DANTE E LA SEDE VACANTE
Come è noto la tesi di Cassiciacum, sulla quale si appoggiano i cosiddetti “sedevacantisti”, sostiene che, a partire da Giovanni XXIII e con più evidenza dal 7 dicembre 1965, la sede di Pietro sarebbe vacante a causa della rottura dottrinale intervenuta con il Concilio Vaticano II, in particolare con la dichiarazione conciliare “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa. Una rottura non solo non contrastata ma appoggiata dai Papi succeduti a Pio XII. In sostanza quello esercitato dai Papi conciliari sarebbe un mero papato materiale al quale non sarebbe conseguita la Grazia di stato propria del pontificato, che viene concessa da Cristo ai designati dal conclave se costoro non frappongono un ostacolo interiore. Che i Papi conciliari avrebbero opposto tale ostacolo, impedendo a Cristo di rivestirli della Grazia di stato e quindi dell’infallibilità, sarebbe dimostrato dal fatto che essi, secondo il sedevacantismo, insegnano dottrine eretiche e come tali in passato condannate. In questo non ci sarebbero distinzioni alcune tra un Papa Montini, un Giovanni Paolo II, un Benedetto XVI e l’attuale Pontefice. Pertanto le pronunce di detti Papi, come anche quelle del Vaticano II, non sono obbliganti per i fedeli, che quindi sarebbero senza Papa da sessant’anni. Qui non vogliamo entrare nel merito della consistenza di tale tesi: ci hanno già pensato altri meglio attrezzati. In proposito ci limitiamo soltanto ad osservare che essa è patentemente in contrasto con la promessa di Cristo per la quale Pietro è la Roccia, su cui è fondata la Chiesa, e che su questa Roccia giammai avrebbero trionfato le luciferine forze avverse – “inferii non praevalebunt” – anche quando nel corso della storia il Papato fosse stato in crisi. Cosa che è accaduta molte volte nello scorrere dei secoli.
Vogliamo invece prendere in considerazione come, ai suoi tempi, Dante Alighieri affrontò una analoga questione in ordine ai Papi, non troppo degni, sotto il cui pontificato il poeta visse. Dante aveva ben presente la distinzione ecclesiale tra ufficio e persona e che l’ufficio, in quanto incardinato nella Persona di Cristo, resta immacolato anche quando è rivestito da un soggetto umano indegno che tuttavia è nonostante tutto il legittimo Papa nel pieno del suo stato.
Va ricordato che Dante, negli ultimi anni della sua esistenza terrena, è vissuto anche sotto il pontificato di Giovanni XXII (ventiduesimo, attenzione!, non ventitreesimo, siamo nel XIV secolo) – lo cita, accusandolo di simonia, nella Commedia nei vv. 130-136 del XVIII e nei vv. 58-60 del XXVII cantico del Paradiso – un Papa di quelli della cattività avignonese, canonizzatore di Tommaso d’Aquino, che però sosteneva l’eretica tesi per la quale le anime non conoscono giudizio personale, subito dopo il trapasso, perché conosceranno soltanto quello universale attendendolo in una sorta di stato di sospensione ossia “sotto l’altare di Dio”. Egli sostenne tale tesi in tre pubbliche omelie tra il 1331 e il 1332, quindi nel pieno esercizio del suo magistero (che oggi, ma appunto solo oggi, viene considerato del tipo “ordinario”: ai tempi di Giovanni XXII la distinzione tra “magistero ordinario” e “magistero straordinario” non era affatto definita), e continuò a farlo fino all’ultimo. Solo il giorno dopo la sua morte fu rinvenuta una formale ritrattazione, in articulo mortis, ottenuta (qualcuno sospetta estortagli) dal cardinale Giacomo Fournier che divenne suo successore con il nome di Benedetto XII e che pose fine alla questione sollevata dal predecessore con la costituzione “Benedictus Deus” del 29 gennaio 1336. La tesi ereticale sostenuta da Giovanni XXII aveva qualche connessione con una matrice neoplatonica tanto è vero che tra le accuse rivoltegli ci fu anche quella di riproporre una dottrina catara. Con ciò probabilmente i suoi accusatori intendevano riferirsi alla concezione, appunto di origine platonica, della preesistenza delle anime. Una concezione che considera l’essere non un dono ma una caduta e dunque un male. Abbiamo ricordato la vicenda di Giovanni XXII giusto per dire che l’ufficio pontificale fu rivestito da soggetti non solo indegni moralmente ma addirittura eretici sotto il profilo dottrinario già prima, molto prima, del tanto detestato Vaticano II. Sicché la visione di quei tradizionalisti estremisti che sono i sedevacantisti, per la quale fino all’ultimo Concilio nessuna ombra dottrinaria mai macchiò il pontificato, non regge alla riprova storica.
Ma, tornando alla questione principale, la garanzia che, pur nella distinzione ecclesiale tra persona ed ufficio, sussista nella Persona di Cristo una unità effettiva dei rapporti tra ufficio pontificio e persona che lo riveste, è stata esaminata da un grande storico, Ernest H. Kantorowicz, in un’opera che è un classico della medievistica, proprio a proposito dell’approccio tradizionale di Dante al problema. La ricostruzione del Kantorowicz mette, a nostro giudizio, in luce la caducità, anche sotto il profilo storiografico, della recente tesi sedevacantista. Infatti il sommo poeta, nella Commedia, mentre fa dichiarare a san Pietro la vacanza della sede papale occupata, in quel momento, da Bonifacio VIII, un Papa che nell’ottica tradizionalista sedevacantista è stato del tutto ortodosso e quindi assolutamente legittimo anche sotto un profilo formale e non solo materiale, non esita a dichiarare, e difendere, in ordine ai fatti di Anagni, la legittimità dell’esercizio dell’ufficio pontificio da parte del pur avversato Papa Caetani.
Ma leggiamo direttamente il Kantorowicz: «La distinzione tra persona e ufficio si profila chiara e netta nell’opera di Dante, ed in effetti essa ricorre con una certa frequenza. Pensiamo, ad esempio, a come viene presentato Bonifacio VIII nella “Commedia”. Per Dante, papa Caetani era semplicemente “lo principe d’i novi farisei” che non guardò “né sommo officio né ordini sacri” in sé o in altri; che cinicamente esclamava: “lo ciel poss’io serrare e disserrare”; che dall’irato san Pietro è definito: “Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio/il luogo mio, il luogo mio, che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio”; che compare nel girone dei simoniaci in una posizione così ridicola – la testa conficcata in un foro nel terreno mentre gambe e piedi si agitano nell’aria – e che viene ancora una volta ricordato da Beatrice, nelle sue ultime parole a Dante, quando predice che anche Clemente V sarà gettato nei pozzi di Simon Mago e spingerà così ancora più in giù “quello di Anagni”. E, tuttavia, in quello stesso villaggio di Anagni e nel momento in cui Guglielmo di Nogaret e gli agenti di Filippo IV osavano mettere le mani su Bonifacio per catturarlo, questi appariva a Dante, per riguardo nei confronti dell’ufficio papale, come il vero vicario di Cristo, anzi come Cristo stesso: “veggio in Alagna intrar lo fiordaliso/ e nel vicario suo Cristo esser catto./ Veggiolo un’altra volta esser deriso; veggio rinovellar l’aceto e ‘l fele/ e tra vivi ladroni esser anciso”. Non essendo un donatista, Dante era ben lontano dal negare o diminuire l’effettività dell’ufficio anche se in un uomo che egli considerava indegnamente investito di esso. Dante aveva la più bassa opinione possibile di Benedetto Caetani, ma riconosceva senza esitazioni il vicariato di Cristo nei paramenti pontificali di cui Bonifacio era avvolto quando affrontò Nogaret e gli assalitori.» (1).
Il punto nodale della questione sta in questo passaggio del discorso di Kantorowicz «Non essendo un donatista, Dante era ben lontano dal negare o diminuire l’effettività dell’ufficio anche se in un uomo che egli considerava indegnamente investito di esso». Dunque un’ombra di sospetto “donatismo” sembra allungarsi sul sedevacantismo?
Luigi Copertino
NOTE
- Cfr. E. H. Kantorowicz, “I due corpi del Re” – L’idea di regalità nella teologia politica medioevale”, edizioni del Corriere della Sera, a cura di Franco Cardini, Milano, 2021, pp. 331-332.
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