di Roberto PECCHIOLI
L’ indizio più sicuro di sopraggiunta vecchiaia è il fastidio per i cambiamenti, unito ad un’ostinata incomprensione delle novità. In controtendenza rispetto ai tempi, che prescrivono giovinezza perpetua e amore incondizionato per il nuovo, ci confessiamo vecchi, anacronistici, privi della volontà di seguire, capire, accettare il turbine di trasformazioni che ci ferisce gli occhi e rende amara la vita quotidiana. Tutto passa, ma la fretta odierna, la violenza imperiosa della moda, dell’odiernità, non fa per noi. E’ in azione una macchina infernale che trasforma ogni cosa, destituisce tutto di senso, modifica la realtà e noi stessi, trasformati in gregge di mutanti. Moda come progresso, conformismo come entusiasmo dinanzi al nuovo, cambiamento continuo come fervore modernista. Nessuna epoca ha tanto amato il nuovo quanto la nostra, la cui divinità è Proteo. Nella mitologia greca, Proteo era l’immortale vecchio del mare in grado di predire il destino, ma chi voleva avvicinarsi a lui doveva coglierlo nel sonno o trattenerlo con la forza, poiché cambiava continuamente aspetto ed era in grado di assumere ogni sembianza.
Chi sfogliasse un album di fotografie vecchio di vent’anni, resterebbe stupito dell’immenso cambiamento dei luoghi, dei volti e persino delle situazioni. Davvero proteiforme è il tempo nostro. E’ il fascino che esercita su molti, ma la Megamacchina del denaro, del consumo, dello sfruttamento, non è mai stata tanto potente, mai ha dispiegato i suoi tentacoli con altrettanta penetrazione. Alla gente piace quello che le viene fatto piacere; tutto è moda, istante, veloce cambio di prospettiva, gusti, modi di vita. Vince il presente, il rifiuto di ereditare, “il diritto naturale del presente contro il passato” (Roland Barthes). Sconcerta la rapidità e soprattutto il carattere di massa dei fenomeni che il vecchio bastian contrario guarda sgomento, incapace di adeguarsi e di capire.
Ci è capitato di osservare il cortile di un carcere, l’area in cui i detenuti trascorrono “l’ora d’aria”. Un rettangolo disadorno dove gruppi di uomini affiancati camminano al passo, percorrono il lato lungo, sfiorano il muro e, sempre tutti insieme, si voltano per rifare il tragitto in senso contrario. Qualcosa di simile al criceto che cammina nel cerchio entro la gabbietta; questa ci sembra la condizione subumana della sterminata massa di seguaci delle mode. Compiono i medesimi gesti, si comportano, vestono allo stesso modo, amano o detestano in massa le identiche cose. A tanto ci obbliga l’autorità invisibile delle mode, essere ridicoli per non averne l’apparenza. Esse, lo scoprì un filosofo della storia, Georg Simmel, compiono un miracolo psicologico collettivo, rendono possibile un’obbedienza sociale che si crede differenziazione individuale. Così fan tutti, e così sia, nel gregge dei mutanti che si credono unici. E’ un’epidemia creata ad arte, scrisse George Bernard Shaw, per la quale non vi è altro antidoto che il pensiero critico, un prodotto assai raro non disponibile in commercio, ritirato anche dal sistema educativo che addestra senza insegnare.
Così fan tutti, ad esempio nella travolgente moda dei tatuaggi. L’estate scopre i corpi anche lontano dalle spiagge e si resta sbalorditi dinanzi al numero imponente di persone di ogni età che esibiscono tatuaggi in tutto il corpo. Storicamente, tale pratica, fuori dal microcosmo tribale, era riservata a emarginati, minoranze stigmatizzate o a chi voleva ostentare particolari simboli di identità. Apparteneva, quindi, al mondo dei significati, non alla transitorietà delle mode, tenuto conto del carattere indelebile dei prodotti utilizzati per realizzarli. Al contrario, migliaia di corpi esibiscono adesso ghirigori e svolazzi, disegni colorati di qualsiasi genere, spesso in numero e dimensione imponente, in gran parte privi di un vero significato, una deturpazione di sé in nome della bizzarria fatta obbligo. Corpi trasformati in cronaca mutante, modaiola di un gregge senza storia.
C’è chi si tatua frasi da Baci Perugina o brani di canzoni, chi mostra volti e paesaggi, panorami, animali, frutta, di gran moda le ciliegie, forme geometriche, date di nascita, nomi di coniugi e fidanzati (ahimè, quanti pentimenti), alcuni imprimono il nome dei figli, come se fosse possibile dimenticare la carne della propria carne e persino quello degli animali domestici. Pochissimi i simboli religiosi, pressoché assenti quelli politici, nazionali o territoriali, abbondano polpacci della Sampdoria, bicipiti del Milan e braccia della Juventus. Ogni epoca ha le identità che si merita. Mentre l’avanzata tattoo non risparmia i visi e le mani, un conoscente ci ha svelato con orgoglio che uno strano schizzo sul petto, accanto al disegno di alcune zampette feline, è il nome del micio di casa in alfabeto maori. Ottimo viatico per un viaggio in Nuova Zelanda, ma lo stupore riguarda la facilità con cui si ricostruisce, letteralmente si “ridisegna” il proprio corpo, nell’ansia di una autocreazione progressiva che contraddice il mutamento, la moda cangiante, il gusto continuamente rimodellato dalla grande macchina pubblicitaria e di mercato.
In attesa dell’avvento dello “statuatore”, che arriverà non appena tecnicamente possibile, un’altra moda – non sappiamo darle altro nome – riguarda gli animali. Non vogliamo figli, troppi problemi, non ci prendiamo cura dei vecchi di famiglia, ma abbiamo piena la casa di beniamini a quattro zampe. Nessuna obiezione per l’amore degli animali, ma il troppo stroppia, specie se accompagnato dal disprezzo e dall’indifferenza per gli esseri umani. Distinte signore, attempati padri di famiglia, ragazzotti palestrati e ragazzine dal nasino all’insù diventano raccoglitori di deiezioni canine, ma non sprecherebbero un euro, un minuto della loro giornata per dare una mano al vicino sofferente. Sappiamo di fare affermazioni impopolari, fastidiose per molti, poiché de te fabula narratur, ma abbiamo l’improntitudine di continuare. Tu, lettore spazientito, interrompi la lettura.
La sciatteria nel vestire, la volgarità dei comportamenti, il linguaggio infarcito di turpiloquio e bestemmie, il lessico elementare dei messaggini, il grugnito multilingue da suburra, si impongono ovunque. Eccepire espone all’accusa di intolleranza e di anacronismo. Ebbene sì, siamo orgogliosi dell’anacronismo, poiché il mondo non era così, quando il progresso non ci aveva ancora raggiunto e travolto. Impiegammo generazioni per innalzarci, siamo rapidissimi nella discesa. Le dipendenze sono talmente numerose e diffuse da riempire nuovi manuali di medicina e psicologia. Sempre più giovani e giovanissimi, con in testa le ragazze, convinte dal peggiore femminismo a recuperare il tempo perduto dalle generazioni passate, bevono compulsivamente e si ubriacano fino al coma. E’ un rito, forse non si è accolti nel gruppo se non si sballa tra alcool e pasticche. La droga è banalizzata, specie le canne e la cocaina.
Fenomeni di massa che nessuno può più sottoporre a giudizio morale perché di se stessi, afferma il gregge mutante, si ha diritto di fare ciò che si vuole. Le conseguenze sociali sono a carico della collettività, ma che importanza ha, quel che conta sono Io, il breve attimo di un dubbio piacere. L’esibizionismo nelle sue varie forme è talmente diffuso che la vera trasgressione è girare in giacca e cravatta, parlare a bassa voce e dare del lei agli interlocutori. La dimensione privata è abolita, quella intima irrisa. Merito delle reti sociali e della connessione continua. L’Io minimo diventa narcisismo massimo per scrivere banalità di ogni tipo, descrivere particolari della vita, fotografare se stessi – il maledetto selfie – in qualunque situazione, postare foto del cibo che ci si appresta a mangiare, strologare su tutto, sentenziare il bene e il male con “mi piace” “non mi piace”, insultare e odiare, protetti dalla realtà virtuale, chi esprime idee a noi avverse.
Senza connessione perpetua non sappiamo vivere, comunichiamo apparentemente più di prima, ma la relazione personale è sostituita da apparati tecnici, protesi innaturali. Sono bastati pochi anni di dominio tecnologico e di individualismo antropologico per trasformarci in gregge obbediente al comando di un padrone invisibile che detta le idee, i comportamenti, le mode. Chi avrebbe mai immaginato, nei primi anni 2000, la trionfale avanzata delle teorie del gender, la negazione insensata di natura e biologia, l’indifferenza o l’adesione convinta a un assurdo logico come il matrimonio omosessuale? Dilaga un ripudio culturale che è insieme indifferenza per il passato, noncuranza del futuro, disinteresse per la dimensione comunitaria, disprezzo per tutto ciò che sa di ieri. La ragione drogata genera mostri.
Un’altra moda a cui non si può sfuggire è quella del nomadismo. Non solo è proibito essere radicati in un luogo, una lingua, una cultura, ma il viaggio sostituisce la meta, i nonluoghi, aeroporti, autostrade, mezzi di trasporto come gli amatissimi low cost, predominano sui luoghi. Neppure il cibo sfugge alla moda: adesso impazza quello “di strada”, intrugli internazionali dai nomi incomprensibili – sconsigliati gli spaghetti- da consumare in fretta, meglio se in piedi, per non “perdere” tempo, qualsiasi cosa significhi. La fuoriuscita dalle tradizioni e la più ridicola adesione al mondo globale si riscontra nei nomi imposti ai pochi figli del Terzo Millennio. Nessuna Maria, Giovanni e Antonio sono in ritirata, ma abbondano i nomi anglofoni, spesso per stolida imitazione di stelle momentanee della musica o dello spettacolo; i più comici sono i nomi a cui è stata semplicemente tolta la vocale finale. Gabriel è globale e rock, Gabriele è nazionalpopolare e “lento”, sino al ridicolo di qualche Maicol o Gionatan, incolpevoli vittime del vuoto pneumatico dei genitori 1 e 2.
L’universo è liquido, tendente al gassoso, ma ben solido, ferreo è il potere di chi è riuscito a ridurre gli occidentali al punto in cui siamo, con moto accelerato verso il basso. Homo stupidus stupidus, secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli. Il gregge mutante, progressista, inclusivo, tecnologico, tollerante, riflessivo (!!!) incede pasciuto verso il mattatoio dopo aver consumato ed essersi consumato. Così fan tutti. Una vecchia canzone “nonsense” di Giorgio Gaber del 1970 diceva così: Il gatto si morde la coda, si morde la coda, il gatto il gatto si morde la coda e non sa che la coda è sua.