anche il significato della stessa. Di più: si influenzano le idee, il modo di pensare, i valori stessi, le mentalità collettive. Con le parole si cambia il mondo. Negli ultimi anni, gli spin doctor della sovversione hanno lavorato intensamente per cambiare il senso delle parole, introdurre parole-concetti, parole-valori, caricando di significato positivo o negativo alcune parole chiave, obliterando altre presenti nel nostro lessico ma sgradite ai signori del caos, usando altre come clave per squalificare, minacciare, ridurre al silenzio gli avversari. Scrivono Paolo Gulisano e Gianluca Marletta nel loro libro “L’ultima religione”: “La neo-lingua non è solo l’imposizione di nuovi termini al posto di quelli vecchi ma, letteralmente, la trasformazione del pensiero: se non vi saranno più parole per esprimere un concetto, il concetto stesso sparirà.” Basti pensare a termini quali “fascista”, “razzista”, “populista”: non sono delle definizioni, sono delle minacce squalificanti, che prescindono da ogni doverosa e oggettiva analisi storica e politica. Ancora, pensiamo a parole assenti nel lessico solo qualche anno fa, ma che consentono una trasmissione inconsapevole di idee e tabù sovversivi, come “omofobia”, “femminicidio”, “xenofobia”, “sessismo”, “specismo”. Caso classico, e ormai storico, è l’imposizione, da parte delle lobby, del frivolo, “empatico” e positivo termine “gay” in luogo del più neutro e medicale “omosessuale” o del severo e biblico “sodomita” (ovviamente sono severamente banditi, e talvolta penalmente sanzionati, i vari termini derisori dialettali e semi dialettali a tutti ben noti). Così, attraverso la simpatica frivolezza del termine, viene moralmente sdoganato, se non esaltato, il comportamento.
Emblematico il citato caso del termine di “femminicidio”, obbrobrio lessicale, grammaticale e sociologico-penale, che ha lo scopo precipuo di demonizzare il grande nemico dei tempi moderni, il Grande Satana del Politicamente Corretto, l’Uomo Bianco, Europeo, Eterosessuale, Cristiano, considerato colpevole di ogni delitto: il colonialismo, le carestie nel terzo mondo, la deforestazione in Amazzonia, la distruzione della natura e alla conseguente generazione dei virus, la persecuzione di neri e omosessuali. E ovviamente, allo sterminio sistematico delle donne. Quante volte l’abbiamo sentito nei telegiornali: “ennesimo femminicidio…”. Femminicidi ovviamente dovuti all’imperante ideologia “maschilista”, orribile perversione intrinseca all’uomo bianco eterosessuale.
Poi, ci sono le parole proibite, quali “clandestino”. “zingaro” oppure “negro”. Pochi sanno che esiste una censoria “Carta di Roma”, redatta dalla Federazione Nazionale della Stampa e imposta dall’Ordine dei Giornalisti come parte integrante del “Testo Unico dei doveri del giornalista”, che vieta espressamente l’uso di questi termini. D’altronde, lo stravolgimento e il contorsionismo linguistico vengono da lontano. Anche negli USA il termine “nigger” è così stigmatizzato che alcuni editori sono arrivati a censurare i testi di Mark Twain, come Le avventure di Huckleberry Finn, dove questo termine popolare viene usato spessissimo. Pochi sanno che il titolo originale del racconto di Agatha Christie Dieci piccoli indiani era in realtà Ten little niggers, titolo riferito a una filastrocca inglese, a cui la dittatura della politically correctness, già attiva all’epoca, impose di cambiare nome.
Poi vi sono le parole-mantra, dal significato indefinito, dal senso non precisato, ma che hanno lo scopo di trasmettere, di evocare implicitamente un’ideologia, al di là della loro razionalità intrinseca: parole come “sostenibilità”, “resilienza”, “transizione ecologica”, ad esempio, sono strumenti per l’imposizione sociale del dogma della “crisi climatica di origine antropica”, mai dimostrato scientificamente, ma entrato a far parte del pantheon ideologico dell’Unione Europea.
Come siamo arrivati a tutto ciò? Questa gigantesca opera di spostamento di senso, di re-ingegnerizzazione sociale attraverso una scientifica, pianificata corruzione del linguaggio è stata resa possibile dal dominio quasi totalitario della setta liberal della stampa, delle televisioni, del mondo accademico, dell’editoria, degli opinion maker. Il tutto accompagnato all’intimidazione, alle minacce, alle sanzioni, sociali nel migliore dei casi, spesso professionali e penali. Con tale totalitaria potenza di fuoco, è stato facile per le lobby mondialiste imporre parole, significati, divieti. Privandoci del linguaggio, ci vogliono privare della comprensione del mondo. Ammoniva il filosofo cattolico Emanuele Samek Lodovici: “Chi non ha le parole, non ha le cose”.
Perché questa perversione che corrode la nostra società e la nostra comunicazione? C’è una causa prossima: imporre una globalizzazione che ci renda tutti omologati, perfetti consumatori di un mercato mondiale che necessita un mondo meticciato e privato di ogni identità, di ogni ancoraggio culturale, civile, storico, religioso. Privarci delle radici insomma. Ma c’è una causa remota, più oscura, infera: l’eterno odio gnostico per la realtà, la verità, che vanno pervertite, distorte o negate. Cos’è, se non questo, l’imposizione, ad esempio, della sostituzione di “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2”?
Come si arriva a questa perversione della realtà attraverso la perversione delle parole che lo descrivono? Simpaticamente esplicativo è questo pezzo di un articolo della giornalista Daniela Mattalia: “Funziona così: si prende una mela e la si chiama – per decreto o per decisione di qualche politico in stile Laura Boldrini – pera. Poi si redarguisce (o si querela o si esclude dal dibattito) chiunque si ostini a dire: “Ehi, guardate che quella è una mela!”. Col passare del tempo, il linguaggio si modifica: si cominciano a chiamare pere quelle che sono a tutti gli effetti mele. Modificando il linguaggio si modifica la realtà.”
A proposito di mele, di parole e di realtà: pare che San Tommaso aprisse la prima lezione di ogni anno di studi all’Università di Parigi mettendo una mela sul leggio e dicendo: “Questa è una mela. Chi non è d’accordo se ne può andare”. Aneddoto forse improbabile data la naturale mitezza del Dottore Angelico, ma coerente con la sua filosofia realista e significativo dell’importanza di difendere la realtà e la corrispondenza veritativa delle parole con le cose.
Siamo ancora in tempo per fermare questo processo di degradazione del linguaggio, di restaurare quella che Attilio Mordini definiva “Verità di linguaggio”? Sì, siamo ancora in tempo, se riusciamo a conseguire un sufficiente grado di consapevolezza e di coraggio di combattere per la verità delle parole in tutti gli ambiti, piccoli o grandi, in cui operiamo. Facciamo nostro l’aforisma di Nicolás Gómez Dávila: “Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo”
Antonio de Felip