di
Matteo D’Amico
Come noto 40 studiosi (sacerdoti, religiosi, laici) hanno inviato a papa Francesco a inizio agosto una Correctio Filialis nella quale si segnalavano al papa sette eresie che apparivano contenute in modo particolare, nella esortazione post-sinodale Amoris Laetitia. Successivamente, dopo più di un mese dalla consegna al papa della Correctio, non ricevendo alcuna risposta i firmatari hanno reso pubblico il testo, presumendo che il silenzio assoluto della Curia romana potesse e dovesse essere inteso come un silenzio-assenso, almeno alla sostanza delle osservazioni fatte. Nel frattempo le firme unite al documento erano salite a 62, e fra queste si contavano le firme pesanti in particolare di mons. Fellay, superiore della Fraternità san Pio X, e di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello I.O.R..
Il documento ha avuto una certa, inaspettata eco sulla stampa italiana e straniera e vi sono state diverse reazioni decisamente scomposte da parte del fronte cattolico più progressista, supportato in questo dalle forze anticristiane. Ad esempio Radio Radicale si è subito premurata di attaccare la Correctio Filialis intervistando all’uopo la numeraria dell’Opus Dei, nonché parlamentare del PD, Paola Binetti, portatrice di visioni in campo morale e bioetico del tutto affini a quelle di papa Francesco. Successivamente è stato intervistato anche Rocco Buttiglione. E’ interessante osservare come i radicali, vero lievito fermentatore di ogni dissoluzione morale italiana negli ultimi quarant’anni, nonché leva dei poteri forti finanziari in Italia, si preoccupino che Bergoglio non trovi opposizione nella sua opera di demolizione della Chiesa cattolica e si premurino di difenderlo da ogni attacco o critica che possa intralciarne i progetti.
Ma la critica alla Correctio più significativa è quella uscita su Avvenire il giorno 26 settembre, dove si trova un’intervista a mons. Giuseppe Lorizio, docente di teologia fondamentale all’Università Lateranense e membro del Comitato nazionale per gli Studi Superiori di teologia e di Scienze Religiose della Cei.
Il cuore della sua critica consiste nel pretendere che Amoris Laetitia sia perfettamente in linea niente meno che con il Concilio di Trento, vedremo in che modo si argomenta la tesi. Ma prima Lorizio afferma, non si sa su che basi e senza addurre prove, che “l’operazione per screditare Francesco è evidentemente orchestrata da qualcuno che sta alle spalle dei firmatari”: quando è utile per difendere il papa il complottismo diventa legittimo, evidentemente. Chi scrive può però garantire nel modo più assoluto che dietro i firmatari invece, non c’è proprio nessuno.
Per Lorizio il nesso di continuità fra Amoris Laetitia e il Concilio di Trento è il seguente: “In un punto significato dal capitolo 12 del Decreto sulla riconciliazione del Concilio di Trento -e quindi siamo in piena tradizione- si dice che nessuno può avere la certezza assoluta di essere graziato o predestinato, il che significa che nessuno può ritenersi in una situazione di “certezza” per quanto riguarda la grazia. Il Papa, con Amoris Laetitia, si innesta in questa tradizione. Chi dice il contrario, come traspare dal documento, evidenzia un problema di imperizia teologica”.
Facciamo una premessa che chiarisca il pensiero oggettivamente un po’ confuso di Lorizio e poi vediamo se il suo riferimento al testo del Concilio di Trento è corretto. Lorizio intende dire che la liceità di un eventuale accesso al sacramento dell’eucarestia per un divorziato risposato, che convive more uxorio con una persona e ha (e, soprattutto, intende continuare ad avere) relazioni sessuali con essa trova il suo fondamento nel fatto che il Concilio di Trento affermerebbe, a suo dire, che nessun fedele (ad esempio una persona regolarmente coniugata e fedele agli impegni del suo matrimonio) può avere la certezza assoluta di essere graziato e predestinato. E quindi -questa la parte implicita, sottintesa, del ragionamento del monsignore- come ogni fedele pur senza certezza assoluta di essere in stato di grazia accede al sacramento dell’eucarestia, allo stesso modo chi convive more uxorio, pur non avendo alcuna certezza circa il suo stato interiore (ignorando di essere in stato di peccato o di grazia) deve poter accedere al sacramento.
Ora è evidente anche a un primo sguardo che qui siamo di fronte a un rovesciamento completo sia del senso del capitolo 12 del Decreto sulla giustificazione del Concilio di Trento, sia della più elementare logica. Vediamo il primo punto citando per esteso il cap. 12 appena nominato:
“Nessuno inoltre, fino a che viva in questa condizione mortale, deve presumere dell’arcano mistero della divina predestinazione fino al punto da ritenersi sicuramente nel numero dei predestinati, quasi fosse vero che chi è stato giustificato non può più peccare, e se anche pecca deve essere certo di un sicuro ravvedimento. Infatti non si possono conoscere quelli che Dio si è scelti se non per una speciale rivelazione” (Denzinger, Documenti del Concilio di Trento, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2001, p. 659).
Il passo appena citato non dice, come afferma Lorizio, che nessuno “può avere la certezza di essere graziato”, ma che nessuno deve presumere di “ritenersi sicuramente nel numero dei predestinati, quasi fosse vero che chi è stato giustificato non può più peccare, e se anche pecca deve essere certo di un sicuro ravvedimento”; si tratta cioè di una critica radicale alla dottrina eretica dei protestanti, in modo particolare dei calvinisti, della “doppia predestinazione”, in virtù della quale i puritani, che si autodefinivano “i santi”, dovevano avere la certezza più ferma di essere già salvati, qualunque cosa facessero e in qualunque peccato cadessero. Il cap. 12 sopra citato esprime in modo chiarissimo questa condanna e si può dire che semplicemente invita i fedeli a non presumere di salvarsi senza meriti e senza una continua vigilanza su di sé, senza uno sforzo continuo di meritare con le proprie buone opere quella salvezza che Dio generosamente ci dona con la sua grazia. Il passo citato non vuol dire assolutamente, come crede mons. Lorizio, che tutti debbono mantenersi in uno stato di continuo e angoscioso dubbio circa il proprio stato di grazia, anche, ad esempio, dopo una buona confessione, se si è sinceramente ferventi e assetati di santità, se si prega e se si cerca con tutte le proprie forze di rispettare la legge di Dio (ecco la frase di Lorizio che mostra il cuore della sua erronea interpretazione: “il che significa che nessuno può ritenersi in una situazione di “certezza” per quanto riguarda la grazia”).
Semmai la Chiesa insegna il contrario, invitando tutti gli uomini di buona volontà a coltivare la virtù teologale della speranza e, evitando ogni scrupolosità o disperazione, a fidare nell’aiuto e nel soccorso di Dio e nella materna assistenza di Maria santissima.
I testi del Concilio di Trento sono tutti di condanna severa degli errori e delle eresie protestanti e anche quello appena commentato va letto in questo senso, ovvero come condanna del più tipico fra gli errori delle sette nate dalla rivolta luterana.
A conferma della bontà della nostra interpretazione sarebbe bastato a mons. Lorizio leggere anche il cap. 13 del Decreto sulla giustificazione, che è di una chiarezza esemplare nel rivolgersi a chi è stato rigenerato alla grazia:
“Proprio perchè sanno di essere stati rigenerati alla speranza della gloria, e non ancora alla gloria, devono temere per la battaglia che ancora rimane contro la carne, contro il mondo, contro il diavolo, nella quale non possono riuscire vincitori , se non obbediranno con la grazia di Dio alle parole dell’apostolo: “Noi siamo debitori, ma non verso la carne, per vivere secondo la carne; perchè se vivete secondo la carne , voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete””.
Dunque chi si trova, o è tornato, in stato di grazia deve vigilare e continuare la buona battaglia, astenendosi da ogni male e da ogni vizio o passione, attendendo con timore e tremore, con l’aiuto di Dio, all’opera della propria salvezza.
Abbiamo quindi mostrato che la parificazione che tenta Lorizio fra chi è in stato di grazia e il divorziato risposato, che sarebbero accomunati dal comune non potersi sentire con certezza assoluta graziati, è falsa. Mostra la falsità di questo uguagliare cose dissimili anche il più elementare senso logico. Infatti, se è vero che nemmeno il cristiano più fervente e sincero, può pretendere di avere una certezza assoluta di salvarsi (se non altro perchè ignora il momento della sua morte e non può sapere in che stato si troverà la sua anima in quel momento) è vero però che può e deve sperare di salvarsi nella misura in cui a un esame di coscienza attento e sincero non rileva nessun disordine grave che lo ponga in urto con la legge di Dio.
Diverso è il caso del divorziato risposato civilmente che convive more uxorio con una persona che non può essere il suo legittimo coniuge e ha con essa rapporti sessuali. In questo caso la persona, se appartiene alla Chiesa cattolica, non può non sapere di trovarsi in uno stato di oggettivo disordine, in uno stato di violazione formale del VI e IX comandamento. Al di là dello stato della coscienza, e anche immaginando, per assurdo, che si trovi in uno stato di ignoranza invincibile, questa persona vive, di fatto, come un pubblico peccatore e dà scandalo con il suo comportamento. E’ un caso cioè dove si sommano due peccati: all’offesa contro Dio data dal rapporto di fornicazione, si accompagna il peccato di scandalo. Ricordiamo qui, di sfuggita, che in uno stato veramente cattolico, fondato sulla vera regalità sociale di Cristo, queste relazioni scandalose dove uomini e donne non legittimamente sposati convivono more uxorio, andrebbero perseguite per legge e represse penalmente: lo stato retto deve difendersi da simili condotte viziose o il contagio e la diffusione di esse diviene inarrestabile in virtù del cattivo esempio.
Secondo Lorizio chi difende la dottrina costante della Chiesa su questo punto mostra “una visione statica e automatica della Grazia, che invece è un fatto dinamico, che dobbiamo sempre invocare e che comunque non proviene dal nostro merito ma dal dono di Dio. In questo senso questa dinamica della grazia comporta che anche la persona che si è confessata, riceve il perdono e quindi è in stato di grazia, non è perfetta. E se non è perfetta, ha bisogno di conversione. Questo è il percorso in cui i sacramenti ci aiutano e ci sostengono”.
Evidente il sofisma di Lorizio: egli cerca di giustificare l’apertura dell’accesso all’eucarestia da parte dei divorziati risposati argomentando che anche ogni altro cattolico, al pari del divorziato che convive, vive la “dinamica della grazia” o, se si preferisce, una grazia dinamica, che fa sì che anche chi è in stato di grazia non può mai dirsi o considerarsi perfetto.
Ora qui si fa della confusione a piene mani e senza davvero nessun pudore; un conto infatti è riconoscere che il faticoso cammino verso la santità implica che non basti una semplice buona confessione per essere perfetti: questa è un’ovvietà, come è ovvio che vi sia un dinamismo, ossia un divenire, un processo di cambiamento e di miglioramento lento e graduale che fa sì che si migliori e si cresca , a volte, solo molto lentamente. Un altro conto è da qui passare a equiparare totalmente lo stato di imperfezione relativa di chi si sta lentamente santificando, con lo stato di chi vive, e vuole continuare a vivere, in uno stato oggettivo di peccato e di scandalo pubblico, come il divorziato risposato. E’ ridicolo concludere che le due persone hanno lo stesso diritto di accedere alla santa Eucarestia perchè li accomuna la loro imperfezione, in quanto questa tesi inedita postula il venir meno della differenza fra peccato veniale e peccato mortale, il venir meno della distinzione fra essere in stato di grazia o essere in stato di peccato mortale.
E’ infatti vero che le due persone del nostro caso sono entrambe imperfette, ma questo non significa che sono nello stesso stato: il divorziato risposato che vuole continuare a rimanere nella sua condizione può e deve presumere di essere in stato di peccato mortale (se ha la fede e si considera sinceramente cattolico) e sa benissimo che la Chiesa ammette che torni a fare la comunione solo se -lasciata la persona con cui convive o, se ciò è impossibile, vivendo con lei come fratello e sorella- pentito e confessato fa il fermo proposito di non ricadere nella relazione scandalosa da cui è appena uscito.
La persona che non è divorziata e risposata, sinceramente pentita dei suoi peccati, dopo una buona confessione può e deve sperare di essere in stato di grazia, per quanto ancora pieno di imperfezioni umane e morali, e può accedere alla comunione sacramentale appunto perchè è in stato di grazia. Il sacramento dell’eucarestia infatti non bisogna dimenticare che è definito come sacramento dei vivi, e non dei morti, che è cioè riservato appunto a chi è in stato di grazia.
Monsignor Lorizio riconosce o no la differenza fra stato di grazia e stato di peccato mortale? Riconosce la differenza fra peccato veniale e peccato mortale? Se non riconosce queste differenze non ha più la fede cattolica, ma si è costruito una sua nuova religione immaginaria che si illude di poter chiamare cristiana.
Dunque, riassumendo, il fatto che vi sia un “dinamismo della grazia” (cosa ovvia: la santificazione, ma anche solo la conversione di una persona, è un processo, potenzialmente anche molto lungo) non basta a negare che all’interno di questo processo vi sia un punto di radicale discontinuità: quello che separa lo stato di peccato grave dallo stato di grazia.
Monsignor Lorizio sembra invece voler portare avanti a oltranza il suo sofisma (non merita altro nome il suo modo di argomentare) dicendo che “L’eucarestia non può essere concepita come il pane di coloro che sono già perfetti. Ma è il panis viatorum, di coloro cioè che sono in cammino. Se dovessimo tutti attendere la pienezza dell’unione con Dio per accedere all’Eucarestia, nessuno vi si potrebbe accostare”
Ma Lorizio sa benissimo, o dovrebbe sapere, che la Chiesa non ha mai detto che bisogna essere perfetti e in perfetta unione con Dio (perfezione di unione per altro riservata al cielo, essenza della beatitudine celeste), ha anzi condannato più volte le posizione ereticali di chi pretendeva questa perfezione per accedere ai sacramenti, come i donatisti o i giansenisti. L’unica condizione che la Chiesa ha sempre posto come necessaria per accedere alla comunione è lo stato di grazia, poiché chi si comunica senza essere in stato di grazia aggrava il suo peccato commettendo un grave sacrilegio e mangiando e bevendo “la propria condanna”.
Lorizio infila poi altra perle, nello sforzo disperato di difendere Amoris Laetitia: così scopriamo che il documento post-sinodale “E’ l’espressione di un percorso di Chiesa”, che non si capisce cosa significhi e aggiunge che l’intento del documento è pastorale : “E dicendo che è pastorale non diciamo che si tratta di un livello inferiore rispetto alla teologia. Diciamo proprio il contrario, perchè la pastorale comprende e include la teologia. E non il contrario. Altrimenti il cristianesimo sarebbe una sorta di intellettualismo, proprio ciò che il papa dice di voler evitare” (sott. nostre).
Siamo qui all’essenza del pensiero del papa, recepito fedelmente da Lorizio: la pastorale non discende più e non è più illuminata dalla dottrina che la guida e la orienta e deve rappresentarne la stella polare; ma il contrario: la pastorale con le sue esigenze deve autoprodursi la dottrina più adeguata ai nuovi problemi che incontra. La pastorale innova, modifica, adultera e inventa una sua teologia su misura, elastica e umana (troppo umana!). Nel pensiero del papa sappiamo che è una cosa da farisei e scribi, da ipocriti dottori della legge pretendere che le persone e le loro esigenze conoscano, rispettino e si pieghino alle verità dottrinali e morali che la Chiesa ha sempre insegnato. E’ la dottrina, sono i dogmi e la legge morale che devono piegarsi ai nuovi bisogni e alle nuove sensibilità del popolo cattolico. Proclamare le verità immutabili che la Chiesa ha sempre insegnato in questo clima diventa un atto di intollerabile violenza, di inaccettabile aridità, che impedisce di capire la gente e le sue esigenze (nonché, soprattutto, le esigenze delle grandi agenzie dell’O.N.U o dell’Unione Europea).
Siamo qui all’essenza stessa del modernismo, che sappiamo consistere, in ultima istanza, nel mobilismo dogmatico, nell’idea che dottrina e norma morale debbano mutare con il mutare dei tempi e della società. Con persone che, in buona o cattiva fede, ragionano in questo modo è impossibile discutere: si può solo riconoscere che hanno perso la fede, che si sono poste al di fuori della Chiesa cattolica.
E’ comunque uno spettacolo atroce vedere l’enorme confusione di idee e di concetti che c’è nella mente di mons. Lorizio: sottomettendo la dottrina e la teologia alla pastorale (che si presume debba guidarle) mostra di ignorare il concetto stesso di “pastorale”. La pastorale che un vescovo imposta e promuove nella sua diocesi attiene alla scelta dei temi, dei mezzi e dei tempi con cui evangelizzare il popolo. E’ un insieme di azioni guidato dalla prudenza e dall’esperienza, volto a porgere la dottrina nel modo più adatto e più efficace, considerata in modo concreto e realistico la popolazione che deve riceverla. Si potrà dare corso a un’azione pastorale che valorizzi un tema e ne lasci in secondo piano un altro, a seconda dei casi e delle esigenze, ma nessun vescovo serio si proporrà di modificare la immutabile dottrina che deve porgere al popolo. Anzi la sua azione pastorale mira proprio a difendere e far amare sempre più quelle verità di fede e quelle norme morali che più sono tradite o neglette, o che più sono combattute dal mondo e dai nemici della Chiesa.
La dottrina, il catechismo, la Tradizione della Chiesa sono la guida sicura a cui comunque ogni azione pastorale deve attenersi, anche se ciò dovesse dispiacere alla maggioranza dei fedeli. Saremmo a posto e potremmo rinunciare all’unità della Chiesa -che ultimamente si radica nell’unità della comune fede- se ogni diocesi, o ogni papa, potesse creare ex novo la dottrina e la morale come più gli aggrada, a seconda delle proprie preferenze o antipatie in materia di fede.
Infine, siccome nella Correctio Filialis si fa riferimento alla “perenne disciplina “ dei sacramenti, mons. Lorizio ironizza con grande sicurezza: “Ma quale “perenne”? La disciplina dei sacramenti arriva da Trento. E i 1500 anni precedenti?”
Quindi il cattolico dovrebbe contemporaneamente seguire lo pseudo-magistero cangiante e rivoluzionario di papa Francesco, non curarsi di 450 anni di costante insegnamento fondato sul concilio dogmatico di Trento, e saltati questi quattro secoli, collegare Francesco a non si sa quale momento dei millecinquecento anni che separano la nascita del cristianesimo dal Concilio di Trento stesso. Come per tutti i modernisti il richiamo alle origini della Chiesa (spesso in realtà fraintese o poco conosciute, nascondendone, ad esempio, le talora severissime norme penitenziali), ai padri, a ciò che si presume sia antico e originario ha un fascino irresistibile e viene presentato come un argomento in sé probante.
Proprio con questi stessi criteri, mossi dal più profondo odio per il Concilio di Trento, dopo il Vaticano II una commissione di liturgisti creò dal nulla il messale di Paolo VI, naturalmente con l’aiuto di diversi consulenti protestanti. Ne venne fuori la messa criptoprotestante che tutti conosciamo. Conosciamo anche i frutti della riforma liturgica voluta da Paolo VI: in pochi decenni in Francia, ad esempio, la frequenza alla Messa è crollata al 4% degli abitanti. 96 francesi su 100 non sanno più cosa sia una chiesa, non hanno più alcuna vita di fede. Il paese è completamente scristianizzato.
Allo stesso modo i modernisti che occupano il Vaticano da cinquant’anni con la loro pastorale accomodante non si illudano di attrarre folle di fedeli e di tornare a riempire le chiese: le loro menzogne renderanno -umanamente parlando- la Chiesa ancora più vuota e irrilevante fino a che il sale, divenuto insipido, sarà buono solo per essere gettato via e calpestato.