di Andrea Cavalleri
In Italia, a partire dal 1970 con la legge Fortuna-Baslini e soprattutto dalla discussione pre-referendaria del 1974, si è aperta una stagione di riforme degli istituti sociali percepita nell’ottica dell’estensione dei “diritti civili”.
Il motore inarrestabile dell’avanzamento dell’agenda “liberale” è consistito nel fatto che il giudizio sul comportamento morale coincidesse col giudizio su di una scelta individuale e privata, e quindi incoercibile.
In pratica si diceva: “a prescindere dal fatto che io non farei mai una scelta simile, come posso costringere un altra persona a comportarsi secondo le mie idee?” o anche in questa altra forma: “come posso negare a una persona il diritto di compiere una scelta personale coerente con le sue categorie di valori?”.
Risposte morali e sociologiche e loro inefficacia.
La pista più battuta, in risposta a questa osservazione, è stata quella di convincere gli interlocutori che tra due possibili scelte una fosse giusta (o più giusta) e l’altra sbagliata.
Non cito nessuna argomentazione in proposito, perché filosofi ben preparati ed opinionisti di spicco hanno già esposto il meglio che si potesse produrre in materia.
Noto semplicemente che questo sforzo, pur doveroso, restava perdente in partenza, dal momento in cui si applicava a comportamenti percepiti come privati e individuali.
A quel punto, considerare una scelta giusta, non solo per sé ma anche per colui che la rifiuta, non autorizzava ad imporla.
Del resto sia il relativismo dilagato in campo religioso, sia lo scollamento tra morale e politica, maturato grazie a guerre, rivoluzioni, corruzione e anche al non expedit, avevano preparato il terreno a questo esito.
E l’esito fu estremo fin dal principio, dato che si partì dal divorzio (l’atto meno individuale e più collettivo rispetto a quelli successivi dell’aborto o dell’eutanasia) e, profeticamente, dalla legge Basaglia, che aboliva i manicomi.
La legge 180 del 1978 infatti eliminava la pericolosità del paziente come causa della cura coatta, ponendo di fatto la stessa follia nel novero dei possibili motivi di una scelta comportamentale.
In pratica, alla domanda: “perché fai così?” diventava indifferente rispondere: “perché è razionale”, “perché è giusto”, “perché mi piace”, o “perché sono pazzo”.
Il più paradossale trionfo del relativismo!
Più interessante la risposta sociologica: ovvero il riscontro degli effetti che una data liberalizzazione produce sulla società. In quel caso non si parla né di valori né di opinioni, ma di fatti correlati al provvedimento. Le indagini condotte con questi metodi hanno sempre fornito risposte piuttosto chiare e convincenti in merito agli effetti di certe leggi.
Il punto debole dell’approccio sociologico è che le statistiche necessarie a fornire un quadro della situazione richiedono anni, dopo che la legge è stata fatta.
Un aiuto può giungere dall’estero, ove certe norme siano in vigore da un tempo precedente all’introduzione della legge nel Paese, anche se il cittadino autoctono tende a sottostimare la validità di tali studi perché provengono da un contesto diverso dal suo.
In ogni caso, per quanto difficilmente tempestivo, l’argomento sociologico è temuto dai liberalizzatori, che cercano di mantenere il silenzio in merito. Lo dimostra la stampa liberale (praticamente tutta) che concentra il suo massimo sforzo nell’esemplificazione di casi emotivamente coinvolgenti, e comunque nel mantenere la discussione nell’alveo del dilemma giusto-sbagliato, sicura fonte di avanzamento dei diritti, per i motivi esposti sopra e ancor più per provata esperienza.
I diritti.
In genere, col termine si indica l’insieme delle prerogative e delle libertà di cui godono le persone fisiche. Alcuni sono connaturati alla persona, ad esempio la vita, e in questo caso il riconoscimento del diritto è passivo (la persona ha il diritto di non essere privata della vita), altri invece riguardano benefici che vengono positivamente erogati al titolare del diritto (come quelli pensionistici).
I presupposti più importanti di un diritto sono due: che sia possibile e che sia giusto.
Sull’argomento della giustizia soprassiedo, come ho dichiarato nell’introduzione, vorrei però soffermarmi sull’argomento della possibilità, che genera conseguenze tangibili.
Ad esempio, può apparire evidente che promulgare il diritto ai cittadini di respirare sott’acqua sia un’opzione impossibile, in quanto gli uomini non hanno le branchie come i pesci.
Ora, a parte i diritti intrinseci della persona (come la vita), che prevedono un riconoscimento passivo, da chi sono garantiti i diritti positivi?
Tutti i diritti che prevedono un beneficio materiale o legale sono garantiti dallo Stato.
Ma lo Stato non è un deus ex machina dalle risorse illimitate, è solo un’organizzazione dei cittadini, particolarmente evoluta e strutturata. E le risorse che lo Stato eroga sono fornite dai cittadini stessi. E anche in merito ai diritti di tipo legale, se talvolta, in prima battuta, appare che regolino i rapporti tra un cittadino e lo Stato, in ultima analisi regolano i rapporti tra un cittadino e tutti gli altri cittadini.
Cosa significa tutto ciò?
Significa che il diritto di uno è garantito da un qualche dovere che si assumono tutti gli altri.
Un esempio già citato, quello dei diritti pensionistici, è molto evidente e si regge sul dovere di pagare le tasse, imposto a tutti i cittadini.
Ma anche prendendo in esame un caso che balza meno all’occhio si noterà che la dinamica è identica. Nel caso della famiglia se un coniuge ha il diritto di essere amato, rispettato, soccorso e curato è perché l’altro si è assunto il dovere di farlo. Se i figli hanno il diritto di essere mantenuti ed educati è perché i genitori ne hanno il dovere (al punto che se mancano gravemente a tal riguardo possono essere privati della patria potestà). Se la crescita dei figli è dispendiosa e lo Stato la aiuta con sgravi fiscali è perché la società si è assunta il dovere di sostenere il processo di formazione (fisica e culturale) dei nuovi cittadini. Se la famiglia ha un diritto di privatezza e di una certa libertà nel regolare i propri rapporti interni è perché tutti gli altri considerano un dovere il rispettare questa riservatezza.
Conseguenze.
Le conseguenze di questa visione politica dei diritti sono fondamentalmente due.
La prima è che a riguardo dei diritti non esiste una posizione passiva e neutrale.
Non è possibile immaginare di “lasciar fare” qualcosa a qualcuno senza esserne personalmente coinvolti, infatti al diritto di qualcuno corrisponderà necessariamente qualche dovere mio.
Lo si è visto bene a proposito dell’aborto, al cui riguardo anche coloro che “non l’avrebbero mai fatto”, contribuiscono attivamente a farlo tramite le tasse che pagano.
La seconda conseguenza è che ogni concessione di un diritto altera la struttura di tutta la società, pertanto non ha senso considerare un singolo diritto come soddisfazione di una singola aspirazione, perché quando si concede una libertà si avviano cambiamenti complessi che, per essere compresi, bisogna esaminare globalmente.
La prima domanda che bisogna porsi, quando si pensa di concedere un diritto a qualcuno è: “che doveri genera per gli altri?” E non bisogna dimenticare che “gli altri” potrei essere io. Quindi non è sufficiente immaginarsi di essere nella situazione di chi esercita il diritto per valutarne l’effetto, ma bisogna immaginare anche di essere nella situazione di chi garantisce quel diritto sopportandone i simmetrici doveri.
Prendiamo ad esempio il divorzio.
In prima battuta, pensando solo alle possibilità, sembrerebbe un buon affare: se mi separo non resterò solo, ma mi rifarò una famiglia.
Se si guarda anche agli obblighi la situazione cambia drasticamente. Vediamoli.
Primo, se il mio coniuge vuole lasciarmi potrà farlo a man salva (non pagherà il dazio della solitudine o dell’irregolarità), quindi sarà molto più facile separarsi e io avrò il dovere di subire l’accresciuta instabilità del mio legame.
Secondo, mio marito/mia moglie potrà essere corteggiato/a da altre persone e io sarò costretto a accettare la situazione, dato che l’aspirazione a sposare una persona precedentemente coniugata diventa legittima.
Terzo, in caso di separazione i miei figli potrebbero passare la maggior parte del tempo con un altro pseudo-genitore e io avrei il dovere di stare a distanza e assistere impotente alle loro sofferenze e alle difficoltà psicologiche, relazionali ed educative che vivrebbero.
Quarto, se non sono ancora sposato, oltre ai rivali single nel corteggiamento, avrò l’obbligo di accettare la concorrenza di quelli separati, rendendo più difficile l’accoppiamento in assoluto (situazione che può essere molto penosa per quelle persone di valore che esercitano modeste attrattive sul sesso opposto) e in particolare con la persona desiderata.
Quinto, in situazioni fluide di famiglie allargate si genera confusione sul “chi si occupa di chi”, quindi, grazie al divorzio, ci si assume anche l’onere di una vecchiaia con forti probabilità di abbandono.
Se si paragonano i benefici del diritto con i costi dei doveri corrispondenti, possiamo ancora giudicare il divorzio un buon affare?
Conclusioni.
La prospettiva soggettiva individuale nel giudicare la convenienza dei diritti è un puro imbroglio.
Chiedersi, a proposito di qualche categoria di casi umani, “ma il tale avrà il diritto di?” è come entrare in un negozio e chiedersi se un certo articolo non sarebbe bello, trascurando il piccolo dettaglio che quell’articolo ha attaccato un cartellino e, se lo porto via, dovrò pagarne il prezzo.
Ogni volta che si prospetta la concessione di un diritto, bisogna per lo meno chiedersi quanto costa e chi paga.
Infine bisogna considerare che le politiche liberalizzatrici si scontrano con il paradosso dei diritti.
Se infatti ogni diritto è garantito da una somma di doveri corrispondenti, la moltiplicazione dei diritti genera una tale moltiplicazione dei doveri, da rendere lo stesso godimento dei diritti una chimera: se ciascuno vuole fare come vuole, nessuno potrà fare come vuole.
Esprimendo il concetto con una frase di stile filosofico, si può dire che la frammentazione del criterio morale nel momento di autocompiacimento soggettivo lo rende utopistico.
Quindi credo che la risposta politica sia l’uovo di colombo che permette di confutare, pur con quarant’anni di ritardo, il disastroso ragionamento del “io non lo farei mai, ma non posso proibire agli altri di farlo”.