di Roberto PECCHIOLI
A metà degli anni 70 del secolo passato, un ragazzo reduce dagli esami di maturità trascorreva un paio di settimane di vacanza nella remota Valbrevenna, entroterra genovese. I tanti paesini della vallata, bellissimi nelle loro costruzioni di pietra, i resti del forno comune, la chiesa ormai sprangata, ciascuno con il monumento ai caduti delle due guerre – tantissimi, lunghi elenchi strazianti di cognomi ricorrenti – erano già semi abbandonati. Qualche borgatella non contava più alcun abitante. Dissanguati dalla guerra, dall’industrializzazione della vicina città, ai nostri occhi adolescenti somigliavano alle spettrali immagini delle città fantasma del vecchio West viste nei film americani. Qualche alpino del posto, reduce di guerra, citava per analogia i libri di Nuto Revelli sui vinti, i valligiani delle alpi cuneesi decimati in Russia, i cui paesi non si erano più ripresi dalla morte dei giovani e dall’esodo a Torino delle donne in età da lavoro e da marito.
Valbrevenna, oltre 40 anni dopo, ha solo parzialmente tamponato il crollo demografico, ma l’intero comune conta meno di ottocento residenti, non pochi dei quali virtuali, poiché in realtà risultano domiciliati in città. Mille e mille altri paesi possono raccontare la stessa storia, che al ragazzo di allora rammentava una canzone di Sanremo del 1971, Che sarà, con la voce inconfondibile di José Feliciano e la versione dei Ricchi e Poveri: paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato, la noia, l’abbandono, il niente sono la tua malattia.
Negli anni immediatamente precedenti della pubertà, ci sembrava frutto di vecchiaia e incapacità di comprendere il nuovo una frase ricorrente della nonna, stupita del fatto che tutti i giovani andassero alle scuole superiori: ma se studiano tutti, chi andrà a lavorare? Un ‘altra osservazione della vecchia signora- che iniziò a lavorare a 8 anni e aveva allevato figli e nipoti – la capivamo ancora meno. Nel laboratorio sociologico inconsapevole che era diventata Genova, iniziava a manifestarsi una certa denatalità, la tendenza ad avere uno, massimo due figli, in anticipo sul resto d’Italia e d’Europa. Nonna Luigia, lettrice scrupolosa del quotidiano locale, era al corrente di tutto, e commentava nel suo dialetto antico: se non nascono bambini, finisce il mondo! Aveva ragione su tutta la linea, dall’alto di più di 80 anni di vita e dal basso di un’istruzione fermatasi alla seconda elementare di fine secolo diciannovesimo.
Adesso, i nodi sono venuti al pettine. L’Italia batte ogni anno record di denatalità, non è più così lontana o folle l’idea dell’estinzione biologica degli italiani di stirpe. Tutto ha un termine e l’eventuale fine del popolo italiano non sarà che un episodio nella storia umana. Si dà il caso, tuttavia, che si tratti della nostra storia, ed allora merita qualche riflessione in più, oltre l’indifferenza o il distratto de profundis di qualcuno. Mussolini usava affermare che il numero è potenza; forse sbagliava, ma il numero che scende è sicuramente impotenza. Non solo in termini culturali – una nazione il cui numero di membri cala disperde un patrimonio incalcolabile – e non solo in termini storici o sentimentali. Il nostro è il tempo del dominio dell’economia. Qui, davvero, il numero è potenza, il declino demografico impotenza.
Proviamo ad osservare un paese dei tanti del nostro territorio. Il calo delle nascite produce la chiusura di reparti di ospedale per concentrare i cosiddetti “punti nascita”, ma, a catena, significa il ridimensionamento e poi la chiusura delle scuole. Entro pochi anni, l’invecchiamento della popolazione porta alla cessazione di molte attività commerciali, l’inverno demografico costringe a concentrare altrove servizi essenziali, come le poste, i servizi sanitari, le farmacie, chiudere i commerci di prossimità. Le attività produttive tendono ad abbandonare il territorio, gli abitanti devono trasferirsi, persino gli anziani sono costretti ad emigrare, impossibilitati a rimanere in zone prive di servizi. E poiché il moto è “in fine velocior”, i fenomeni si manifestano e esplodono all’improvviso. Intere province, anzi regioni intere, in Italia e in Europa, si vanno svuotando a ritmi accelerati.
In molte città, chiudono i negozi e finanche diversi supermercati, sostituiti da attività gestite da stranieri, mentre si moltiplicano i negozi che vendono prodotti destinati agli animali domestici: figli no, canarini e amici a quattro zampe sì. L’immigrazione diventa l’unica possibilità di rigenerazione biologica, per quanto ci turbi ammetterlo. Pochi giorni fa, il presidente Gentiloni ha espresso una sgradevole e sgradita verità, a margine del vertice italo francese. Parlando dei flussi migratori, ha affermato “di quella gente avremo bisogno”.
E’ fin troppo evidente che le nostre classi dirigenti (politiche, culturali, economiche, finanziarie) sono le prime colpevoli di quanto stiamo vivendo, per cui non possiamo accettare i discorsi metà buonisti e metà rassegnati del primo ministro, ma dai fatti non si prescinde. Il 2018 che stiamo vivendo ci ricorda che è passato giusto mezzo secolo dal fatidico 1968, l’anno dell’ultima rivoluzione, sia pure incruenta, dei popoli europei e occidentali. Cinquant’anni sono tanti, tantissimi, in epoche caratterizzate dalla rapidità dei cambiamenti. Eppure, tutto cominciò lì, giusto una generazione dopo la fine di una guerra che mandò al potere il mercato e l’economia, l’apoteosi del secolo americano.
Il 68 iniziò e prese forma nelle università californiane e sbarcò poi a Parigi. Anticapitalistico, antiautoritario e antiborghese, si trasformò nella vittoria schiacciante di un capitalismo nuovo, ansioso di liberarsi di ogni limite posto dalle idee del passato. Marcello Veneziani sottolinea il declino post-sessantottino della famiglia e dell’amor patrio, dell’autorità e dei sentimenti religiosi, un cambiamento radicale che ha svolto il lavoro sporco utile agli interessi del capitalismo, di una nuova cinica borghesia predatoria traslocata nel progressismo di maniera e nel sinistrismo salottiero. Il 68 fu parricida, ma, prosegue acutamente l’intellettuale pugliese, “dopo aver sognato la società senza padri, fondò la società senza figli. Nacque collettivista, corale, orgiastico, ma finì individualista, egocentrico, narcisista.”
Cinquant’anni è anche il tempo entro cui la tradizione ebraica prescriveva la remissione dei debiti: sette volte sette, e tutto doveva ripartire da zero. Non è più possibile: siamo immersi nel debito e insieme nel presente. Non è un mondo per vecchi, ma neppure per bambini e ragazzi; un altro paradosso, mentre chiamiamo “il mio bambino” il cagnolino o il gatto di casa e ci auguriamo il rapido trapasso degli anziani della famiglia, tranne se la loro pensione mantiene noi, nostro figlio disoccupato o precario e qualcuno dei nostri capricci.
Paolo Gentiloni alza le mani dinanzi all’invasione dall’Africa, ma è il capo di un governo che si è vergognato di un’iniziativa, magari improvvisata e un po’ sgangherata nella forma come il “fertility day” promosso da Beatrice Lorenzin, ministro della Salute. Rilevato il solito assurdo di italiani che parlano tra loro in lingua straniera, come se mancassero, nel vocabolario, parole e sintagmi in grado di promuovere l’idea della fecondità, quella è stata comunque l’unica iniziativa che ha posto nell’agenda politica il tema decisivo della natalità: primum vivere. Nella città di Genova, amministrata da pochi mesi dal centrodestra, l’assessore alla cultura, una giovane di sentimenti assai liberal, ha autorizzato i dipendenti municipali a portare in ufficio i loro animali. Nuova cultura…
Per i bambini, per il figlio dell’uomo, nulla. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che anche le comunità immigrate in Italia vedono diminuire drasticamente le nascite, segno che è la nostra civilizzazione quella che respinge la vita, ed il contagio raggiunge tutti. Le cronache ci raccontano di una nazione in cui non solo mancano gli aspiranti operai o artigiani, ma che accusa carenza di medici. Troppo lunga la fase degli studi, tra laurea, specializzazione, anni di guardie e precariato, la chiusura di un Paese vecchio, sospettoso, escludente, dove si fa strada se si è figli di qualcuno o sodali di qualcun altro. Laureati in medicina che non possono curare i malati, dottori in giurisprudenza non abilitati alle professioni forensi, economisti impossibilitati ad aprire studi di commercialista e così via. Un’Italia a numero chiuso, tranne per chi arriva senza essere invitato. O forse sì, l’invito è implicito.
Un uomo di campagna, piccolo imprenditore agricolo, ci ricordava che per certi aspetti i tempi non sono così mutati. La raccolta delle olive avveniva a mano, nei soleggiati poggi di Liguria: occorrevano mani piccole e pazienza infinita. Dalle alte valli scendevano le giovani contadine povere; un duro lavoro a termine, quasi niente soldi, ma portavano a casa l’olio per la famiglia. Uguale era la condizione delle mondine padane. Oggi non ci sono più figli di contadini, tutti in città o a fondovalle a studiare per un futuro impiegatizio o professionale, quindi bisogna ricorrere agli stranieri. Lo sfruttamento è ancora peggiore, ma tutti vogliamo frutta, verdura e carne a buon mercato.
Contraccezione, aborto e pillole del giorno dopo mettono al riparo da gravidanze indesiderate per egoismo o carrierismo, ma chi mette al mondo dei figli sa che non potrà contare sul sostegno pubblico. Nessuna politica fiscale a sostegno delle famiglie, scarsi o nulli diritti sociali, farmaci costosi, gli asili e le scuole scomode, poche e lontane, orari difficilmente compatibili con il lavoro, imprenditori, anzi padroni, che non vogliono impiegate in gravidanza o con figli, orari di lavoro di molti settori che rendono difficile occuparsi dei bambini. Il doppio risultato negativo è la scarsità delle nascite e la crescita di generazioni iperprotette o lasciate a se stesse, bulli o bambocci. Chi volesse una prole numerosa (ce ne sono ancora, incredibilmente) ha anche il problema di trovare una casa abbastanza grande, che il mercato non offre più, tranne, ovviamente, per chi ha ampia disponibilità economica.
Un clima ostile alla vita unito all’indisponibilità diffusa ad assumere responsabilità a lungo termine. Pochi matrimoni, anche le convivenze sembrano in crisi, figurarsi se si accettano i figli, che, come i diamanti, sono per sempre e, ahimè, costano e durano più di cani e gatti. Nel fatidico 1968, Paolo VI scrisse la sua ultima enciclica, la Humanae Vitae. La Chiesa cattolica era stata sino ad allora la grande patrona e promotrice della famiglia, e il problematico papa bresciano, finito il concilio, intese ribadire gli insegnamenti di sempre, in materia di morale familiare e sessuale. La recezione dell’enciclica fu pessima, non solo nel mondo laico che si avviava a diventare antireligioso, ma nella stessa Chiesa, tesa all’inseguimento dello spirito dei tempi portato a termine mezzo secolo dopo dall’ex chimico argentino residente in Santa Marta con l’esito disastroso di chiese vuote, vocazioni in caduta libera e indifferenza generalizzata agli insegnamenti cattolici. Sbigottito, il povero Montini parlò poi del fumo di Satana penetrato dalla Chiesa, ma tacque sino alla morte avvenuta nel 1978, e l’enciclica rimossa è diventata il simbolo di un’istituzione che non crede più ai suoi principi.
A proposito del rapporto tra demografia negativa, crisi economica e decadimento civile di Europa e Occidente, è interessante l’opinione di Ettore Gotti Tedeschi, economista, banchiere, autore di libri importanti, esponente di punta della cultura cattolica molto vicino a Benedetto XVI prima e durante il suo papato. Gotti Tedeschi ha più volte sottolineato gli errori morali che hanno originato l’attuale crisi sociale, di cui stiamo sperimentando molteplici sfaccettature. Secondo colui che fu presidente della banca vaticana, povertà, disuguaglianze, migrazioni, squilibri geopolitici, fine della democrazia, esasperazione ambientalistica hanno le loro radici contemporanee “nel crollo delle nascite nel mondo occidentale, pertanto nel [crollo del] valore della vita.” E’ una convinzione maturata e motivata, a cui non è estranea la diserzione cattolica di cui è simbolo il rigetto diffuso della Humanae vitae”.
Sostiene Gotti che se potessimo tornare indietro, saremmo più ricchi e felici con più figli. Non ci sarebbero gli enormi problemi delle migrazioni, che avremmo potuto contenere ed assorbire in un sistema in crescita, né dovremmo fare i conti con lo scempio ambientale. Infatti, il sistema non avrebbe avuto la necessità di far esplodere il consumismo parossistico per compensare il calo del PIL dovuto alla perdita di popolazione. Non avremmo conosciuto il collegato fenomeno della delocalizzazione industriale. La disoccupazione sarebbe residuale, probabilmente il carico fiscale non supererebbe, in Europa, il 30 per cento.
Si può accogliere il pensiero di Gotti con perplessità, contestarne le conclusioni e i nessi di causalità, ma si tratta di una voce importante, che proviene da qualcuno che conta, uno che certamente ha partecipato a conversazioni e decisioni riservate delle élite. Per quanto riguarda la quota di denatalità legata agli aborti, in Italia ne sono stati praticati legalmente circa cinque milioni, proprio il numero di immigrati regolari censiti, segno che sussiste una relazione tra calo delle nascite e nuovi arrivi. Una parte rilevante dell’immigrazione è dunque sostitutiva delle fasce di popolazione carenti o mancanti. Con l’equilibrato succedersi delle generazioni per riproduzione naturale e moderato aumento progressivo della popolazione, la presenza di manodopera locale avrebbe mutato profondamente il panorama sociale, costretto il sistema capitalistico a venire a patti, reso più difficile l’attuale condizione di bassi salari, concorrenza al ribasso, fuga delle imprese, senza contare il drammatico buco della previdenza, dovuto alla prevalenza numerica degli anziani sui giovani.
Altrettanto, si può affermare che popoli coesi, in grado di trasmettere con la vita la propria eredità culturale e civile appreso rendono più difficile trasformare milioni di persone in docili consumatori, plasmarne gusti, idee, modi di vita. Prima, con il 68, hanno screditato ed abolito ogni tradizione e autorità, poi l’hanno sostituita con il mito del progresso, dell’individualismo, del consumo, della liberazione da ogni vincolo. Come ha capito Veneziani, aboliti i padri, vengono meno anche i figli. Le migrazioni, poi, comunque le si valuti, provengono sempre da popolazioni giovani, più decise, portatrici di speranza e di vita.
Esattamente il contrario del nostro angolo di mondo, ripiegato su se stesso, preda di paure, egoismi, incapace di guardare lontano. Per i giovani, il programma stabilito è quello del nomadismo come progetto di vita, dell’instabilità spacciata per opportunità, del consumo come valvola di sfogo. Consumo delle cose, delle persone, della vita. Il latino Terenzio scrisse nella commedia Phormio che la vecchiaia stessa è una malattia. Oggi sappiamo che è la verità non solo nella vita personale di ciascuno, ma anche nell’insieme delle comunità organizzate. Nell’Italia di oggi, la figura della badante è diventata centrale. Un esercito di donne povere, generalmente straniere, la cui occupazione è accudire una popolazione senescente e non più autosufficiente. E’ un cambiamento epocale, che lascerebbe sbalordite le nostre nonne, abituate piuttosto a bambinaie, ostetriche, giovani madri.
Il ciclo della vita si chiude non nel tramonto dell’Occidente, ma nella sua fine come autonoma civiltà. Un poeta e musicista contemporaneo, Giuseppe Benozzo, ha scritto a proposito della vecchiaia, di “graduale declino, un lento approssimarsi alla morte, una moltitudine di individui dai capelli bianchi che non può più far parte del meccanismo produttivo”. Colpisce, fa riflettere, ma non stupisce del tutto che l’acuta sensibilità dell’artista tocchi il nervo scoperto della nostra epoca, ovvero l’inutilità dell’anziano in quanto estraneo al processo della produzione. Non più il ciclo naturale dell’esistenza, ma la partecipazione o meno alla fabbricazione di cose. Produzione, ma non riproduzione. Abbiamo un esercito di badanti perché viviamo più a lungo, certo, ma soprattutto perché figli e nipoti sono assenti o inesistenti. E’ interrotto, per usare il lessico del deserto morale, il ciclo della produzione dei nostri discendenti. Il sistema che ha promosso tale catastrofe antropologica ha la soluzione: l’importazione massiccia di altri esseri umani. Chiederanno poco, almeno per una generazione, saranno facilmente manipolabili e sono già adulti.
L’oligarchia ha orrore di tutto ciò che è improduttivo, e i bambini lo sono più degli anziani. Devono essere accuditi per anni, sono un costo economico e sociale tremendo, diventano la ragione di vita dei genitori, che al contrario non devono essere distolti dalla lotta per la carriera e dal consumo. Meglio, molto meglio l’importazione di uomini e donne nel fiore degli anni. La logica devastante del denaro, del tornaconto, del bilancio agli azionisti non conosce vergogna.
Ma il numero, quando crolla, è impotenza. Stanno spingendo al suicidio gaio i popoli che più possiedono il pensiero critico, l’idea di persona, il senso del diritto. Il futuro non tanto lontano è quello che Wittfogel chiamò il dispotismo asiatico: un esercito spersonalizzato di lavoratori e consumatori eterodiretti dalla tecnica, un universo iperproduttivo e soffocante simile alla Cina, la potenza dominante del secolo. In questa parte del mondo, i ranghi si assottigliano a ritmo crescente, i giovani italiani ed europei sono una rarità, presto diverranno soggetti da museo di antropologia. Non siamo i primi, non saremo gli ultimi a scomparire dalla scena del mondo. Certo, siamo gli unici a farlo con allegria o indifferenza, una scrollata di spalle e via.
Nel passato, le popolazioni venivano decimate dalle carestie, dalle pestilenze, dalle guerre. Noi, più civilizzati, ce ne andiamo da soli, senza disturbare. In Svezia, metà della popolazione già vive e muore in perfetta solitudine, i figli, quando ci sono, si fanno i fatti loro, molti anziani lasciano in bella vista il denaro per le spese funerarie, che gli assistenti sociali faranno oggetto di apposita verbalizzazione e regolare ricevuta dell’ente competente. Il trionfo di un’ordinata impotenza: l’ultimo spenga la luce. Quella sì che è civiltà! Altrove, nel vasto mondo e grazie a Dio, la vita continua.
ROBERTO PECCHIOLI