SEGUITO
(Andrea Cavalleri)
Avendo proposto un primo commento che riguardava essenzialmente la premessa del Piano, e quindi il significato generale delle intenzioni di tale programma, nonché il substrato culturale e la visione economico-politica sottesa, mi sento in dovere di dire due parole anche sulle linee di intervento che tale Piano propone.
Il mio intento non è quello di “fare le pulci” alle proposte della commissione di esperti, criticandone i dettagli (con il classico atteggiamento tipico dei bambini litigiosi), ma più che altro illustrare verso quale tipo di scenari ci indirizzerebbero quei provvedimenti una volta messi in atto.
Le proposte contenute nel Piano sono molteplici e di valore differente: una buona maggioranza sono assolutamente condivisibili, una parte discutibili, qualcuna difficilmente motivabile e ne parlerò; tuttavia, a mio modo di vedere, sono le proposte mancanti dal Piano quelle che lo qualificano maggiormente.
Quindi cercherò di sintetizzare i punti salienti del Rapporto Finale mettendone in luce e discutendone gli aspetti più significativi.
Obiettivi del piano e assi di rafforzamento.
La relazione indica tre scopi dell’azione riformatrice, che vuole rendere l’Italia
Più resiliente a futuri shock di sistema.
Più reattiva e competitiva rispetto alle trasformazioni industriali e tecnologiche in corso.
Più sostenibile ed equa per limitare gli effetti degli shock sulle fasce più vulnerabili della popolazione.
La prima osservazione che devo fare a proposito degli obiettivi è che mi sembrano molto modesti.
Per esempio, anziché puntare a una maggior resistenza alle crisi, si sarebbe potuto aspirare a prevenire le crisi; oppure, seguendo il consiglio dichiarato in relazione di non sprecare mai uno shock, cogliere l’opportunità per riformare il sistema stesso, e anche se il sistema, per sua natura internazionale, non può essere riformato da un unico Stato, può essere profondamente influenzato da politiche di successo praticate in un singolo paese.
Altro esempio, perché l’Italia dovrebbe essere semplicemente “reattiva e competitiva” nei confronti delle trasformazioni industriali e tecnologiche e non potrebbe invece essere attiva e propositiva in materia?
Il tono di questi obiettivi è quello, subalterno, di chi sta dando per scontato che le trasformazioni in atto stiano seguendo delle realtà ineluttabili, o un’agenda già decisa altrove, e tutto ciò che debba o possa fare la nazione è adeguarvisi nel migliore dei modi.
Il terzo punto, poi, non sembra affatto un obiettivo di rilancio ma utilizza una retorica ambigua: cosa vuol dire che l’assistenza ai più deboli sia un atto “equo e sostenibile”?
Ma se sono 40 anni che in nome dell’equità e soprattutto della sostenibilità continuano a tagliare il welfare! E la riduzione deliberata e continuativa dei presidi della sanità pubblica (operata per la sostenibilità) non è stata riconosciuta unanimemente come una delle cause che ha prodotto l’emergenza covid di marzo?
E perché preoccuparsi per “gli” shock, al plurale, le molteplici crisi future, come se fossero già previste; previste tramite analisi (quindi più pessimistiche di quanto dichiarato) o previste nell’agenda
Se gli obiettivi suscitano legittimi interrogativi, molti di più ne muovono i cosiddetti tre assi di rafforzamento, che sono
Digitalizzazione e innovazione di processi, prodotti e servizi, pubblici e privati, e di
organizzazione della vita collettiva.
Rivoluzione verde, per proteggere e migliorare il capitale naturale di cui è ricco il Paese,
accrescere la qualità della vita di tutti e generare importanti ricadute economiche positive
nel rispetto dei limiti ambientali.
Parità di genere e inclusione, per consentire alle donne, ai giovani, alle persone con
disabilità, a chi appartiene a classi sociali e territori più svantaggiati e a tutte le minoranze di contribuire appieno allo sviluppo della vita economica e sociale…
Per prima cosa bisogna dire che questi non sono affatto assi di rafforzamento, ma precise scelte di intervento.
Per fare un paragone con la medicina, è come se il dottore, visti gli esami e visitato il paziente, dopo aver evidenziato i punti di forza e di debolezza del soggetto, decidesse di operare sugli “assi di rafforzamento” degli antibiotici, delle statine e del raschiamento di una calcificazione.
Si salta a più pari dalla diagnosi generica all’applicazione di una terapia, evitando la diagnosi specifica, la discussione sui possibili metodi di risoluzione dei problemi e (soprattutto!) il consenso informato.
Il primo punto ad ogni modo sembra assolutamente neutro.
La digitalizzazione dei dati può essere perfettamente utile o perfettamente dannosa a seconda dei contesti.
Se un’azione informatica praticabile da casa mia mi evita una coda in un ufficio pubblico sarà utile; se un’altra comunicazione digitale mi impone la scelta di una procedura entro una griglia limitata, in cui non compaiono il quesito o l’operazione che voglio intraprendere, (il tipico caso degli odiosi risponditori automatici, tramite cui le aziende scaricano sull’utente finale il disservizio prodotto dalle loro riduzioni di organico), allora in quel caso la digitalizzazione è una sciagura.
Quindi non si capisce perché la digitalizzazione debba essere considerata aprioristicamente un intervento positivo, a meno di non essere un adoratore feticista delle utopie transumane alla Casaleggio, o non vagheggiare direttamente un mondo copiato dal film Matrix.
Peggiora il quadro col secondo punto, quello della “rivoluzione verde”, basata sulle narrative scarsamente scientifiche del riscaldamento globale e della necessità di utilizzare “energie rinnovabili”, narrativa che ancor più è basata sull’ignoranza riguardo all’efficacia, all’affidabilità e alla “pulizia” di tali fonti che, a parità di watt prodotti, non sono affatto prive di impatto ambientale.
Qui la moda e la retorica la fanno da padrone, ma con un’implicazione preoccupante: infatti il testo sottolinea che Sostenibilità ambientale e benessere economico non sono in contrapposizione, particolarmente per un territorio e per imprese come le nostre, anche nell’ottica dell’attrazione di lavoratori di alta professionalità e alla ricerca di un’elevata qualità della vita, nonché di flussi turistici ad alto valore aggiunto.
Questa frase esprime il chiaro progetto di una deindustrializzazione quasi totale del paese, trasformato in residenza di lusso per dirigenti e parco giochi per turisti preferibilmente ricchi, in cui gli autoctoni avranno il compito di concorrere fra loro per assurgere all’onore di essere servi delle classi superiori.
Il terzo punto esordisce con la “parità di genere” che è una pura e semplice stupidaggine.
La relazione più oltre si profonde in reiterati appelli al riconoscimento del merito. Ora qualunque individuo in possesso della logica elementare è costretto ad ammettere che le “quote rosa” e ogni corsia preferenziale per specifiche classi di persone, per definizione, prescinde dal merito.
Che attinenza abbia dunque la parità di genere con un programma per la ripresa è mistero totale.
Può sicuramente essere giudicata moralmente buona cosa preoccuparsi dell’inclusione dei disabili, ma sorprende che in un piano di rilancio economico sociale ci si occupi del topolino dei disabili e si scriva una volta sola in tutte le 53 pagine del documento il nome dell’elefante, che è “disoccupati”.
Le sei aree di azione
Le Imprese e il Lavoro, riconosciuti come motore della ripresa, da sostenere e facilitare per generare profonde innovazioni dei sistemi produttivi
Le Infrastrutture e l’Ambiente, che devono diventare il volano del rilancio, grazie alla rapida attivazione di investimenti rilevanti per accelerare la velocità e la qualità della ripresa economica
Il Turismo, l’Arte e la Cultura, che devono essere elevati a brand iconico dell’Italia, attraverso cui rafforzare sistematicamente l’immagine del Paese sia verso chi risiede in Italia, sia verso i cittadini di altri paesi
La Pubblica Amministrazione, che deve trasformarsi in alleata di cittadini e imprese, per facilitare la creazione di lavoro e l’innovazione e migliorare la qualità di vita di tutte le persone
L’Istruzione, la Ricerca e le Competenze, fattori chiave per lo sviluppo
Gli Individui e le Famiglie, da porre al centro di una società equa e inclusiva, perché siano attori del cambiamento e partecipi dei processi di innovazione sociale.
Dato che non intendo scrivere un commento illeggibile più lungo della relazione, farò solo delle segnalazioni sulle proposte più dettagliate che vengono avanzate oltre.
È giusto però sottolineare come l’esposizione delle sei aree sia apprezzabile per intenti, e richiami a ragione alcune annose questioni, come quelle della ricerca, o della Pubblica Amministrazione che deve diventare alleata dei cittadini e facilitare imprese e lavoro anziché ostacolarli, come troppo spesso ha fatto.
Assolutamente corretto anche l’accenno alla cultura e al turismo come potenziale sottosfruttato del paese e, connessa ad esso, l’indicazione delle infrastrutture e dell’ambiente come oggetti meritevoli di investimento.
Per quanto riguarda le imprese il documento esprime la necessità di garantirne la sopravvivenza, attraverso facilitazioni fiscali, ricapitalizzazione, proponendo anche di convogliare il risparmio dei cittadini verso quelle aziende che normalmente non accedevano a quel genere di credito, misure che incentivino i pagamenti rapidi; raccomanda lo sviluppo di competenze e d’innovazione, si preoccupa della piccola e media industria, asse portante del paese; queste le cose buone e giuste.
Meno bene laddove si ricade nella retorica del sommerso e della lotta all’evasione tramite l’abolizione del contante, nonché quando si prostra dinnanzi al feticcio dell’incremento della produttività.
Sul contrasto al lavoro nero, si fanno moltissimi calcoli ipotetici riguardo alle cifre che sfuggono all’erario; vorrei però che per una volta qualcuno calcolasse altre due cose: nell’ipotesi di eliminare totalmente questo malcostume 1) quanto si abbatterebbe la domanda aggregata a danno anche delle aziende sane e 2) quanto costerebbe allo Stato l’assistenza a tutta la nuova categoria di disoccupati?
Ovviamente non lo dico per difendere l’evasione fiscale, ma per criticare la visione miracolistica di chi si illude di risolvere realmente dei gravi problemi economici attraverso questa via.
Per quanto riguarda la produttività, e la proprietà intellettuale ho già scritto nel primo articolo e non ripeto.
Per quanto riguarda la formazione e la riqualificazione dei lavoratori il documento suggerisce iniziative di buon senso, in cui il pubblico e il privato, il sapere teorico e quello pratico concorrono al risultato di competenze spendibili nel mondo del lavoro.
Interessante la proposta di incentivo al lavoro tramite abolizione divieto di cumulo additivo tra retribuzione e trattamento di cassa integrazione
In merito alle infrastrutture devo scetticamente registrare che al primo posto stanno quelle per le telecomunicazioni e al secondo quelle per la green economy, finalmente al terzo posto arrivano la logistica e i trasporti, per cui si auspica una conversione del movimento merci su rotaia (ad alta velocità).
Tutto ciò che riguarda i trasporti di persone, pubblici e privati è orientato a una conversione dei mezzi di propulsione che elimini o riduca l’uso di combustibili fossili; l’edilizia deve essere “ecosostenibile”; la gestione dei rifiuti un ambito industriale di investimento.
Al di là dei dettagli tecnici, che dovrebbero essere discussi dagli specialisti e non da manger anfibi abituati a mantenere le cariche indipendentemente dai settori in cui operano le loro aziende, questi sono programmi accettabili, magari con un ordine di priorità diverso da quello della relazione.
Per il turismo il piano propone un ente di coordinamento nazionale per il turismo che possa promuoverne tutte le componenti.
Viene sottolineata l’importanza dei trasporti turistici, delle strutture di ricezione, della gestione e valorizzazione delle opere d’arte, della formazione degli operatori turistici, della promozione all’estero delle nostre attrattive, si suggerisce la crescita del turismo settoriale per temi (sci, nautica enogastronomia etc).
Riguardo alla Pubblica Amministrazione il primo intento è quello di semplificare e velocizzare i rapporti fra cittadino e Stato.
La digitalizzazione anche qui è parola d’ordine, seguita dalla progressiva qualificazione del capitale umano.
Tra i pregi del documento noto la menzione dell’interconnessione degli archivi tra i vari rami delle PA (la possibilità per il catasto o per il sistema elettorale di attingere direttamente i dati dall’anagrafe, senza costringere il cittadino a presentare una massa di inutili certificati), lo sviluppo dell’autocertificazione e del silenzio-assenso, la riforma delle responsabilità del dipendente pubblico (un conto è il dolo un conto l’errore, che può essere coperto da assicurazione) per superare l’atteggiamento della cosiddetta “burocrazia difensiva”.
Si prevede una formazione di qualità per dirigenti pubblici di medio-alto livello, la razionalizzazione delle prove concorsuali per renderle più significative nella selezione delle competenze che dovranno essere effettivamente esercitate.
Tra le concessioni alla retorica imperante il richiamo alla iper-digitalizzazione di tutto, la previsione di assunzioni per dipendenti pubblici specialisti di “green” (economia a basso impatto ambientale, o, peggio, a basso “impatto climatico”) e la “digitalizzazione della sanità pubblica.
In quest’ultimo settore si registra la trascrizione pedissequa dei più radiosi sogni di Bill Gates, con registro personale digitale, a controllo totale e centralizzato di tutti i dati sulla salute dei cittadini, aprendo le porte alle coercizioni ai trattamenti (vaccini, ca va sans dire).
Riguardo a istruzione ricerca e competenze, il piano promuove una maggiore integrazione tra il settore privato e quello pubblico, tra le carriere accademiche e quelle professionali.
Raccomanda di incentivare maggiormente le competenze scientifiche tecniche economiche e matematiche, a scapito di quelle giuridiche che in Italia sono troppo numerose.
Riguardo alle Università si raccomanda la creazione di poli d’eccellenza, raggruppando elementi di alta qualità già presenti ma sparpagliati sul territorio.
Infine, le proposte per l’area individui e famiglie, in vista di maggiore equità e inclusività affermano in linea teorica la necessità di un incremento del welfare, anche se all’atto pratico tali proposte si riducono a poca cosa.
Si parla di centri territoriali di assistenza e indirizzo alle risorse di assistenza, nominati “presidi multiservizi” e descritti come centri Caritas dello Stato, si prevedono sostegni alla genitorialità in forma di sgravi fiscali e assegni.
Come anticipavo in questa sezione non manca la demagogia riguardo la parità di genere, che arriva a prospettare interventi specifici per “le donne vittime di violenza”.
Abbastanza contraddittoria è la pressante sollecitazione a coinvolgere maggiormente le donne nel mondo del lavoro, per poi dover prevedere strumenti che facilitino la coesistenza del lavoro e dei figli, come un potenziamento degli asili nido: sarebbe molto più semplice prevedere uno stipendio integrativo per quelle donne che scelgono di svolgere il lavoro di madri, o pagare di più il marito…
Cosa manca al programma.
Se dovessi sintetizzare l’elemento più carente, che condiziona nel significato la gran parte dei provvedimenti proposti, direi che il Piano manchi di una visione nazionale.
Mi spiego con qualche esempio.
La Corea del Sud è uno Stato che ha conseguito grandi successi economici investendo moltissimo sull’istruzione e la ricerca.
Ma le competenze, provenienti dall’istruzione e le innovazioni, prodotte dalla ricerca, sono state messe a frutto nelle aziende coreane, generando così una ricchezza di cui ha beneficiato il territorio.
Invece in Italia competenza e innovazioni vanno ad arricchire più aziende straniere e multinazionali che aziende autoctone, fatto di cui ovviamente risente anche l’erario.
Ora il piano si occupa delle imprese secondo un principio molto sensato secondo cui è più facile e conveniente salvare un’azienda esistente piuttosto che crearne una ex novo, e quindi parla principalmente dei salvataggi di urgenza, ma gli unici criteri con cui le aziende vengono classificate sono quelli della dimensione/redditività.
Non si studia minimamente quali siano le aziende strategicamente utili al sistema-Italia che mancano e dovrebbero perciò essere aperte.
Non si ipotizza minimamente chi poi dovrebbe correre il rischio di impresa debuttando in un periodo di crisi sovrapposte (sistemica e contingente) e se possa esistere una simile figura.
Quando si parla di economia e si tacciono queste risposte è perché esiste il sottinteso “ci penserà il mercato”.
Ma il mercato, durante una crisi in cui necessariamente le imprese perdono redditività, spinge a chiudere le aziende, non ad aprirle.
Allora si ricorre allo schema “lo-Stato-paga-e-il privato-può guadagnare-e-quindi-fare-impresa”.
A questo punto ci si deve chiedere, perché lo Stato deve sovvenzionare delle imprese private affinché facciano utili e non può aprire direttamente delle aziende sue che, svolgendo un ruolo sistemico, non hanno necessità di generare utili e quindi gli costano meno?
Tanto più che non è detto che le imprese private colgano le occasioni, la convenienza dell’investimento non compensa il clima di sfiducia, “il cavallo non beve”.
Infine, peccato originale di tutti i modelli export-oriented, il Piano disegna il progetto di un complesso di attività con addetti ad alta produttività (quindi pochi) ad alto livello di formazione (quindi pochi) che generino un reddito ad alto valore aggiunto (quindi per pochi clienti).
E questi dovrebbero mantenere tutto il paese?
Perché la relazione insiste sulle eccellenze e poi salta all’inclusione e all’assistenza per i più sfortunati.
Una classe media? di media istruzione? l’autoproduzione per il soddisfacimento della domanda interna?
Non pervenuti.
Non vorrei che la descrizione limitata a queste due tipologie umane (l’eccelso e il reietto) fosse un lapsus freudiano che rivela il tipo di società che gli esperti hanno in mente, quella dei grattacieli e delle favelas, dei palazzi lussuosi e delle bidonville, della NASA e delle tendopoli urbane.
La tipica società del libero mercato, che ha prodotto questo stesso fenomeno praticamente in ogni tempo e in ogni luogo.
Santo cielo, è un modello che potrei anche prendere in considerazione, ma per convincermi gli esperti dovrebbero andare ad abitare in una favelas per un annetto.
Allora sarei disposto a seguire il loro esempio.