Cosa saltò in mente a San Gerolamo?

San Girolamo

Perché il letterato dalmata Sofronius Eusebius Hieronymus, da noi conosciuto come “San Gerolamo” (347-420) dottore della Chiesa, ritenne necessario tradurre di nuovo l’Antico Testamento dall’ebraico? Perché non gli bastava la Bibbia greca dei Settanta?

Per provare a rispondere, sarà bene vedere Gerolamo come figura di “intellettuale”. Con tutti i segni caratteristici dell’intellettuale di ogni tempo: irrequietezza, tendenza a gettarsi in polemiche furenti, ideologicamente militante ed estremista; penna affilata usata come una sciabola; il piacere di farsi dei nemici. Inquieto e insoddisfatto, non però senza un occhio alla carriera: ci fu un momento in cui, chiamato a Roma a fare il segretario di Papa Damaso, stava quasi per esser fatto pontefice, rovinando poi tutto con il suo caratteraccio.

Ma per un intellettuale, “far carriera” significa anzitutto una cosa: il successo editoriale, la fama. In una parola, scrivere un best-seller.

Anche se il successo non gli mancò, fu sempre secondo a quello che aveva riscosso Sant’Atanasio di Alessandria (295-373) con la Vita di Antonio, il copto Antonio del Deserto, il padre di tutti gli eremiti: la sua vita da digiunatore e quasi-fakiro orientale, le sue lotte contro le tentazioni e ed allucinazioni carnali del demonio suscitarono in Roma, tra la classe altolocata, una passione travolgente per la conquista del regno dei cieli ad imitazione del semplice, eroico contadino copto.

Specie fra l’elemento femminile della classi alte. Il best seller di Atanasio non solo portò di moda l’ascetismo, ma contribuì all’esplodere di un fenomeno sociale rilevante – che siamo obbligati a chiamare il primo movimento femminista della storia. Il fenomeno fu agevolato dal diritto romano: per il quale la vedova tornava ad essere padrona del suo patrimonio (la dote) e di quello del caro defunto, dunque conseguiva la completa autonomia economica – purché non si risposasse. Cosa di meglio, in una Roma ormai cristiana, per le ricche vedove fare voto di castità? Lo fece santa Marcella, proprietaria di una magione sull’Aventino, rimasta vedova solo dopo 7 mesi di matrimonio; lo fece santa Melania, con seconda casa nel Monte degli Ulivi, rimasta vedova a 22 anni. Santa Paola, di cui Gerolamo fu segretario, aveva trentun anni quando perse il marito.

Son vedovanze precoci su cui non è lecito gettare sospetti, perché tutte erano sante: santa Rufina e santa Furia, santa Principia e santa Pretestata, tutte con grandi beni che usavano chi per mantenere giovani intellettuali cristiani, chi per leggere in gruppo Origene e Atanasio, chi per visitare gli stiliti e gli anacoreti in Egitto…

L’Egitto, bisogna dire, era da sempre la meta della ricca gioventù romana prima di assumere il cursus honorum: era il gran tour che si concedevano anche le ricche fanciulle diventate autonome. Un pellegrinaggio di istruzione con numerosa servitù al seguito, a vedere il Bue Api che ancora si venerava, le statue di dei che per certi meccanismi, se gettavi una moneta in una fessura, alzavano il braccio a benedire… un parco tematico (ci tratteniamo dal dire: una Disneyworld) a cui s’era aggiunta la più recente e severa meraviglia: la devozione cristiana estrema. Il santo appollaiato sulla colonna, quello che per voto non si tagliava capelli né unghie, lo smagrito eremita che intrecciava cestini ed emanava profonde risposte piene di sapienza, la vita anacoretica così ben narrata nel best seller di Atanasio.

Gerolamo, rodendosi per quel successo, aveva annunciato a tutti i romani-bene nel 373 che anche lui si ritirava nel deserto; e lo fece. Asceta per due anni. Fu, per sua ammissione, un’esperienza orribile. Mentre disciplinava la carne coi digiuni, la sferza e le spine, non riusciva a “dimenticare le danze delle giovani romane”. Ma c’era un motivo per superare quelle sofferenze.

Come nota un suo biografo, il domenicano tedesco Hans Conrad Zender, in realtà “gli intellettuali cercano la solitudine per poter finalmente scrivere indisturbati quel che avrebbero voluto scrivere già da tempo”. È il caso di Gerolamo. Dal deserto di Calcide emerse con un suo libro-inchiesta sul movimento degli eremiti egiziani. Titolo: Vita Sancti Pauli primi eremitae. Aveva fatto quel che oggi si dice uno scoop: aveva scoperto, lui solo, che il primo eremita era stato non Antonio, ma un più antico “Paolo di Tebe”. Era lui che Antonio, ancora inesperto e giovane, era andato ad incontrare per apprendere la via. Paolo era vecchissimo; Antonio gli rese omaggio. Stettero insieme per molti giorni, Paolo insegnando e Antonio ascoltando. Un corvo portava loro un pane ogni giorno.

Questo Paolo proto-eremita è ritenuto, ahimé, un’invenzione di Gerolamo. Che importa? Egli si rituffò a Roma e si gettò con delizia nella battaglia della fede del momento: la lotta per la verginità e la castità. È la forma che aveva preso il movimento proto-femminista cristiano già prima che lui sparisse nel deserto. Non che avessero torto, le pie vedove: gran parte del clero romano conviveva con una vergine che si dedicava a curarlo per obbligo di carità. Era il fenomeno delle agapete. Originariamente sarà anche stato autentico (1), e la castità sarà stata rispettata da entrambi. Ovviamente era diventato presto uno scandalo di lussuria. “Una nuova specie di puttaneggio”, come scrisse furioso san Girolamo ad Eustochio, che era una delle figlie della sua datrice di lavoro, santa Paola.

Santa Paola era una miliardaria d’alto rango senatorio (discendeva dagli Scipioni: gens Cornelia). Adottò come segretario personale, factotum, consigliere spirituale ed intellettuale san Girolamo. Soprattutto, i due si impegnarono nella famosa lotta per la castità, il celibato dei preti e la verginità delle fanciulle, contro i prelati mondani, gaudenti e profumati del loro tempo, che Gerolamo faceva bersaglio dei suoi sarcasmi più che urticanti, per iscritto in splendida prosa ciceroniana…

Sono rimaste anche le centinaia di lettere che Girolamo scrisse alle due figlie dell’imperiosa signora Paola, Blesilla ed Eustochio: tutte istruzioni su come mantenere la castità e la verginità.

Un’altra protagonista di questa santa battaglia, la bella vedova Marcella, aveva dato vita ad una comunità di vergini nella sua gran villa di campagna presso Roma: dove si rinunciava per sempre alla cucina di Apicio, grassa carnea e piena di salse, e ci si nutriva dei prodotti dell’orto, del pane fatto in casa e del latte delle pecore locali, onde non essere annebbiate quando si doveva meditare e leggere.

Una comunità vegana, con alimentazione biologica a chilometro zero per scopi spirituali.

Girolamo divenne un apostolo (militante, secondo il suo solito) del vegetarianesimo, utilissimo ausilio alla castità – insieme ai digiuni. Tanto che quando la discepola Blesilla, figlia di santa Paola, morì ventenne, i numerosissimi nemici che Girolamo s’era fatto nel clero ebbero buon gioco di accusarlo: è stato lui, il guru vegano, ad averla fatta morire a forza di digiuni e di dieta a lattughe.

La realtà era che il movimento capeggiato dalle ricche vedove auto-realizzate era ormai identificato dalla classe dirigente come un pericolo sociale, e san Gerolamo come un sovversivo di sinistra soggiogatore delle vedove. E precisamente per questo: le fanciulle di grandi famiglie non aspettavano nemmeno più di diventare vedove. Si dichiaravano in anticipo votate alla verginità, negandosi al matrimonio – e si tenevano il patrimonio del papà defunto, senza rimetterlo in circolazione nella classe alta, né fare figli a beneficio della medesima classe, da inserire nei ranghi politici. Così, appena morto papa Damaso che lo proteggeva, Gerolamo fu praticamente espulso da Roma. O se ne andò lui, inseguito dalla accusa di aver fatto morire Blesilla come il capo di una setta fanatica.

Era lo sconfitto movimento della verginità e del veganismo, quello che con Gerolamo, e i pochi preti e monaci rimasti al suo fianco, si imbarcò tristemente da Ostia nell’agosto 385 per la Terrasanta. Poco dopo lo raggiunse santa Paola con Eustochio ed alcune delle ascete d’alto rango; continuarono la battaglia da Betlemme, dove Gerolamo fondò (coi soldi di Paola) un monastero maschile dove andò a vivere, ed uno femminile dove visse Paola, ormai non più tanto ricca, azni povera: aveva profuso tutto nella lotta.

Ormai, in questo esilio, Gerolamo si dedicò completamente alla Bibbia. Sappiamo che già prima anche santa Paola aveva studiato seriamente l’ebraico, e intuiamo il motivo: dalla scelta della nutrizione biologico-integrale alla preferenza per il “testo integrale” non contaminato dalla civiltà ellenica, c’è una relazione che non sfuggirà.

Pane genuino, Torah genuina. Verdure a chilometro zero, testo sacro a chilometro zero: niente più greco, ma aramaico. Lì a Betlemme c’erano ebrei (più o meno convertiti) a cui chiedere lumi quando nascevano dubbi linguistici; ebrei integrali, biologici a chilometro zero. Nelle cui mani si misero.

Il resto – la lotta di Gerolamo ciceroniano nato con il testo semitico – ve la racconto nella prossima puntata. Sempre che v’interessi.

Note

  1. I favorevoli alle “sorelle amate” (questo il significato di ‘agapete’) pretendevano che l’usanza avesse un fondamento dottrinale. Precisamente nella 1ma Corinzi (9, 4-5) dove San Paolo dice: “«Non abbiamo forse noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”