di Roberto PECCHIOLI
Ha sostenuto qualcuno che abbiamo molte più cose in comune con un albero che con un transistor. Anche il neomarxista francofortese Ernst Bloch ha una lezione da impartire: la nostra tecnica sta alla natura come un esercito straniero di occupazione. Non c’è dunque che da seguire il consiglio di Martin Heidegger: colui che rispetta l’ambiente salva la terra, non la padroneggia né la assoggetta. Armati di questi principi basici, tentiamo do orientarci individuando un corpo di idee a sostegno di un’agenda ambientalista fondata sull’uomo.
Innanzitutto una considerazione generale: l’attuale atteggiamento umano di sfruttamento intensivo delle forze della natura è in contrasto con le acquisizioni della fisica quantistica e della termodinamica. Ci comportiamo come se l’uomo-Titano non facesse parte della natura e del mondo. L’intera attitudine tecnoscientifica occidentale contemporanea ha scavato un fossato tra l’essere intelligente dotato di volontà di potenza- l’uomo- e l’ambiente in cui vive. Assurdo: lo dimostrò assai bene il principio di indeterminazione di Heisenberg. Nell’ambito della realtà, le leggi naturali non permettono una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo, ed ogni analisi è inficiata dalla presenza “interna” del soggetto calcolante.
Il modello industrialista e consumista, dunque, non è neutro neanche dal punto di vista scientifico. E’ sin troppo agevole citare disastri assoluti come la quasi totale scomparsa dell’immenso lago di Aral – la cui superficie originale era pari a quella complessiva del Piemonte, del Veneto e della Lombardia, per le improvvide politiche industriali ed energetiche dell’Unione Sovietica. Potremmo continuare, ricordando le devastazioni attuali in Cina e la pratica del fracking, l’estrazione del gas di scisto in Nord America attraverso l’immissione di enormi quantitativi d’acqua, la cui pressione provoca la frantumazione del terreno e il suo inquinamento, o la generalizzazione di OGM, organismi geneticamente modificati.
Conviene fermarsi, registrando il paradosso di Easterlin, l’economista che dimostrò l’indipendenza della felicità individuale e collettiva dall’ aumento del reddito disponibile. Il totem del PIL e della cosiddetta “crescita”, legata esclusivamente al valore monetario delle attività umane, è falso, un’invenzione di economisti legati al sistema dominante. La bioeconomia e gli studi di Georgescu Roegen, poi, attraverso l’analisi del secondo principio della termodinamica, hanno confermato che nessuna scienza umana può evitare di tenere conto delle leggi della fisica, ed in particolare del Secondo principio della Termodinamica, secondo il quale, in un sistema chiuso, alla fine di ogni processo, la quantità di energia, dunque la possibilità di un suo successivo riutilizzo, è sempre inferiore rispetto all’inizio. L’ entropia, quindi, nega in radice la possibilità della crescita infinita e richiama le scienze economiche a tenere conto della finitezza del sistema-chiuso Terra.
Uno dei padri della cibernetica, l’epistemologo Gregory Bateson va oltre, parlando dei “processi monotònici”, quelli cioè che procedono in una sola direzione. Gli alberi non crescono indefinitamente, gli animali e gli uomini neppure. I processi monotòni non esistono né in biologia, né nel funzionamento delle macchine e, tanto meno possono funzionare nelle società umane. Un colpo durissimo all’idea di crescita indefinita, di determinismo, progresso lineare, del “dopo “e del “nuovo” sempre superiori, migliori, di “prima” e “vecchio”. Insomma, è del tutto evidente che procediamo spediti verso l’esaurimento delle risorse, con conseguenze inimmaginabili sulle specie, ivi compresa quella del superbo homo sapiens misura di tutte le cose.
Se non vogliamo la distruzione dell’unica casa in cui possiamo vivere, non resta che tornare a un principio dimenticato, quello di bene comune. Un concetto filosofico ed etico da applicare innanzitutto alla Terra. Proclamare con solennità che il pianeta è il bene comune per eccellenza ci fa uscire dalle secche dell’arroganza tecnocratica, dal titanismo e dal prometeismo per cui ci convinciamo di essere in grado di padroneggiare, orientare, comandare i fenomeni naturali. Poi c’è il principio di prudenza, ovvero non mettere mano a nulla di cui non sappiamo prevedere le conseguenze.
Ciò rimanda a una visione olistica della vita, che recuperi tanto la memoria del passato che l’aspettativa del futuro, mettendo finalmente da parte la centralità del presente, la sua assolutizzazione insensata, l’”odiernità” tematizzata da Marcello Veneziani. L’idea di progresso vive in un orizzonte lineare, al quale va contrapposta una visione circolare della vita, analoga al ciclo delle stagioni, che è quello della natura. Al breve termine, al “tempo reale” dell’informatica, vanno contrapposti i tempi lunghi, i ritmi naturali. Si tratta, inutile ribadirlo, di sottrarsi alla logica invertita del Mercato e del consumo. Tutto e subito non fa parte del patrimonio “naturale”, ma occorre sconfiggere il pensiero calcolante, che vive dei bollettini di borsa, delle previsioni a breve termine, delle scadenze ravvicinate del profitto degli azionisti delle società anonime. Persone giuridiche da subordinare finalmente alle persone fisiche e ai viventi.
La misura deve prevalere sulla dismisura, la realtà naturale sulla sola ragione economica, la cui prevalenza ha dimostrato la sua disumanità nutrita di indifferenza nei confronti di qualsiasi ostacolo. Quella hybris tecnica, produttivistica, quella volontà di potenza hanno generato, per reazione, forme di ambientalismo che considerano l’uomo come il problema fondamentale del pianeta. Pensiamo alla cosiddetta “ecologia profonda”, di Arne Naess, a forme estreme di animalismo, alla teoria di Gaia, che considera la terra, sulle piste di James Lovelock, come un organismo vivente. L’uomo, per alcuni filoni culturali, diventa il male, il problema. Arriviamo all’ antispecismo talvolta fanatico, ovvero il rifiuto di attribuire alla creatura umana un diverso statuto ontologico rispetto alle altre specie.
Noi intendiamo restare sul terreno dell’umanesimo, ma per riuscirci dobbiamo sgomberare il campo dal senso di onnipotenza che ha pervaso la nostra civilizzazione. L’uomo è parte della natura; per la sua intelligenza ha dei diritti sul creato, ma non quello di disporne a piacimento, tanto meno di disprezzarlo o considerarlo un giardino di cui cogliere i frutti senza riguardo per le altre specie, per i viventi, per l’equilibrio del sistema e, infine, per la sua stessa sopravvivenza. No dunque all’antiumanesimo, ma con altrettanta forza nessuna simpatia per il transumanesimo (andare oltre l’uomo ibridandolo con la macchina) e massima lontananza ideale da un modo di produzione e da una concezione dell’essere umano come apparato digestivo e soggetto/oggetto di consumo.
Una società che considera l’uomo una cosa tra le altre, vive in un’incultura del rifiuto che, nel campo ambientale, va di pari passo con l’incultura dei rifiuti, in cui diventa scarto tutto ciò, uomo, animale, vivente o prodotto, non più utile al circuito mortale “produci, consuma, crepa.” L’idea di misura e di prudenza, dicevamo all’inizio, non può essere disgiunta da quella di bene comune. Nel mondo contemporaneo, la conoscenza, ovvero la sapienza, è un fastidio non sopportato, in nome della “prassi”, nel nostro caso la corsa a scoprire, inventare per produrre e consumare, sinonimo di esaurire, gettare via. Non è più lecito perdere tempo a conoscere, a meno che non si tratti di qualcosa che “serve” all’azione, all’automatismo per cui conoscenza, idee, principi, valgono solo se si trasformano in un risultato pratico a cui applicare un brevetto, un titolo di proprietà e un cartellino con il prezzo. Progredire non può significare esclusivamente produrre per consumare con velocità crescente, in una meccanica paragonabile alla corsa del povero criceto nella sua gabbietta circolare.
Serve un salto logico, un cambio di paradigma, che possiamo paragonare alla metafora del cane di Crisippo, filosofo stoico greco. Per rintracciare i comportamenti logici elementari, Crisippo indicava una triplice alternativa, simboleggiata dal cane da caccia che, arrivato a un fosso nella ricerca della lepre, dopo aver annusato invano a destra e sinistra lungo la riva, non esita a saltare al di là del fosso. Nel nostro caso, significa reagire dinanzi all’alternativa inconcludente tra immobilismo e rincorsa distruttiva. Il consumismo produttivista, osserva Serge Latouche, ha colonizzato l’immaginario. Noi pensiamo in termini di consumo, di novità continue, di apparati tecnici e modalità esistenziali che disseccano le fonti dell’esistenza.
Il cane di Crisippo salta il fosso, noi umani, come Amleto ricorda ad Orazio, dobbiamo rammentare che ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne può contenere il nostro falso progresso. La forma merce come immagine del mondo va respinta. Decolonizzare l’immaginario significa molte cose: una è accogliere la distinzione cruciale proposta da Maurizio Pallante tra beni e merci. I beni sono tutto ciò- cose, comportamenti, modi di essere- che soddisfano bisogni; Le merci sono ciò che viene scambiato con denaro, e possono sia soddisfare bisogni, nel qual caso sono anche beni, sia non soddisfarne alcuno. La distinzione è capitale; basta da sola a definire una visione “ecologica” della vita, nel senso ampio di compatibile con la nostra natura migliore e con l’ambiente circostante.
Se pensiamo, negli atti quotidiani, a creare, produrre ed usare beni e non solo merci, avremmo decolonizzato l’immaginario dal mito incapacitante del consumo che diventa compulsione e si trasforma in modus vivendi e, concretamente e rapidamente, in rifiuto da smaltire per l’irruzione di nuove merci definite “migliori”, più “avanzate” e progredite, che dobbiamo assolutamente possedere e presto dimenticare. L’ambientalismo, inoltre, rifiutando la distruzione e la riduzione del creato e dei viventi a semplici strumenti, possiede una dimensione spirituale a cui attingere per allontanarci dai materialismi e determinismi che hanno riconfigurato comportamenti e visioni dell’esistenza ad immagine del mercato.
La cultura del bene comune ci allontana dall’idea cui accennavamo, quella del rifiuto e dei rifiuti, materiali e morali. L’entropia è dissipazione, l’ecologia è conservazione, tradizione, trasmissione, responsabilità liberamente assunta. La “crescita” non può essere un dogma economicista da misurare in denaro, reddito, distribuito in maniera sempre più moralmente perversa. Non sappiamo dire se la decrescita sia un’opzione valida o uno slogan invitante, ma è evidente che, al di là del nome che si è data, il progetto di spezzare un cortocircuito dello scambio misurabile in denaro e della ragione del profitto unica legge, è l’unica via per sottrarsi al colonialismo mentale e materiale che subiamo.
L’idea di progetto, il pensare altrimenti ci libera dalla dittatura del presente, dall’indifferenza per gli altri e per il domani. Che cosa hanno fatto per noi i posteri, si domandava Groucho Marx, ripreso da Woody Allen? Nulla, naturalmente, ma abbiamo il doppio dovere di non consegnare loro un deserto le cui oasi sono cumuli di spazzatura, oltreché di consentire la nascita di nuove generazioni. Ecco dunque i primi “beni comuni”: la Terra, ciò che contiene, le sue diversità – umane, animali, vegetali e il suo futuro, per la parte che dipende da noi.
Quindi, bisogna decolonizzare un altro immaginario: quello del possesso e della prevalenza dell’interesse privato. La privatizzazione del mondo, i padroni universali che ci espropriano di tutto, materialmente e spiritualmente, devono essere combattuti sul terreno etico, poi ideologico e infine politico. Alcuni elementi centrali delle società umane vanno riconquistati alla sfera pubblica, restituiti alla dignità di bene comune. Lo Stato, argine all’iperpotere delle oligarchie, le comunità locali, la cui prossimità al territorio è la garanzia di conoscenza dei problemi e capacità di risolverli, e poi alcune strutture economiche essenziali.
Non si può lasciare in mani private l’acqua, altro bene da dichiarare patrimonio comune, né permettere il controllo oligarchico delle reti di telecomunicazione, delle fonti energetiche, delle cure sanitarie, delle sementi agricole. Vasto programma nel quale dovremmo includere la libertà e la pluralità della Rete, dei mezzi di informazione e molto altro. A ben guardare, si tratta invece di un programma ecologico e politico minimo, centrato sull’idea di bene comune, un principio da trasformare in vera e propria bussola, perimetro indispensabile, la cornice minima per uomini di buona volontà decisi ad agire e a non lasciarsi dominare da una macchina tecnica, produttiva ed economica amorale, ingiusta, distruttiva.
Uscire, per ecologia morale, da un sistema la cui unica ragione è strumentale e la cui unica regola è il profitto non è una scelta politica, ma un’urgenza esistenziale. L’alternativa è semplice, la deriva verso una distruzione che è, per alcuni, fonte di profitti e perfino di prestigio. L’industrialismo sedicente ecologico che ci preparano affigge il cartellino del prezzo su ciò che una volta era gratis. Aria pulita, silenzio, suolo fertile, vengono commercializzati come se dovessero essere espressamente prodotti da una particolare progettazione e tecnologia. Esiste ancora, sul pianeta Terra, un bene comune, qualcosa di puro, gratuito, privo di codice a barre, non compravendibile sul mercato?