Oggi all’Ambasciata russa a Roma verrà ricordato il bicentenario della nascita di Fedor Dostoevskij, il testimone più acuto dell’epoca che ha perso Dio senza guadagnare umanità. Dostoevskij è ricordato per i suoi capolavori letterari, per alcune vicende biografiche come la condanna a morte e la grazia in extremis e per alcuni suoi pensieri che ancora balbettiamo nei nostri giorni: da “La bellezza salverà il mondo” a “Se non c’è Dio tutto è permesso”, al terribile aut aut: “Tra Cristo e la Verità scelgo Cristo”. Un’alternativa impossibile per un credente, giacché in Cristo s’incarna la Verità e dunque coincidono; se scegli l’Uno alla fine ti ritrovi l’altra, e viceversa. La stessa cosa si può dire a contrario per un vero miscredente perché nega Cristo ma anche ogni Verità assoluta.
Vorrei soffermarmi sulla sua implacabile diagnosi del nostro tempo e sulla sua polemica con i progressisti umanitari; partendo non dalla Russia ma dall’Italia. Dostoevskij ha parole di fuoco sull’Italia da poco unita sotto il regno dei Savoia: “L’Italia, un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valori universali, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese ‒ un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di un volta) e per di più pieno di debiti non pagati…” Queste pagine sembrano scritte da un borbonico o da un asburgico e invece sono i pensieri di Dostoevskij nel Diario di uno scrittore del 1877. Non c’è però disprezzo verso l’Italia, anzi c’è il confronto tra la grandezza universale e spirituale dell’Italia grande e la piccineria borghese dell’Italietta unita.
Infatti lo scrittore proseguiva: “Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo; l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano di essere i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale”. Questa visione di Dostoevskij, che evoca il de Monarchia di Dante e il Sacro Romano Impero, si estendeva poi all’Europa, di cui criticava la subordinazione alla borsa e al credito internazionale. Pagine profetiche a giudicare dai nostri giorni.
Dostoevskij indagò sull’uomo del sottosuolo a cui dedicò le celebri Memorie. Quel cupo senso di oppressione, quella mancanza di cielo come asfissia, quella vicinanza agli inferi; un senso della terra concepito a rovescio, non legame concreto col suolo su cui siamo piantati e camminiamo, ma un carcere e un soffitto incombente sulle nostre teste che impedisce la libertà, costringe all’introspezione e toglie il respiro. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij non si redime con la rivoluzione, abbattendo il sovrano o il potere; perché l’alienazione più vera sorge dalla separazione dell’anima dalla vita, dell’eternità dal tempo. Dostoevskij critica l’utopia rivoluzionaria e cosmopolita che procede “verso il regno astratto di un’umanità universale che non è mai esistita in nessun luogo, e così facendo taglia ogni legame col popolo”. È una critica ante litteram al bolscevismo, una critica che diventò profezia per il ‘900. Questa gente “sostanzialmente astratta” scrive in una lettera a Griscenko, esprime “uno sconfinato amore per l’umanità, ma solo se considerata in generale. Ma poi, se l’umanità s’incarna in un uomo concreto, in una persona, allora essi non sono capaci di tollerarla” anzi provano avversione. Analoghi pensieri aveva espresso Giacomo Leopardi sul cosmopolitismo.
In un’altra lettera a Strachov, Fedor fustigava il sogno rousseauiano e illuminista “di rifare daccapo il mondo sulla ragione” o sull’idea di una natura astratta, fino a tagliare le teste, perché è la cosa più facile, non potendo cambiarle. L’amore per l’umanità, scrive Dostoevskij, è inconcepibile senza la simultanea fede nell’immortalità dell’anima. Senza quella prospettiva i legami con la terra si spezzano e la perdita di una vita ulteriore porta al suicidio o al delitto: “perché dovrei astenermi dallo sgozzare il prossimo, dal rubare, o dal rifugiarmi nel mio guscio?” scrive a Ozmidov.
Tesi che lo scrittore ribadì anche al Congresso della Pace di Ginevra, indetto sotto l’egida massonica e socialista (vi partecipò anche Garibaldi). Dure le sue critiche al socialismo che recide tutti i legami e sostituisce la carità con la violenza; ma aspre pure le sue critiche all’usura, con punte antisemite, al potere economico e ai circoli finanziari; alla “barbarie del comfort” e alle elites atee e cosmopolite, “tutti questi liberalucci e progressisti”.
A queste figurazioni del nichilismo Dostoevskij oppone l’idea di un risveglio religioso, nazionale e popolare, un vero e proprio risorgimento dell’anima russa. “Come l’oro si forgia col fuoco”, così non può esserci resurrezione senza croce e senza dolore. Quella terribile visione fa di Dostoevskij un profeta tragico, apocalittico, lontano dall’umanità presente e pure vicino alla ragione più profonda della sua crisi. Di Dio a Fedor restò la sete, il tormento e l’inquietudine. Così si ritrovò riverso per terra, come dopo una delle sue crisi epilettiche, ad aspettare invano la Sua visita e la visione mistica. Profetico Fedor, tra l’attesa di Dio e la visione del nulla. La religione in Dostoevskij costeggia l’abisso, la sua fede è un urlo nero che non smette di scuoterci. Come Dante anche lui attraversò l’Inferno per risalire fino a Dio. Dantoevskij.
MV, La Verità (10 novembre 2021)