di Roberto PECCHIOLI
Questo pezzo apparirà noioso, un concentrato di amarezze senili di uno sconfitto, estraneo ed ostile ai tempi che gli sono toccati in sorte. Chi non ha sensibilità religiosa- o afflato spirituale- riderà di gusto di fronte allo sgomento e alla tristezza di chi scrive. Basterà interrompere la lettura: è così facile, online.
Le dichiarazioni di monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, hanno aperto una nuova breccia nel cuore ferito di molti credenti. Il prelato ha rilasciato un’intervista sulla legge 194/78 che ha legalizzato l’aborto in Italia. Anzi, per essere politicamente corretti, l’” interruzione volontaria di gravidanza”, giacché la delicata contemporaneità aborre chiamare le cose con il loro nome. Secondo l’eminente uomo di chiesa, quella legge è “un pilastro” e nessun tentativo o volontà di modificarla sarebbe legittimo e sostenuto da (quel che resta del) cattolicesimo italiano.
Contrordine, confratelli! Tutto quello che abbiamo creduto, propagandato, diffuso e fatto credere ai popoli era falso. Un equivoco, abbiamo sbagliato per secoli e millenni, adesso la verità è venuta chiara e nuda anche a noi! Nuda come nudo appare Paglia, a lungo arcivescovo di Terni, negli affreschi della cattedrale di quella città, dal pesante contenuto omoerotico, commissionati a Ricardo Cinalli, artista argentino gay.
La legge sull’aborto, ovvero la sua legalizzazione e gratuità da parte del servizio sanitario, è un “pilastro” delle legislazione e della società italiana, tanto che “assolutamente” non deve essere toccata. Parola di Paglia. Perdonerà il lettore la facile battuta, il ricordo del motto latino nomen omen (il nome è un presagio) e la citazione della poesia di Thomas S. Eliot (cattolico!) sugli uomini di paglia. “Siamo gli uomini vuoti/Siamo gli uomini impagliati/ che appoggiano l’un l’altro/la testa piena di paglia. Ahimè! Le nostre voci secche, quando noi/insieme mormoriamo/sono quiete e senza senso/come vento nell’erba rinsecchita/o come zampe di topo sopra vetri infranti/nella nostra arida cantina.”
Arida cantina è diventata la chiesa una volta madre e maestra. I suoi garruli prelati fanno a gara per apparire moderni, alla moda, lontani dalla tradizione di cui sarebbero i custodi. Lo stesso Paglia si definiva amico e ammiratore di Marco Pannella, mentre il suo capo visibile, l’argentino di bianco vestito, esalta Emma Bonino come grande italiana. Abbiamo smesso da tempo di indignarci, ma certi colpi bassi fanno male. L’aborto- in procinto di diventare un diritto universale nell’Occidente in agonia, è un simbolo, una metafora precisa dei principi di una società. Al di là di alcuni casi e situazioni in cui anche a noi appare il male minore, infatti, l’atteggiamento verso tale pratica esprime il senso profondo dell’etica civile.
Se il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, la massima istituzione in materia dei temi fondanti delle comunità umane di una religione bimillenaria, afferma che la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (abbiamo imparato la giusta locuzione) è “un pilastro” significa che le battaglie condotte nel passato dalla chiesa, dai suoi fedeli, da laici e non credenti convinti- come Pier Paolo Pasolini- che l’aborto sia una forma di omicidio, erano e sono sbagliate.
Contrordine, confratelli! I cosiddetti principi non negoziabili (intangibilità e indisponibilità della vita dal concepimento alla fine naturale, centralità della famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna aperta alla nascita di figli, libertà educativa e spirituale) non solo sono negoziabili, ma possono essere derogati senza battere ciglio. In questo senso Paglia rappresenta una chiesa “marxista” nel senso grottesco di Groucho Marx, l’attore. “Questi sono i miei principi: se non vi piacciono, ne ho altri”.
La Chiesa si è iscritta all’affollato partito di chi ritiene la vita manipolabile, ossia non più un valore assoluto. Nulla di strano se nel tempo si ammorbidirà la posizione sull’eutanasia, l’uccisione “pietosa” di esseri umani vecchi, malati, depressi, o semplicemente persone inservibili per la produzione, insostenibili costi sociali al tempo del denaro misura di tutte le cose.
Da tempo la famiglia “naturale” non è più neppure per i preti l’unione di un uomo e una donna e la Bibbia è superata (un racconto antiquato e senza prove…) quando afferma che “maschio e femmina li creò”. E’ l’abbandono finale della legge naturale – l’esistenza di principi iscritti nel cuore dell’uomo al di là delle norme scritte- a favore di un approccio “liquido”, interno al cosiddetto “spirito dei tempi”. Società liquida, chiesa liquida. Peccato che Zygmunt Bauman non sia più in vita: avrebbe scritto pagine importanti sulla nuova chiesa e forse sarebbe membro di influenti commissioni pontificie.
D’altronde, se Paglia è presidente dell’Accademia per la Vita, significa che la volpe è a guardia del pollaio. Bibbia e Vangelo, lo sappiamo, sono narrazioni alle quali manca il sigillo dell’autorità scientifica e dei mezzi di comunicazione moderni. Un altro gerarca cattolico, Arturo Sosa Abascal S.J. (servus Jesus, il predicato dei gesuiti, di cui è preposito generale) non è arrossito affermando che non c’erano registratori e telecamere al tempo di Gesù. Infatti l’adesione al Vangelo si basa sulla fede, non sul report o sul tabulato di un’istituzione scientifica. La fede che dovrebbe aver portato il “Papa Nero” (così è detto il capo dei gesuiti) prima in seminario e poi all’ordinazione sacerdotale.
Qualche anno fa un intellettuale francese ateo e razionalista, Marc Augé, teorizzatore dei “nonluoghi” – gli ambienti come autostrade, raccordi e aeroporti inadatti alla vita e alle relazioni umane, punti di semplice transito in un tempo che ha fatto del moto perpetuo un credo- scrisse un pamphlet dal titolo Le tre parole che sconvolsero il mondo. Quelle parole erano “Dio non esiste”, che Augé immaginava pronunciate dal papa nella Pasqua del 2018, che, guarda caso, cadeva il primo aprile. Per Augé il giorno della liberazione dell’umanità, ma il timore è che la realtà superi la fantasia letteraria.
Se l’aborto è un pilastro e il racconto biblico ed evangelico non è che un’allegoria, una metafora, una narrazione in cui realtà e fantasia si mescolano senza che, in assenza di telecamere, si possano individuare i confini dell’una e dell’altra, anche l’ossimoro di una chiesa atea diventa ipotizzabile. Quanto ai “pilastri della società”, gli artisti hanno dimostrato quanto fossero falsi, come narrano il dramma di Ibsen e il celebre quadro espressionista di George Grosz.
Nella chiesa, poi, il pilastro, la pietra angolare è, per volontà del fondatore- l’uomo di Nazareth- il papa custode di verità perenni, non interprete, ermeneuta del pensiero dominante in una determinata epoca in una certa civilizzazione. Nessun riferimento all’interruzione volontaria di gravidanza come pilastro, ma l’affermazione che non lascia dubbi al credente: “io sono, via, verità e vita”. Quella vita che monsignor Paglia nega esaltando la legge umana che ne autorizza la soppressione legale nel ventre materno per mezzo dei medici dell’azienda sanitaria competente.
Che cosa resta, allora, della fede dei padri e dei padri dei padri, se tutto è revocato in dubbio, se di tutto la neo chiesa si scusa e si vergogna? Hanno sbagliato- o mentito- per secoli o sbagliano oggi? E Gesù che ancora celebrano, è la seconda persona della divina trinità o è soltanto un grand’uomo, un profeta, un agitatore politico? E, come si chiedeva Eliot nei Cori della Rocca, sono gli uomini ad avere abbandonato la Chiesa, o è lei ad avere abbandonato gli uomini, privandoli di certezze, di un sistema dottrinario, dei principi e dei modi di vita che portano alla vita eterna promessa da Gesù?
Fuori da questo, tutto diventa semplice credenza, un termine assai meno impegnativo di fede. Ne era consapevole San Paolo nella lettera ai Corinzi, allorché definisce i cristiani i più disgraziati tra gli uomini se Cristo non è davvero risorto. Il dubbio- terribile, abissale, che getta nell’orrore- è che la chiesa non creda più nel cuore del suo stesso insegnamento, ovvero abbia perduto la fede.
Tempo fa ci capitò di ascoltare in televisione le parole infiammate di un tizio malvestito e scarmigliato che risultò essere un sacerdote. Non ne portava alcun segno visibile, ed il succo dell’intemerata era che la dottrina conta poco o nulla dinanzi alla “profezia”. Privi come siamo di nozioni teologiche, non possiamo controbattere, ma sappiamo che i profeti sono sempre autonominati e spesso enunciano sciocchezze, per quanto appassionate e in buona fede. La dottrina, per il cattolico, è il depositum fidei, ossia ciò che dobbiamo credere.
Per un tempo immemorabile ci è stato detto che la vita è intoccabile perché non è nostra, ma un dono di Dio. Dunque, per noi che ignoriamo l’alta teologia, l’aborto- che la nega nella fase del suo sviluppo iniziale, non può essere un “pilastro”. Talvolta è una triste necessità, ma non un diritto universale e men che meno un architrave della società, il cui ovvio e laicissimo interesse è perpetuare se stessa.
Se la vita è disponibile a piacere o capriccio, al di là del tema specifico, perché Dio ci avrebbe creati? Se la chiesa di Roma ha un’Accademia per la Vita, significa che le attribuisce un valore inestimabile, addirittura divino. E’ follia pensare che sia diventata preda del relativismo che imputa alle altre culture? Esiste ancora la Verità, con la maiuscola, o è vero quel verso dello spagnolo Ramòn de Campoamor: no hay verdad, non hay mentira: todo es según el color del cristal con que se mira”. Non c’è verità, non c’è menzogna: tutto dipende dal colore della lente con cui si guarda.
Il colore della lente con cui guarda Vincenzo Paglia è diventato opaco e la lente è capovolta. Mostra le cose come vuole il mondo, qui e adesso. Ma la religione parla del perenne, dell’eterno. Le sue verità non possono cambiare colore o essere rovesciate come facevano le nostre mamme con i cappotti vecchi. Vale la pena rinunciare ai principi (pardon, alle credenze) per mantenere un posticino da attori non protagonisti, figuranti, interpreti del ruolo dei religiosi e recitare a soggetto nel gran teatro della modernità, una civiltà che tutto mostra in decadenza? La chiesa, che ragiona(va) sui secoli, dovrebbe saperlo meglio di chiunque.
Sembra davvero che alla crisi di fede si aggiunga una terribile crisi di volontà: quella di affrontare il mondo ribadendo i principi di sempre, adattati nel linguaggio, espressi rispettando la sensibilità attuale, ma non svenduti sull’altare della benevolenza inesistente dei nemici. Ai sacerdoti piace chiamarsi pastori, un termine che non amiamo poiché non ci sentiamo gregge. Ma chi si fa pecora il lupo se la mangia. Che cosa resta della fede, senza più mistero, con liturgie sciatte e desacralizzate, con preti che si nascondono sin dall’abbigliamento, senza principi non negoziabili, senza dottrina ma con eccesso di facile profezia?
La chiesa ha avuto sempre nemici. Li ha combattuti a viso aperto e quando non ha potuto, ha cercato di avvolgerli nelle sue spire per neutralizzarli. Ora è il contrario: è lei ad essere stata avvolta – e travolta – dalle idee dei nemici. Stavolta, nell’Occidente sazio, gaio e disperato, la posta in palio è la sopravvivenza. Cultura, civiltà di vita contro civilizzazione di morte. Il cristallo opaco con cui guarda la neochiesa sembra propendere per la seconda: una novità che lascia senza fiato. Da un punto di vista umano la religione cristiana pare una candela che si spegne lentamente, un cero consumato nella penombra di una chiesa deserta in cui resta l’incenso – l’odore di Dio- e nulla più.
La drammatica profezia di Nietzsche giunge a compimento nella terra del tramonto. Chesterton osservava che l’uomo che smette di credere in Dio è disposto a credere in qualunque cosa. Anche a confondere l’aborto con un pilastro.