(Andrea Cavalleri)
Il fatto.
Il libro degli Atti degli Apostoli fornisce una celebre descrizione della prima comunità cristiana di Gerusalemme.
La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.
(Atti 4, 32-35)
Non può sfuggire il risvolto economico di questa situazione, al punto che la rinuncia alla proprietà privata dei primi discepoli fece insorgere alcune fantasiose pretese di concordanza tra il cristianesimo e il comunismo.
I motivi di questo atteggiamento vanno ricercati in un tentativo molto letterale di applicazione del comandamento dell’amore, della raccomandazione a non preoccuparsi per le necessità materiali
(Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Matteo 6,33) unito al fatto che tra i primi seguaci si era diffusa la credenza di un imminente ritorno di Cristo nella gloria, che avrebbe reso superflua ogni cura terrena.
Anche i precetti che Gesù diede ai settantadue discepoli inviati a predicare (Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede. Luca 10,7)
potevano suggerire il disinteresse per l’autosostentamento, dato che solo più tardi si capì che quelle parole erano riservate ai soli ministri.
Oltre a ciò, il caso di Anania e sua moglie, morti di colpo per aver nascosto del denaro
(vedi Atti 5, 3-10) di certo aveva prodotto un impulso che induceva i credenti a donare senza limiti e a non cambiare metodo.
Vero è che il magistero della Chiesa, tramite la sua voce più autorevole, cioè san Pietro, aveva proclamato che la punizione era stata comminata “per aver mentito a Dio e aver tentato lo Spirito Santo” non certo per aver trattenuto del denaro per sé. Anzi la legittimità della proprietà privata era stata ribadita nello stesso discorso: Prima di venderlo (il terreno NdA), non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? (Atti 5,4)
Ma la sensazione che il fatto aveva suscitato implicava delle conseguenze emotive che superavano una distaccata applicazione della dottrina.
In definitiva, per tutti questi motivi, la prima comunità cristiana si comportava in quel modo che a noi appare assai imprudente e quasi dissennato.
Tuttavia un versetto del brano citato all’inizio sembra indicare che la cosa funzionasse: Nessuno infatti tra loro era bisognoso…
Come è possibile che un gruppo di persone che smette di lavorare, produrre e guadagnare, viva nell’abbondanza? I risparmi a un certo punto finiscono e allora cosa si fa?
La spiegazione scaturisce da un altro versetto contenuto nel secondo capitolo degli Atti.
Anche il brano da cui è tratto descrive la prima comunità di Gerusalemme, che convive con la comunione dei beni e la vendita delle proprietà a beneficio di tutti, ma poi riferisce: Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati. (Atti 2, 48)
Quindi la comunità era in costante crescita numerica e i nuovi adepti, subentrando con l’apporto delle loro sostanze, producevano addirittura un incremento delle finanze generali.
Questo è dunque il primo caso storico, a mia conoscenza, dell’impiego di uno schema Ponzi, detto anche catena di sant’Antonio.
La falla del sistema, ben nota, consiste nel fatto che la crescita non può essere infinita; pertanto l’entusiasmo dei primi associati che vede aumentare la numerosità del gruppo in virtù di promesse molto generose, induce a dimenticare il ragionamento logico e a illudersi che il meccanismo funzioni. Poi, con il calo delle adesioni (in realtà è sufficiente che cali il tasso di crescita), le entrate scarseggiano, mentre l’impegno di spesa resta costante (e alto) e alle prime avvisaglie di penuria subentra anche la sfiducia che fa crollare definitivamente il sistema.
Probabilmente i farisei lo avevano capito, infatti, pur fornendo prove molto discutibili in materia di fede e di morale, di soldi se ne intendevano, dato che san Luca nel suo Vangelo dice di loro che erano attaccati al denaro (vedi Luca 16,14). E certamente ridevano sotto i baffi e le folte barbe, come avevano improvvidamente fatto all’indirizzo di Gesù.
Le conseguenze immediate del fatto.
Come andò a finire l’esperimento della comunità gerosolimitana non viene narrato per esteso nel Nuovo testamento, ma lo si può dedurre da alcuni passi di poco posteriori alla cronaca degli Atti.
Il primo è contenuto nella Lettera ai Romani:
Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio a quella comunità; la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali.
(Rm 15, 25-27)
Qui apprendiamo che nella comunità di Gerusalemme ci sono dei poveri, quando inizialmente, al tempo narrato dagli Atti nessuno tra loro era bisognoso. E non solo scopriamo che a Gerusalemme ci sono dei cristiani poveri, ma anche che i loro concittadini della stessa fede non sono in grado di aiutarli, al punto che san Paolo deve organizzare una colletta all’estero, in Grecia e Turchia.
Il fatto viene ribadito nella prima Lettera ai Corinzi:
Quanto poi alla colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrò io. Quando poi giungerò, manderò con una mia lettera quelli che voi avrete scelto per portare il dono della vostra liberalità a Gerusalemme. (1Cor 16,1-3)
Le informazioni che provengono da questi versetti sono che la colletta dovette essere organizzata molto bene, perché evidentemente il bisogno era grande. E il bacino di raccolta comprendeva due regioni molto vaste, come la Galazia in Anatolia e la Macedonia in Grecia, più la piccola ma ricca Acaia.
Se l’obiettivo della colletta era una cifra così ingente quanti potevano essere i cristiani di Gerusalemme che si erano ridotti in povertà e avevano bisogno di soccorso?
La risposta più probabile è: tutti.
Qualcuno potrebbe obiettare che lo stato di necessità fosse dovuto alla carestia scoppiata sotto l’impero di Claudio e preannunciata da un profeta cristiano: E uno di loro, di nome Agabo, alzatosi in piedi, annunziò per impulso dello Spirito che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l’impero di Claudio. (Atti 11,28)
La carestia effettivamente si produsse e fu tanto grave che per quel motivo l’imperatore un giorno fu circondato al foro e coperto di contumelie.
Ma se mancava il cibo spedire soldi non era una soluzione.
Inoltre perché mai la carestia avrebbe dovuto colpire Gerusalemme e non l’Acaia, la Galazia e la Macedonia se Roma stessa non ne era stata immune?
No, il fatto è che lo schema Ponzi della prima comunità aveva rovinato i cristiani e li aveva ridotti in miseria.
Le conseguenze dottrinali del fatto.
La gerarchia cristiana fu evidentemente scottata dall’esperienza ed effettuò una sterzata a centoottanta gradi.
Ecco cosa dice in proposito san Paolo: Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. (2Tes 3,7-9)
Quindi lui, Apostolo e vescovo, rinunziò al diritto di farsi mantenere, lavorando come fabbricante di tende per dare l’esempio.
Evidentemente un esempio giusto ma anche clamoroso, per cancellare la memoria del precedente esempio negativo.
E con un motto catechistico conclude lapidariamente: E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi (2Tes 3,10)
L’orientamento della Chiesa nei secoli successivi fu chiaro: la ricchezza proviene dal lavoro e non dal denaro.
Questo principio trovò una concordanza con le norme veterotestamentarie contro l’usura e tenne dritta la barra del timone per almeno millecinquecento anni, fondandosi sull’idea che “non si fa il denaro col denaro”.
Certamente il precetto fu largamente trasgredito (al pari di molti altri comandamenti), ma mai messo in dubbio, almeno fino alla seconda metà del 1500 nell’opera del gesuita Leonardo Lessio.
Le grandi discussioni che precedettero la promulgazione della Vix pervenit (1745) sicuramente contribuirono a sviscerare un po’ meglio il problema.
Il partito dei liberalizzatori del prestito a interesse, guidato da Broedersen e Maffei, si oppose al partito dei censori, alla cui testa si pose il padre domenicano rigorista Concina.
Naturalmente fu affrontato il tema della relazione tra capitale e lavoro e il punto nodale fu che per i primi la gestione finanziaria era un lavoro passibile di remunerazione, per i nemici degli interessi non si trattava di vero lavoro in quanto non accresceva la ricchezza reale, che poteva essere incrementata solo dalla concreta azione umana e non dal prestito.
Rimase comunque nell’animo della Chiesa, o almeno in una parte di essa, una certa diffidenza per la finanza, nonostante gli usi e costumi abbiano travolto ogni norma in proposito e abbiano indotto il Magistero a limitarsi a raccomandazioni di principio molto generali, senza dire nulla di concreto per non mettere i fedeli nell’impossibilità di seguirlo.
Per ovvie ragioni di spazio non è possibile argomentare sul tema né in ottica passata né attuale, ma nel solco di quella esperienza originaria pongo solo una domanda.
Se il crack della comunità di Gerusalemme indusse la Chiesa primitiva a porre il veto sull’ingegneria finanziaria, cosa direbbe oggi san Paolo, di fronte a un sistema monetario mondiale fondato sullo schema Ponzi del debito?