CRONACHE DAL MONDO IN DEFLAZIONE – di Luigi Copertino – terza parte

Cronache dal mondo in deflazione – di Luigi Copertino – terza parte

Germania, la svolta: dal mercatismo alla leva della spesa pubblica

Soprattutto per Paesi come l’Italia – che non ha affatto, come troppo facilmente si dice e si fa credere, un problema di debito pubblico ma invece ha un problema di bassa crescita che, poi, crea quello dell’alto debito – serve maggiore flessibilità di bilancio ma, attenzione!, al solo scopo di aumentare la spesa di investimento e non per scopi di sapore elettoralistico, come certe inutili riduzioni fiscali, che si rivelano solo palliativi buoni quali specchio, appunto elettorale, per le allodole. La politica monetaria espansiva deve coordinarsi ed accompagnarsi a politiche fiscali e di bilancio altrettanto fortemente espansive, se si vuole uscire dalla depressione in corso. Ma l’UE non ha alcuna Autorità Politica Confederale. Al suo posto esiste soltanto un apparato tecnocratico controllato dalla Germania per i suoi scopi autoreferenziali.

Come si è visto, nel momento nel quale la Bce si accingeva ad annunciare l’estensione del programma in atto di QE, nel marzo scorso, proprio dalla Germania si sono sollevate le più forti critiche alla politica monetaria espansiva di Mario Draghi. Critiche di cui si sono fatte interpreti le Casse di risparmio e le Banche pubbliche regionali tedesche, riunite nelle associazioni della Sparkassen e delle Landesbanken. Dietro tali critiche c’è lo zampino di Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, un falco dell’austerità e principale oppositore di Mario Draghi, nel Board della Bce, e prossimo potenziale candidato tedesco alla successione dell’“italiano spendaccione”. Infatti, nel rapporto annuale della Bundesbank, proprio Weidmann si è detto contrario a nuovi alleggerimenti monetari perché, a suo dire, «Le prospettive economiche nell’Eurozona non sono pessime come a volte vengono descritte» (La Stampa del 09.03.2016). Affermazione, quella di Weidmann, che testimonia non soltanto la cecità tedesca ma anche l’incapacità germanica ad una leadership aggregante anziché egemonizzante. La critica tedesca si spinge perfino a negare quel che nel linguaggio “felpato” usato da Draghi è chiamata “disinflazione”. Per gli economisti stipendiati dalle Casse di Risparmio tedesche «I rischi di deflazione nell’Eurozona sono molto bassi» (La Stampa, ibidem).

L’alternativa proposta dalle banche tedesche, per voce dei loro economisti, è sempre la stessa: riforme strutturali negli Stati dell’UE ad alto debito ossia tagli alla spesa pubblica anche di investimento, tagli alle pensioni, tagli alla spesa sociale, tagli alle tutele sociali ed alla sanità e via dicendo su questa linea. Mai che si indichino sacrifici per le banche, gli industriali, gli speculatori. Le Casse di Risparmio tedesche temono che con i tassi prossimi allo zero non potranno remunerare adeguatamente i depositanti sicché, questo, provocherebbe la loro fuga verso altri istituti bancari. Si dimentica, però, che in un panorama di bassi tassi, i depositanti non troverebbero altrove interessi molto più alti. Quindi la polemica delle Sparkassen tedesche non ha solidi fondamenti economici svelandosi per quella che è ossia un attacco ad una politica monetaria espansiva ritenuta troppo “euro-meridionale”. Come se, poi, l’attuale politica monetaria della Bce di Draghi fosse davvero favorevole esclusivamente per i popoli euro-mediterranei. Come già rilevato il QE impone agli Stati dell’Europa del sud agende politiche che vanno esattamente verso quella spending rewiew, che spesso diventa spending crunch, tanto auspicata dalla Germania ordoliberale.

Viene invece taciuto dai critici tedeschi il parziale cambio di passo della stessa Germania che sembra aver abbandonato, di fronte all’impraticabilità dimostrata dalla crisi, la sua procedente politica mercantilista, tutta basata sulle esportazioni con la contestuale contrazione della domanda interna e dei salari, al fine di rendere il costo unitario dei suoi prodotti più competitivo nella concorrenza intra-Europea. Questo tipo di politica mercantilista tedesca è quello che ha portato l’Europa al disastro. Prigionieri di una moneta unica da essi non controllata, l’Italia e gli altri Paesi dell’Eurozona non hanno potuto, come facevano in passato, rispondere con la svalutazione del cambio monetario. Sicché anche gli altri Paesi dell’eurozona sono stati costretti, nel tentativo di favorire le proprie esportazioni,  a seguire la via tedesca della svalutazione interna della domanda e del lavoro. Con la conseguenza, però, che in uno scenario di tal genere, nel quale tutti contemporaneamente contraggono la domanda interna ed il costo del lavoro, nessuno poi ha sufficiente potere, reciproco, d’acquisto per comprare le merci esportate dagli altri. Come ogni politica mercantilista, anche quella della Germania può funzionare solo in una situazione neo-coloniale di asimmetria che sancisca il dominio dell’economia tedesca sulle altre. Prima della crisi globale arrivata in Europa, come crisi dei debiti sovrani, nel 2010, la situazione creatasi nell’eurozona era esattamente quella asimmetrica del dominio germanico nell’export, a senso unico, verso l’Europa del sud, la cui spesa privata veniva sostenuta, per favorire l’acquisto di merci nordiche, dal credito facile tedesco reso possibile dal surplus finanziario della Germania. Ogni tentativo di introdurre elementi di simmetricità in scenari di egemonia coloniale, come quello descritto, si risolve inevitabilmente nella contrazione dell’originaria posizione di dominio del più forte senza che, per questo, migliori la situazione dei più deboli. A meno che la domanda ed il costo del lavoro interni ai Paesi più forti non crescano indirizzando, però, il maggior potere d’acquisto interno verso le importazioni, ossia verso le esportazioni dei Paesi deboli.

Di fronte all’impossibilità di perseguire nella sua precedente politica sfacciatamente mercantilista, la Germania, compresa a seguito della crisi dell’euro l’antifona, ha, appunto, cambiato in parte la sua politica economica. I dati confermano che l’economia tedesca continua anche oggi a crescere. Una crescita certo relativa che segna un chiaro rallentamento rispetto agli anni precedenti la crisi. Ma proprio perché la crisi è diventata ormai globale, la performance tedesca non è affatto disprezzabile. La novità, però, sta nel fatto che questa crescita, pur modesta nello scenario depressivo mondiale, non è più, come in precedenza, frutto della potenza esportatrice tedesca. L’Ufficio Statistico della Germania ha reso pubblici i dati del 2015 e del primo trimestre del 2016 evidenziando che gli ordini dall’estero sono crollati significativamente, per stabilizzarsi su livelli molto inferiori a quelli degli anni scorsi. Questo perché è crollata la domanda estera dei prodotti tedeschi per effetto della deflazione globale. Quindi l’unica spiegazione alla pur modesta tenuta della crescita germanica deve essere cercata nell’aumento della spesa  per i consumi interni e della domanda interna, alla quale va aggiunto il basso prezzo del petrolio e guarda caso – nonostante i banchieri tedeschi se ne lamentino, come abbiamo visto – i bassi tassi di interesse, conseguenza della politica monetaria espansiva della Bce, i quali spingono più a spendere che a risparmiare.

La crescita interna del costo del lavoro e della domanda è stata l’effetto della nuova politica salariale tedesca che, anche in questo virando rispetto alle riforme Hartz del 2003, è tornata ad essere espansiva perché, nel patto di governo di “grande coalizione”, i socialdemocratici hanno ottenuto l’aumento del salario minimo. L’accresciuto potere d’acquisto per le fasce medio-basse della popolazione tedesca se ha certamente anche contribuito alla crescita delle importazioni, avvantaggiando un po’ le esportazioni estere, ha d’altro canto avuto maggiori effetti sull’aumento della domanda interna e quindi nella contrazione delle esportazioni germaniche. Questo diverso scenario ha imposto perfino ad un falco dell’austerità finanziaria come Wolfgang Schäuble, il paralitico ministro delle finanze tedesco che è stato il principale sostenitore del rigorismo eurocratico nei confronti del dramma greco, che proprio in questi giorni sta tornando in primo piano, di sopportare obtorto collo una politica di bilancio in forte espansione – nel 2016 è previsto un aumento della spesa pubblica tedesca del 3,5% – innanzitutto per far fronte all’arrivo dell’onda migratoria la quale comporterà la costruzione di nuove abitazioni e di nuove scuole e la necessità di assumere nuovo personale medico e docente. Schäuble, per non smentirsi, ha già dichiarato che l’aumento della spesa pubblica è possibile senza fare deficit spending e che quindi il bilancio tedesco chiuderà lo stesso in pareggio, secondo i dettami dogmatici dell’ordoliberismo friburghese che è la dottrina economica ufficiale della Germania. Ma, dichiarazioni ideologiche a parte, si dovrà poi verificare se sarà possibile a Berlino far fronte al maggior intervento statuale senza deficit spending. Perché, in realtà, la svolta nella politica economica tedesca costituisce la tacita e silenziosa ammissione che l’ordoliberismo – o la sua applicazione ciecamente dogmatica – non ha funzionato.

Uno storico dell’economia, di formazione cattolico sociale, Giulio Sapelli, docente all’Università Statale di Milano, fortemente critico verso l’ordoliberismo, ci ha spiegato i motivi profondi del fallimento di quel modello: «… vi è un problema assai … grave – egli ha scritto su Il Messaggero del 10 marzo 2016 – ed è quello della mancata crescita economica e quindi della mancata benemerita ascesa del tasso di inflazione (l’inflation targeting di cui discettava Ben Bernanke). Di più: la deflazione continua invece a manifestarsi, lasciando sgomento ogni monetarista che crede ancora nel ruolo salvifico della moneta. La circolazione monetaria si rivela essere non solo un segmento – e non il tutto – dell’accumulazione capitalistica, ma addirittura diventa ostacolo ad essa quando si separa dall’economia reale. E’ ciò che è accaduto sino a ora con eccessi di liquidità uniti a eccessi di risparmio in una tipica trappola che avevamo già visto scattare in Giappone venticinque anni or sono (…). L’esempio della Federal Reserve, che per fronteggiare la crisi da subito ha attivato meccanismi d’intervento sia acquistando a manetta titoli di Stato sia sostenendo direttamente il sistema bancario, è stato imitato probabilmente con troppo ritardo. A questo punto se davvero si vuole che si innesti un percorso di crescita sostenibile occorre favorire un massiccio processo di investimenti onde creare nuovi posti di lavoro così da porre su nuove basi la domanda interna. Proseguire sulla strada sin qui percorsa, se corrobora l’attività della Bce, porterà fatalmente a restringere sempre più le possibilità di ripresa. Non v’è dubbio che sino a oggi il Quantitative easy e le politiche di tassi negativi abbiano prodotto una temporanea difesa dinanzi all’esplodere di una crisi anzitutto finanziaria di grandi proporzioni, ma di fatto hanno consentito di guadagnare tempo, non di andare alla radice del male. Che non è oscuro: il male è l’eccesso di risparmio prodotto da un eccesso di speculazione che ha puntato tutto sulle esportazioni, alla fine persino contribuendo a provocare la frenata della stessa Cina. E’ dunque fallito il modello della crescita fondata sull’esportazione, tanto cara alla Germania, a discapito della domanda interna. Ed è dunque fallito – anche a causa dell’inerzia di certi governi – pure il modello che Draghi aveva condiviso in una qualche misura sperando di occultarlo con le eterodossie monetarie. La verità è che le politiche monetarie da sole non riescono a invertire il processo di stagnazione secolare che abbiamo iniziato a percorrere con l’unificazione monetaria europea, con la Germania che trascina nel suo surplus commerciale una catena di nazioni che finanziano a debito ciò che non possono più finanziare con il lavoro dipendente ben pagato e una politica di valorizzazione del profitto industriale anziché della rendita finanziaria. L’ora della verità è infine giunta, ma sarebbe un grave errore addossare la colpa a Draghi: non è stato, né poteva esserlo, l’Arcangelo San Michele, ma ora non diventi il cavaliere dell’Apocalisse. Egli è fautore di una politica economica senza sbocco che in ogni caso è stata ed è meno negativa dell’ordoliberalismo e della deflazione sostenuta dalla Germania. La politica tedesca poteva e doveva essere contrastata da una politica come virtù dei migliori ossia del contemperamento e non dell’eliminazione degli interessi nazionali, in un’Europa che invece con favole tecnocratiche e giochi di specchi ha offeso e umiliato i principi di una libera e forte crescita economica sull’altare di una filosofia dell’algoritmo. Molti l’hanno condannata a parole, compreso il premier Matteo Renzi, ma non sono riusciti a imporre nei fatti il suo superamento, a cominciare dalla non attuazione del fantomatico Piano Juncker che è solo servito a far rieleggere Juncker stesso contro il volere degli inglesi più scettici che mai dinanzi alle alchimie lussemburghesi e le incertezze subalterne delle socialdemocrazie europee. Qualsiasi decisione possa assumere … la Bce deve essere chiaro che essa deve essere pertinente, se vogliamo tornare a crescere, con un insieme di politiche anti-austerità che devono conservare il nocciolo del processo unitario europeo, ossia la moneta unica, ma devono rimettere in gioco i Trattati restituendo … libertà di bilancio alle nazioni europee, pena il disfacimento dell’Europa medesima».

Guido Carli, banchiere umanista e momentaneo katéchon

Giulio Sapelli, dunque, indica in una riforma confederale, piuttosto che federale, delle Istituzioni europee, con spazi di autonomia per le singole nazioni, la via da seguire per uscire dal Trattato di Maastricht come attualmente disegnato. Non vogliamo entrare nel merito del confronto tra posizioni rigorosamente nazionaliste, ossia uscita dall’euro, e posizioni europeiste ma riformatrici degli attuali assetti istituzionali dell’UE. Entrambe le posizioni colgono parte della verità. Il problema della sovranità, in un mondo globale, è quello che essa deve essere riaffermata su livelli più alti senza per questo venir meno ai livelli più bassi. La sovranità, in altri termini, dovrebbe contemperare, sussidiariamente, le singole nazioni e l’ipotetica Confederazione europea. Forse la gollista “Europa delle Patrie” o, meglio ancora, il modello tradizionale romano-cristiano, specificatamente europeo,  dell’“Imperium”, ossia unità nella diversità, possono essere una sorta di stella polare per la riforma dell’UE.

Giuseppe Guarino, già ministro delle finanze e professore di diritto internazionale, come protagonista della stagione che portò alla stipula del Trattato di Maastricht, nel 1992, è andato ripetendo in tutte le sedi in questi anni, scrivendo anche pregevoli testi in argomento, che quel Trattato è stato violato e tradito nei successivi regolamenti eurocratici di applicazione che ne hanno stravolto lo spirito di fondo, il quale non mirava ad alcuna unione monetaria asimmetrica come quella poi imposta dal duopolio franco-tedesco. Secondo Guarino «L’euro di oggi è un euro falso perché non disciplinato dalle norme del Trattato, ma da norme che sono contro il Trattato» (Il Messaggero del 27.03.2016). Norme regolamentari e quindi gerarchicamente subordinate ad esso, che però lo hanno illegittimamente travolto e stravolto.

Esiste una storia diversa degli accordi che portarono al Trattato di Maastricht, una storia mai raccontata e celata ai più. Una storia che vede quale protagonista l’italiano Guido Carli. Politico, tecnico e banchiere centrale di idee e sensibilità molto sociali, eredità della sua giovanile formazione agli ideali nazionali e sociali degli anni ’30, egli fu tra i primi assertori in Italia, contro la teoria quantitativa, del carattere “endogeno” della moneta. All’indomani della firma del Trattato di Maastricht, dichiarò pubblicamente, con visibile soddisfazione, che era stata vinta la battaglia – da lui e da altri ingaggiata – contro la linea, definita “cartaginese” con evidente riferimento alle pratiche cultuali fenice al dio Baal le quali contemplavano sacrifici umani e contro le quali tuonavano i profeti biblici, perseguita dall’asse olandese-tedesco. Infatti Guido Carli era riuscito ad imporre nel testo del Trattato una visione dell’euro che lo voleva frutto della politica, delle idee e, soprattutto, delle identità nazionali. Una concezione che escludeva obblighi o corsi forzosi, rientri deflattive a marce forzate del debito e rigide manovre correttive: ossia esattamente i “compiti a casa” e le “riforme strutturali” che l’eurocrazia germanica oggi impone a tutti gli altri. Una concezione dell’Europa, quella inseguita da Guido Carli, fondata sulla solidarietà tra i suoi popoli nella crescita civile, occupazionale, economica, comune e reciproca.

Guido Carli apparteneva alla tipologia dei “banchieri-umanisti” che alla competenza tecnica affiancano profonde conoscenze filosofiche, giuridiche e letterarie. Si occupava anche di storia, diritto, filosofia. Sosteneva che nel carattere, nella storia, nel diritto devono ricercarsi le “strutture profonde” dei popoli, le quali sole possono, poi, dare senso e direzione alle forze sociali ed economiche. Nella sua visione, l’economia non ha alcuno spazio senza la priorità della politica intesa nella sua accezione più alta, nobile, “platonica”. Senza la politica, egli affermava, non può esistere neanche il mercato. Con riferimento critico alla cultura economica tedesca, soleva ricordare che una concezione a-politica o impolitica del mercato porta inevitabilmente  a «…  conseguenze gravi  (come) quando un solo paese … (pretende di imporre) la propria politica in vista dell’unico obiettivo della stabilità monetaria». Carli ragionava tenendo presente anche la storia e non solo la contabilità.

Angelo Polimeni ha ricostruito, nel suo libro “Non chiamatelo euro”, questa visione alternativa della moneta europea che Guido Carli, insieme a Giuseppe Guarino, portò avanti e che, fino a quando egli ha calcato la scena politica, ha costituito un freno alla visione ordoliberista germanica. Se la speranza di un’Europa politica dei popoli è naufragata è perché, come ha ricostruito il Polimeni, anche sulla scorta della testimonianza dell’ormai anziano Guarino e della nipote di Guido Carli, il Trattato di Maastricht, come era stato pensato secondo il progetto di Guido Carli, ha subito uno stravolgimento esegetico che ne ha progressivamente tradito e sostituito lo spirito solidarista in favore delle mire egemoniche tedesche assecondate dalla prospettiva impolitica di cui è permeata la tecnocrazia di Bruxelles.

Romana Liuzzo, nipote del banchiere e presidente dell’omonima Associazione, in un intervento apparso su Il Messaggero del 27 marzo scorso, ha così ricostruito l’accaduto: «… nella totale assenza di dibattito pubblico e senza passare per le istituzioni democratiche … Tutto o quasi si consuma in un breve lasso di tempo, dal ’95 al ’97, con la proposta tedesca di dare vita ad un patto di stabilità con sanzioni economiche per i paesi poco virtuosi. Mio nonno è morto da pochi anni e dopo di lui l’Italia assume un atteggiamento di progressiva soggezione rispetto all’Europa. Scrive Polimeno: “La Germania insomma, ora che Guido Carli, con tutta la sua autorevolezza, oltre che competenza, non è più della partita vuole assolutamente smontare la filosofia portante del Trattato di Maastricht”. E ci riesce. L’obbligo di sanzioni economiche viene inserito nel Trattato senza neppure una ratifica dei parlamenti nazionali. Nel silenzio complice della politica, l’Europa ha imboccato una strada senza uscita, quella dell’austerità. Lo spirito di Maastricht non esiste più e con quello se ne è andato il testamento di mio nonno e, temo, le speranze degli italiani. (…) la colpa non è dei governi che hanno portato alle conclusioni di Maastricht ma delle nuove leadership che non hanno espresso uomini adeguati a proseguirne lo spirito e che si sono appiattiti invece alle logiche meccaniche dei bilanci». La Liuzzo chiama questo appiattimento “euro tecnicismo” che è, appunto, l’arma tecnocratica germanocentrica dei falchi come Wolfgang Schäuble.

Dalla prima alla seconda globalizzazione

La prima globalizzazione operò tra il 1870 ed il 1914. Gli storici chiamano quel periodo “Belle Epoque”. Un periodo di grandi trasformazioni sociali connessi con la “seconda rivoluzione industriale” che provocò anche notevoli fenomeni migratori, dalle campagne verso le città come anche dall’Europa verso l’America. Le promesse dell’epoca erano le stesse di quelle di oggi: pace globale, libero scambio mondiale, aumento diffuso della ricchezza, benessere universale, cessazione del conflitto sociale. Insomma il “paradiso in terra”. Infatti anche quel primo globalismo aveva le sue radici culturali nelle correnti ereticali del millenarismo, del sogno della realizzazione in termini mondani, ossia intrastorici e non post-storici, del Regno di Dio. La differenza con l’antico millenarismo stava nel fatto che, ora, il Regno di Dio era diventato il “Regnum Hominis”.

Sappiamo come questo sogno è naufragato nelle trincee del Carso e della Somme. In quelle trincee l’Europa, ancora formalmente, cristiana scomparve definitivamente nel bagno di sangue della sua gioventù e nel crollo delle ultime vestigia imperiali. Seguirono i totalitarismi nazista e comunista nonché le rivoluzioni sociali e nazionali, ossia i fascismi, e, dopo il breve istante dei “ruggenti anni venti” nei quali sembrò, prima della crisi del 1929, che il sogno globalista potesse ancora realizzarsi, la nuova economia statual-interventista scientificamente preparata da J.M Keynes e politicamente impostata non solo dal New Deal di F.D. Roosevelt ma anche dai regimi fascisti come nel caso italiano. Si tornò al protezionismo per difendersi dagli effetti della crisi del ’29 ma, al tempo stesso, si iniziò a pensare ad assetti politici più ampi. Se, infatti, non si ragionava più in termini globali, tuttavia gli scenari geopolitici parlavano il linguaggio delle aggregazioni tra nazioni vicine per affinità storiche, culturali o anche ideologiche.

Il concetto, introdotto nella pubblicista gius-internazionalista da Carl Schmitt, di “Grossraum”, del “grande spazio”, fece scuola. Al tramonto dello Stato nazionale, inteso come realtà politico-spaziale territorialmente delimitata, un tramonto evidente per Carl Schmitt già nella realtà degli anni ’30 del XX secolo e tale da cantare il de profundis al nazionalismo provinciale, si tentò di rispondere mediante aggregazioni continentali tra Stati affini. Il “Nuovo Ordine Europeo” auspicato dall’Asse Roma-Berlino si poneva esattamente in questa prospettiva del Grande Spazio e per esso migliaia di uomini combatterono e si sacrificarono sui campi di battaglia, nel secondo conflitto mondiale. Ma anche il Patto Molotov-Ribbentrop, che delineava le sfere di influenza, nell’Europa dell’est, tra la Germania nazista e la Russia sovietica, rientrava nella logica del grande spazio, come del resto nella stessa logica deve essere annoverata l’intesa angloamericana (con l’aggiunta tardiva della Francia) tra le “Nazioni Unite” poi sviluppatasi negli accordi di Bretton Woods che regolarono l’economia dell’Occidente fino al 1971 ossia nel periodo del confronto con l’altro “grande spazio” formatosi, dopo il 1945, in Oriente ossia quello tra Paesi comunisti del Patto di Varsavia.

Nel mondo bipolare uscito dal secondo conflitto mondiale, la stessa Comunità Economica Europea, la Cee, antesignana dell’Unione (Monetaria) Europea, pur stabilmente inserita, fino al 1989, nel solo versante occidentale, corrispondeva al concetto del “grande spazio” benché, nel suo caso, in senso del tutto impolitico, preparando, in tal modo, il disastro di una unione concepita solo come mercantile, monetaria e bancaria e senza alcuna prioritaria Autorità Politica confederale.

La questione cruciale per tutti gli aggregati spaziali che andarono delineandosi sin dagli anni ’30, anche e forse soprattutto per quelli liberal-democratici vista la loro pretesa umanitaria di “giustizia”, sta tutta nel fatto che detti aggregati si sono formati inevitabilmente intorno ad una Potenza egemone, ad una leadership nazionale più forte delle altre che subordina i partner ai propri strategici interessi. E’ stato così nel caso dell’Europa hitleriana, la cui strategia politica ed economica, anche prima della guerra, era finalizzata all’egemonia tedesca sugli stessi alleati (ed a questo servì lo stesso, sotto altri profili intelligente, strumento della definanziarizzazione, mediante il ricorso al baratto tra nazioni, degli scambi commerciali tra Germania ed alleati). E’ stato così nel caso di Bretton Woods che sancì l’egemonia americana mediante l’imposizione del dollaro, contro il parere di Keynes, quale moneta di riserva per gli scambi commerciali tra Paesi dell’Occidente. Lo stesso dicasi per il Patto di Varsavia fondato sull’egemonia della Russia sovietica nonostante la dichiarata egalitaria fratellanza tra i popoli socialisti. Ed anche nel caso dell’Unione Europea, grazie anche al vuoto politico che ne ha visto la nascita e lo sviluppo, alla fine, nonostante ogni retorica democratica, ha prevalso l’egemonia, ancora una volta, della Germania in versione ordoliberale che dell’austerità ha fatto lo strumento  di dominio e di ricatto verso gli altri europei: almeno fino a quando durerà.

La radice millenarista della concezione globalista non scomparve nel periodo 1914-1980, ossia nell’epoca dei “Grandi Spazi”. Essa continuò, carsicamente, a sostenere l’ideologia dei due grandi blocchi, quello liberal-capitalista occidentale e quello comunista orientale. Dopo il 1989 essa tornò di nuovo sulla scena sull’onda della prospettiva neo-hegeliana, annunciata nel 1990 da Francis Fukuyama, della “fine della storia”. Al politologo nippo-americano replicò, immediatamente, Samuel Huntington il quale, con evidente disincanto, additò, al contrario, nel profilarsi dello scontro tra le sei civiltà, quindi i sei grandi spazi, che calcano attualmente la scena della seconda globalizzazione, il futuro dell’umanità (qui non prendiamo in considerazione le aporie di Huntington nel definire i contorni delle civiltà e soprattutto nel definire i contorni della supposta “civiltà occidentale euroamericana” ma dichiariamo tutta la nostra distanza dalle strumentali costruzioni huntingtoniane circa detti contorni). Tuttavia nonostante Huntington, la seconda globalizzazione, iniziata in sordina a partire dagli anni ’80 del secolo scorso e giunta a maturazione tra il 1989 ed il 2008, ha riproposto lo stesso scenario della prima: grandi trasformazioni sociali accompagnate dalle medesime promesse di  pace globale, libero scambio mondiale, aumento diffuso della ricchezza, benessere universale, cessazione del conflitto sociale – insomma, ancora una volta, la promessa del “paradiso in terra” – tuttavia indotte, questa volta, non più dalla industrializzazione, come nella prima globalizzazione, ma della “rivoluzione tecnologica informatica” che ha fortemente contribuito, sotto il profilo tecnologico, alla deindustrializzazione ed alla finanziarizzazione dell’economia globale. Non sappiamo ancora se anche la seconda globalizzazione naufragherà in un qualche devastante conflitto planetario, ma sappiamo già che l’utopia globalista, anche questa volta, è stata travolta dalla crisi economica mondiale, esattamente come nel 1929.

Insieme a quella economica va, però, profilandosi un’altra crisi, quella indotta dai nuovi fenomeni migratori di massa. Se durante la prima globalizzazione le migrazioni seguirono il percorso campagne verso città ed Europa verso America, ora, anche a causa della dissennata politica americana nel nostro Vicino Oriente, il percorso è dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.

Ha scritto Giorgio Arfaras su La Stampa del 9 marzo scorso: «… si prendano i numeri del periodo che è intercorso fra la caduta del Muro di Berlino e l’apice dell’ottimismo poco prima della crisi in corso. Quindi i numeri dal 1988 al 2008. Osserviamo il tasso di crescita cumulato dal reddito dei più poveri, di chi sta in mezzo, e dei più ricchi. I poveri dei Paesi mai emersi – come in Africa – sono rimasti tali, mentre i poveri dei Paesi emergenti – come in Cina – non sono più tali, avendo beneficiato di una crescita spettacolare del proprio reddito. Il ceto medio dei Paesi ricchi – quello dei Paesi occidentali e del Giappone – ha avuto un reddito stagnante (ma ha conservato, quando ha conservato, il precedente tenore a debito ossia indebitandosi con un sistema finanziario liberalizzato e globalizzato, nda), mentre i ricchi dei Paesi sia emersi sia emergenti sono diventati ancora più ricchi. I primi venti anni della Seconda Globalizzazione … non ha favorito gli africani, ha favorito i cinesi, non ha favorito il ceto medio dei Paesi già ricchi, ed ha fatto diventare ancora più ricco chi già aveva un reddito elevato. Perciò la classe media non è stata penalizzata a livello mondiale – quella cinese e di molti Paesi asiatici è molto più ricca – ma lo è stata solo nei Paesi che – agli inizi della seconda globalizzazione – erano già ricchi. Anche se il reddito del ceto medio dei Paesi ricchi non è cresciuto, il suo livello è ancora (e di molto) maggiore di quello dei Paesi poveri. Si ha quindi un incentivo a migrare dai Paesi poveri a quelli ricchi, Circa l’ottanta per cento della popolazione della Costa d’Avorio vive peggio del cinque per cento degli italiani più poveri. I tedeschi poveri vivono meglio degli italiani poveri, ma i tedeschi e gli italiani hanno circa lo stesso reddito man mano che diventano più ricchi. L’“arbitraggio” in prima battuta fra Costa d’Avorio e Italia, e poi fra Italia e Germania è perciò economicamente razionale per un abitante della Costa d’Avorio. Anche se resterà sempre povero, vivrà meglio in Italia e ancor meglio in Germania che nel proprio Paese. E se fosse molto ricco nel Paese d’origine? Avrebbe comunque un reddito in linea con quello dei numerosi italiani meno ricchi. Con queste differenze di reddito fra Paesi – i poveri italiani vivono molto meglio dei poveri della Costa d’Avorio, e quando anche sono meno poveri hanno lo stesso reddito dei ricchi della Costa d’Avorio – sarà difficile che gli sbrachi si fermino. Le ondate migratorie si possono fermare con lo sviluppo economico. Questa è una soluzione che – semmai si materializzasse – richiederebbe molto tempo. Non è facile che l’abitante della Costa d’Avorio stia nel suo Paese scommettendo sulla crescita che potrebbe palesarsi in venti anni. Intanto emigra, e poi si vede. Lo sviluppo economico trasforma l’economia, sorgono nuovi settori, si chiedono nuove competenze. Si pensi quanto l’informatica diffusa abbia trasformato le prenotazioni dei viaggi, degli alberghi, gli sportelli bancari, e via dicendo. Prima o poi si avrà l’impatto dell’informatica anche nel settore pubblico. La “grande trasformazione” oggigiorno è la meccanizzazione della manifattura (avviata da tempo) e dei servizi (in corso). La grande trasformazione di ieri nell’agricoltura (l’uso dei fertilizzanti e dei trattori) spinse i contadini ad emigrare nella città per lavorare nelle fabbriche. Ma gli operai e gli impiegati di oggi dove possono andare? In conclusione, il malessere diffuso intorno alle condizioni di vita del ceto medio dei Paesi ricchi e intorno alle ondate migratorie ha fondamento. Ed ecco che emerge la tentazione di trovare la soluzione più semplice, quella di erigere muri e tornare al protezionismo».

La conclusione di Arfaras pone un drammatico problema epocale. L’automazione della produzione produrrà milioni di disoccupati tra il ceto operaio ed il ceto medio. Il processo iniziò in sordina negli anni ’80 e con la globalizzazione sta ora esplodendo. Fino a quando la questione interessò solo il ceto operaio, impiegati e liberi professionisti se ne disinteressano continuando ad appoggiare, elettoralmente, le politiche globalizzatrici dei governi liberali. Ora però che il fenomeno tocca anche il ceto medio quest’ultimo reagisce invocando protezionismi ed abbandonandosi alla tentazione xenofoba. Tuttavia una reazione del genere sarà del tutto inutile di fronte a processi in atto, certo anche voluti – la globalizzazione è stata avviata firmando trattati internazionali – ma sicuramente difficili da arrestare.

La questione, pertanto, deve essere affrontata sotto un altro profilo ossia ponendo ai globalisti la domanda: se l’automazione contrarrà i posti di lavoro, e di conseguenza il reddito da lavoro, chi mai comprerà i prodotti che escono dalla industrie robottizate? In altri termini, il globalismo va inchiodato al dato di fatto che l’automazione comporta la contrazione della domanda aggregata, la quale è il vero motore dell’economia perché è la domanda a creare l’offerta e non il contrario, sicché l’automazione porterà, alla fine, al tracollo del capitalismo terminale. Tanto è vero che, a sinistra, c’è già chi pensa, come Tony Negri, che l’automazione sarà la via post-moderna per la realizzazione del comunismo mondiale e la rivincita di Marx.

Comunque sia, l’automazione comporterà problemi di non poco conto perché, a differenza delle trasformazioni tecnologiche intervenute nel passato, quelle oggi in atto non producono nuovi posti di lavoro e nuove professioni sostitutive di quelle che vengono cancellati dalle innovazioni tecnologiche. Se in passato i vetturini furono sostituiti dai macchinisti e le carrozza a cavallo dal treno, oggi il lavoro industriale, un tempo manuale, viene automatizzato senza che nascono nuove competenze in misura eguale a quelle che scompaiono: per far funzionare una fabbrica automatizzata bastano una decina di tecnici specializzati al posto di centinaia di impiegati ed operai resi del tutto inutili dall’automatizzazione. Né c’è seria speranza che i posti persi possano essere recuperati nell’indotto, perché l’automazione ha proprio questo come sua essenza: rendere inutile il lavoro umano per sostituirlo definitivamente con il robot.

Di fronte ad uno scenario come questo, si dovrà necessariamente prendere in considerazioni sistemi di redistribuzione della proprietà e del reddito alternativi. Si dovrà in primis pensare alla diffusione più ampia possibile della proprietà industriale della produzione automatizzata. Qui sicuramente i comunisti si faranno avanti intravvedendo nella contraddizione del capitalismo terminale l’occasione storica della abolizione della proprietà, inizialmente mediante la statizzazione e poi mediante la mera scomparsa della proprietà stessa insieme allo Stato dissolti, secondo la prospettiva marxiana, entrambi nell’“umanità nuova socialista” operante sulla rete globale della redistribuzione spontanea del profitto della produzione associata. Ma questa utopica soluzione sarebbe più dannosa del male al quale così si crede di rimediare ed aprirebbe, di nuovo, le porte ad un esperimento sociale distruttivo e “luciferino” quanto il capitalismo autoreferenziale che pretenderebbe di sostituire e del quale invece è filosoficamente figlio.

La soluzione da perseguire, al contrario, è quella del più ampio distributivismo proprietario, della più ampia possibile partecipazione popolare alla proprietà delle industrie automatizzate. Soluzione che mette in gioco immediatamente la Dottrina Sociale Cattolica ma anche la tradizione politica del comunitarismo e del patriottismo sociale. Le industrie automatizzate dovranno essere trasformate in complessi comproprietari appartenenti a tutti i membri delle rispettive comunità territoriali, locali e/o nazionali, di riferimento in modo che il profitto del ciclo produttivo sia redistribuito tra gli associati per diventare reddito a sostegno della domanda aggregata che crea la stessa offerta in futuro, appunto, automatizzata. Quindi non abolizione della proprietà ma la sua più ampia e partecipata diffusione popolare, in tutte le più idonee forme comproprietarie e di condivisione (“cum” ossia insieme: essere proprietari insieme di un bene e dividerlo assieme).

Al fianco del distributivismo comproprietario dovranno elaborarsi forme di reddito sociale garantito, tanto nella versione dei voucher per l’accesso ai servizi che in quella del reddito minimo o in quella del reddito di cittadinanza (non si tratta della stessa cosa ma di istituti tra loro differenti). In tal modo, ciascuno avrà un reddito spendibile a sostegno della domanda aggregata ed al tempo stesso potrà eventualmente scegliere, senza essere soggetto al ricatto della necessità, a quale tipo di attività vorrà dedicare la propria vita. Ma, al fine di non cadere nell’utopia, non si deve dimenticare che qualunque forma di reddito sociale garantito non può prescindere dal controllo politico della produzione ed erogazione della moneta, sia di quella legale che di quella bancaria, in modo che la redistribuzione reddituale avvenga secondo andamenti guidati endogeneticamente dalla stessa domanda e non sia imposta esogeneticamente dall’arbitrio di interessi settoriali dal lato dell’offerta.

(Continua)

Luigi Copertino