di Roberto PECCHIOLI
“Gli stupidi sono più temibili della mafia, del complesso militare-industriale o dell’Internazionale comunista. Sono un gruppo non organizzato, senza un leader o norme, ma nonostante ciò agiscono in perfetta armonia, come guidati da una mano invisibile. Si esprimeva così Carlo Cipolla, brillante docente pavese con cattedra a Berkeley nel suo testo più conosciuto, la Teoria della Stupidità, condensata in un libriccino intitolato significativamente Allegro, ma non troppo. Cipolla, economista, tratta la stupidità da un punto di vista strumentale, con leggerezza, lontano dalla seriosità accigliata dei moralisti e dei filosofi.
Che la stupidità sia diventata uno dei grandi temi – e problemi- del nostro tempo lo conferma Vittorino Andreoli, uno dei più grandi psichiatri internazionali, a sua volta autore di un preoccupato saggio, Homo stupidus stupidus. Insomma, che l’orgoglioso homo sapiens non se la passi bene, sembra evidente a molti osservatori qualificati. Noi stessi, da un punto di vista più basso, terra terra, lo constatiamo quotidianamente. Urge quindi una riflessione sulla stupidità umana, sulla sua sorprendente persistenza, sul fatto che dilaghi nonostante il sedicente progresso, la sedicente istruzione e in barba a tutti i luoghi comuni della modernità. La prima considerazione è una messa in guardia: serve autocritica. Chi scrive queste note e chi le legge non è affatto immune dal virus della stupidità. Ha soltanto una vaccinazione, incompleta per quanto potente: riconosce il problema, non lo sottovaluta e accetta di porre i suoi comportamenti, le idee e le convinzioni sotto il microscopio del giudizio e dell’umiltà.
Non abbiamo dimenticato una vignetta di un giornale satirico di tanti anni fa: due signori al museo osservano la ricostruzione dell’aspetto del primitivo homo sapiens. Sconcertato, uno dice all’altro: se questo è sapiens, figuriamoci l’ignorante! Il nostro stato d’animo è uguale: l’homo sapiens sapiens contemporaneo, alla prova della vita quotidiana, dà ragione all’ indagatore professionale della mente, lo psichiatra Andreoli: la regressione ad homo stupidus è impressionante.
Spirito gregario, credulità unita a granitiche certezze, una fiducia religiosa negli “esperti “e nella cosiddetta scienza, conformismo diffuso a livelli inaspettati, comportamenti e idee indotte che dilagano rapidamente- come altrettanti virus- in condotte di massa, indifferenza reciproca, una litigiosità su questioni minime che appare – ed è – una delle tante armi di distrazione di massa. In più, l’assoluta mancanza di senso critico: nessun sospetto che la stupidità sia indotta, alimentata, voluta dai padroni, addirittura l’incapacità di capire che i padroni del mondo esistono e sono diventati Dominio.
Andreoli conclude tristemente che oggi solo gli imbecilli possono essere felici. La sua diagnosi è severa: “Distruttività, frustrazione e insicurezza sono le caratteristiche del nostro tempo. “Siamo la società della paura e domina la cultura del nemico. Il nostro tempo non è violento, è distruttivo. Insieme con la distruttività, la caduta dei princìpi di sempre e assenza di misura sono alla base della crisi dell’uomo contemporaneo.
A un certo punto della sua vicenda, l’uomo si è distaccato dagli stadi precedenti, guadagnandosi la definizione di sapiens sapiens. Che ne è dell’uomo quando delega le sue funzioni ad appendici digitali, innescando una regressione che cancella ogni traccia del salto evolutivo per cui è stato definito sapiens sapiens, regredendo a stupidus stupidus? È questo, secondo Andreoli, il tratto che definisce la nostra società, l’abbandono alla parte pulsionale che conduce a un’inarrestabile morte della civiltà. Attraverso tre comportamenti sintomatici – la distruttività, la caduta dei principi alla base del vivere sociale e la dismisura – lo psichiatra arriva ad escludere l’uomo dall’ambito della sapienza, esortando a invertire la rotta e riaffermare i princìpi che permettono il procedere della retta ragione, la bellezza della cooperazione contro l’esasperato individualismo, l’integrazione di sentimenti e razionalità.
Nel 1985, gli scrittori torinesi Fruttero e Lucentini pubblicarono un micidiale affresco sugli sciocchi, La prevalenza del cretino. Non ebbero il tempo di conoscere l’onnipotenza delle reti sociali e il loro devastante contributo alla diffusione della stupidità. Se l’avessero potuta vedere, avrebbero parlato non di prevalenza, ma di schiacciante egemonia dei cretini. Una società che egli si compiace di chiamare molto complessa ha aperto al cretino globale infiniti interstizi, “crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra; gli ha procurato poltrone, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per realizzarsi”. Notava Guido Ceronetti che “se qualcuno è crocifisso, state sicuri c’è lì un cretino che pianta i chiodi, e li pianta benissimo, con intelligenza. “La stupidità, infatti, non significa affatto ignoranza o mancanza di intelligenza.
Sta di fatto che la stupidità batte largamente l’ingegno. La tesi di Carlo Cipolla è che la quantità di sciocchi è sempre sottovalutata – il che getta un’ombra sinistra su tutti noi – e che gli stupidi abbondano in ogni categoria umana, a nulla valendo cultura, intelligenza o posizione sociale. Qualsiasi ipotesi numerica in ordine al numero degli stupidi si rivela una sottostima, scrisse. Sempre e inevitabilmente, infatti, ognuno di noi non sospetta il numero di individui stupidi che ci sono al mondo. In genere ci si limita ad escludere se stessi dall’elenco.
La probabilità che una determinata persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica. Il cretino è rappresentato in tutti gli ambienti della società in proporzione più o meno uguale. Cipolla citò uno studio sul livello di stupidità nei quattro gruppi umani presenti nelle università: bidelli, impiegati, studenti e insegnanti. In quell’ analisi riscontrò che la distribuzione della stupidità era uniforme, indipendente dal livello educativo. Sia che uno frequenti circoli eleganti o si rifugi tra i cannibali polinesiani, che si chiuda in un monastero o decida di passare il resto della sua vita in compagnia di donne bellissime, resta il fatto che dovrà sempre confrontarsi con la stessa percentuale di persone stupide, concluse.
Lo stupido è chi provoca danni a un’altra persona o gruppo senza ottenere benefici o addirittura danneggiando se stesso. Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo degli sciocchi: dimenticano continuamente il pericolo che rappresentano. Per Carlo Cipolla, “le persone stupide sono pericolose e funeste perché alle persone ragionevoli risulta difficile immaginare e comprendere un comportamento stupido”. Il loro attacco coglie di sorpresa e, quando lo si subisce, è difficile organizzare una difesa razionale perché l’attacco stesso manca di razionalità. Poiché ne sottovalutiamo il potere, siamo vulnerabili, alla mercé della loro imprevedibilità. Talvolta pensiamo che lo stupido sia uno sprovveduto capace di danneggiare solo se stesso. Convinti di ciò, abbassiamo la guardia, finendo per diventarne vittime e, in fondo, entrare a pieno titolo nella categoria degli stupidi.
Il cretino, non dimentichiamolo, è la persona più pericolosa che esiste. L’ intelligente sa di essere tale. Il cattivo è consapevole di essere cattivo. Lo sprovveduto è penosamente immerso nel proprio candore. A differenza di tutti questi personaggi, lo stupido non sa di essere stupido. Questo contribuisce a dare maggiore forza, incidenza ed efficacia alla sua azione devastante. Non è inibito dall’autocoscienza, dalla vergogna o da un esame razionale delle sue condotte. In realtà, non agisce, si limita a fare, e in questo è instancabile. C’è di più: il malvagio può cessare, per interesse o per altre ragioni, di essere tale, magari per qualche ora al giorno o in periodi particolari della sua vita. Ciò è impossibile allo stupido, la cui condizione è irreversibile e ininterrotta.
La quinta legge della stupidità enuncia la dura verità: lo stupido è il tipo umano più pericoloso che esista. Il paradosso di Cipolla è che se tutti i membri di una società si comportassero da malvagi a turni regolari, dandosi, per così dire, il cambio, la società e ogni persona rimarrebbero in perfetto equilibrio. Infatti, avvantaggerebbero se stessi e danneggerebbero gli altri alternativamente. La somma algebrica del bene e del male, per il professore di economia – che di conti se ne intendeva – risulterebbe zero.
In base a quanto esposto, i detentori del potere sono in genere malvagi, ma i loro agenti di basso e medio livello (governi, burocrazie, intellettuali di servizio, esperti di varia umanità) sono essenzialmente degli stupidi, e noi, ammettiamolo, più di loro, per il nostro candore e perché prestiamo loro fede. In base al teorema di Cipolla, tutto ciò non significa che siano – siamo- più o meno intelligenti. Avvertiva Gesù nel Vangelo “dai frutti li riconoscerete” e nel campo della stupidità questa sembra davvero una minaccia sinistra.
Anche lo scienziato-simbolo del secolo XX si pronunciò a proposito della stupidità. Ecco quel che pensava Albert Einstein: due cose sono infinite, l’universo e la stupidità, ma non sono sicuro della prima. Il primo grande letterato a studiare dettagliatamente la stupidità fu Gustave Flaubert, il romanziere francese autore di Madame Bovary e dell’Educazione sentimentale. Il suo ultimo romanzo, rimasto incompiuto, Bouvard e Pécuchet, è la storia di due inetti, due stupidi del XIX secolo intriso di positivismo, ottimismo e fede cieca nel progresso, quasi come il nostro presente.
Bouvard e Pécuchet è un monumento alla stupidità e poiché la stupidità è infinita e si declina in infiniti modi, Flaubert non riuscì a completare il suo enciclopedico romanzo. Lo colse la morte, ma è probabile che se fosse sopravvissuto, avrebbe attinto a una delle sue opere estreme e più brillanti per acutezza e leggerezza, il Dizionario dei luoghi comuni, in cui distrusse, lettera per lettera, parola per parola, l’intero campionario della sottocultura e dei pregiudizi del suo tempo, un autentico, imperdibile sciocchezzaio ordinatamente esposto dalla A alla Zeta. Bouvard e Pécuchet sono due copisti che si incontrano, simpatizzano e grazie a un’eredità, decidono di trasferirsi in campagna. Lì si improvvisano agricoltori, studiando i trattati che copiarono nella loro vita precedente, poi si dedicano a una serie infinita di altri tentativi, sempre con identico insuccesso.
Ogni impresa fallisce, in un viaggio avventuroso lungo tutto lo scibile umano, visitato con la superficialità e l’entusiasmo degli sciocchi. Nulla li ferma: si occupano di chimica, filosofia, storia, teologia, archeologia e di tutte le discipline in cui si sono imbattuti nella loro mediocre carriera di copisti. Negli appunti della parte incompiuta, Flaubert immagina che i due, preso atto della propria inadeguatezza dopo anni di sconfitte, si accingessero infine a copiare tutte le sciocchezze rintracciate nei libri e nei modi dire. Ce n’ è per tutti, a partire dall’illuminismo più materialista e ottuso, come l’affermazione tronfia di un La Mettrie, l’autore dell’Uomo macchina: “gli animali arriveranno a parlare; l’uomo infatti non ha sempre parlato. “
Bouvard e Pécuchet sono gli inetti – o gli sprovveduti- di Cipolla che penetrano nel territorio della stupidità gonfi di certezze. Pensano di poter affrontare i problemi sulla base di conoscenze superficiali, delle parole degli esperti che redigono manuali. Sono, in fondo, vittime di una sottocultura riduzionista che confonde il Bignami con la scienza e l’antologia con il capolavoro. Finti scettici, disincantati ogni volta ingannati da se stessi e dalla stupidità, i due amici, reduci da fallimenti seriali, finiscono la loro vicenda come l’avevamo cominciata: tornano copisti intenti a riprodurre pedissequamente la pseudo sapienza altrui. A differenza dello scrivano Bartleby di Melville, che rispondeva invariabilmente “preferirei di no” a ogni domanda o richiesta, Bouvard e Pécuchet rispondono sì ai malvagi, agli imbroglioni, allo spirito del tempo.
Assomigliano a chi cerca la cultura su Wikipedia e ancor più a chi è sempre convinto della versione ufficiale, della risposta più semplice, dell’idea dominante. Gregge soddisfatto della sua condizione. Oggi farebbero diligenti “copia e incolla” delle opinioni comuni, cliccando mille volte al dì “mi piace”, salvo gettare tutto nel cestino all’arrivo di nuove mode. Forse sarebbero collezionisti scrupolosi di informazioni spazzatura, custodi ed eroi delle “spam”.
Jorge Luis Borges definì il romanzo incompiuto di Flaubert un’opera “ingannevolmente semplice”, centrata sul problema dell’ignoranza, della conoscenza e dell’inettitudine. Homines stupidi, i due protagonisti sono il paradosso vivente dell’ignoranza e della credulità, due ingredienti esplosivi della stupidità. Nessun distacco critico, nessun vero ragionamento, nessuna capacità di intervenire sulla realtà. Flaubert, dal secolo XIX, parla a noi e di noi e ci fa riflettere sul fatto che l’idiozia non sta da una parte e l’intelligenza dall’altra. Come il vizio e la virtù, è bravo chi sa distinguerle, ed è forse questa la vera differenza tra l’intelligente e lo stupido. Da che parte stiamo noi stessi, è difficile saperlo.
Più facile è riconoscere la malvagità, la costante cattiveria del potere. Il reato più grave e più impunito è probabilmente l’abuso della credulità e della sprovvedutezza popolare, che ci rende utili idioti, stupidi in servizio permanente effettivo di lorsignori. Homo stupidus, burattino dei mascalzoni di ogni tempo, tanto inetto da accettare, generazione dopo generazione, la servitù volontaria. Quanto aveva ragione Voltaire a concludere che l’idiozia è una malattia straordinaria la cui vittima non è tanto chi ne soffre (ricordate Andreoli: solo gli imbecilli possono essere felici!), ma l’umanità intera.