EMOTICON – L’insorgenza dell’Io sentimentale

                                                          di Roberto PECCHIOLI

 

Quando negli Stati Uniti fu approvato il matrimonio omosessuale, restammo stupefatti dal commento del suo principale artefice, Barack Obama. Il presidente disse che era una “grande vittoria dell’amore”. Proprio così: non parlò di principi o di valori, lasciò in secondo piano anche l’idea di uguaglianza, filo rosso con tratto giacobino dello slogan francese del “matrimonio per tutti”. Il capo della nazione più potente del mondo, guida della civilizzazione occidentale, un uomo caricato di simboli e di aspettative storiche per la sua condizione di primo presidente non bianco degli Usa, giudicava un evento di enorme portata antropologica, destinato a scardinare millenni di consolidate certezze, come un fatto sentimentale, una vittoria della più impolitica delle passioni umane.

L’amore, infatti, non può essere imprigionato in categorie giuridiche né diventare un programma politico. Il matrimonio poi, al di là della forzatura ideologica omosessualista, è ormai, specie in America, un contratto come tanti altri, soggetto a clausole, protocolli, trattative non solo patrimoniali. Eppure, Obama non ha esitato a intestare all’amore l’esito di una battaglia politica. Omnia vincit amor, canta Virgilio nelle Bucoliche, e prosegue “et nos cedamus amori”, noi pure cediamo all’amore.  Ma è tutta un’altra storia, mentre il cattolico Renzi ha subito salutato con identiche parole le sue orwelliane “unioni civili”.

Dunque, siamo di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo, l’insorgenza, l’irruzione nello spazio civile e comunitario di un nuovo soggetto, debole e fortissimo insieme, il sentimentalismo di massa, l’emotività elevata a criterio di giudizio, la lacrima esibita, ostentata come prova di mitezza e di partecipazione. Si fa avanti e conquista il potere un mondo nuovo fatto di emoticon, le “faccine” gialle dalle mille espressioni, allegre, tristi, piangenti, divertite, imbarazzate, perplesse che usiamo per rafforzare i nostri messaggi telefonici- gli SMS che hanno sostituito tanti contatti personali- e che addirittura, specie tra i più giovani, costituiscono talora il messaggio stesso.

Restano insuperate le intuizioni di Christopher Lasch, il pensatore americano autore della Ribellione delle élite, del fondamentale La cultura del narcisismo, ma anche di un altro testo di profonda acutezza, L’io minimo. Il Narciso occidentale contemporaneo è una personalità introflessa: vive di se stesso, tra tic estetici, manie, emotività esagerata e fragilità sconosciute alle generazioni precedenti. Ha, anzi “è” un io minimo. Scrive Lasch: “In un’epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza. Gli uomini vivono alla giornata; raramente guardano al passato, perché temono d’essere sopraffatti da una debilitante nostalgia, e se volgono l’attenzione al futuro è soltanto per cercare di capire come scampare agli eventi disastrosi che ormai quasi tutti si attendono. In queste condizioni l’identità personale è un lusso e, in un’epoca in cui incombe l’austerità, un lusso disdicevole. L’identità implica una storia personale, amici, una famiglia, il senso d’appartenenza a un luogo. In stato d’assedio l’io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. L’equilibrio richiede un io minimo, non l’io sovrano di ieri.”

C’è di più, ed è il generale ripiegamento sentimentale su se stessi, nella confusione tra sensibilità (atteggiamento forte, solido) ed emotività, attitudine debole, liquida, transitoria, tipica dell’attimo presente, immediatamente sostituita da nuove sollecitazioni dell’orizzonte puntinista fatto di breaking news seriali. Il mondo mercificato è inadeguato a definire i confini tra io e ambiente, incapace di una significativa definizione della realtà e dell’illusione. La realtà circostante è talmente fuori dalla nostra capacità di controllo (la “gestione” degli eventi così cara al soggetto che si crede razionale) che la risposta psicologica è regressiva, ripiegata, si contrae nella mera sopravvivenza ed in un sentimentalismo diffuso quanto astratto, un elemento in più dell’universo liquido descritto da Bauman.

Un esempio pregnante è la finta discussione sui valori, la cui discussione pubblica è pressoché vietata da un pluralismo ossessivo. “La libertà di scelta si riduce in pratica all’astensione dalla scelta stessa” e il pluralismo si fa ideologia, rispecchiando “con esattezza la situazione del mercato, dove prodotti in apparenza concorrenti diventano sempre più indistinguibili”. Di qui anche l’innalzamento a totem della tolleranza, la cui esasperazione conduce all’anomia, con la conseguente crisi della democrazia, dell’autogoverno e dell’iniziativa civica. La politica si fa amministrazione, dominio di caste di cosiddetti esperti specialiste soprattutto nell’autopromozione e genera impotenza e sfiducia nella possibilità di influire sulle scelte pubbliche attraverso la partecipazione.

Un altro fenomeno, che in Italia assume caratteri di massa, è la medicalizzazione e psichiatrizzazione di ampi settori della popolazione fin dall’infanzia. E’ infatti in aumento esponenziale il numero di scolari e studenti “ difficili”, considerati a rischio per comportamenti o situazioni che potrebbero essere risolte se le famiglie assumessero le responsabilità educative , se padri e madri evitassero di essere amici e ritornassero guide, se fosse rielaborato il ruolo di chi deve pronunciare dei no, emettere giudizi, in definitiva costruire nei figli un io meno emotivo, sentimentale e più disponibile a riconoscere i limiti e distinguere bene e male. Le responsabilità sono state esternalizzate, delocalizzate: scuola, medici, esperti. La nostra intera vita è stata medicalizzata, come capì per primo Ivan Illich, il quale considerava urgente anche quella che chiamava “descolarizzazione”, ossia un recupero dell’educazione alla vita attraverso altri canali, la famiglia innanzitutto, e poi la strada, gli amici, la Chiesa, l’esperienza personale. Si è andato generalizzando in milioni di persone l’io minimo difensivo, emotivo, fragile, sentimentale, problema comune delle nostre generazioni.

Tra le caratteristiche più singolari è quella della logorrea, del parlare continuamente senza giungere ad alcuna conclusione. E’ la chiave universale: non vi è questione che non debba essere abbordata con il dialogo, dimenticando che prima o poi occorre decidere e rendere esecutive le soluzioni adottate. Uno dei paradossi è quello della cosiddetta legalità, l’osservanza cioè delle norme scritte. Da un lato essa viene assunta come dogma, confondendola oltretutto con la legittimità, dall’altra viene continuamente derogata proprio attraverso la litania del dialogo, medicina universale, panacea dell’io sentimentale, placebo come le faccine gialle, gli Emoticon. La parola dialogo è stata degradata a termine omnibus della neolingua, una sorta di legge dell’imbuto. Un diritto a fasi alterne, rivendicato quando si vedono compromesse le proprie aspirazioni, mai quando sono in gioco principi o convinzioni altrui.

Ci stanno imponendo una nuova regola indiscutibile: qualunque legge o principio può essere saltato a piè pari, purché non si ricorra alla violenza. Quindi, se un gruppo di pacifici “okupas” si installano in casa nostra, diamoci per espropriati. Sta passando un concetto, falsamente sentimentale quanto civicamente inaccettabile che se l’illegalità si impone in forma non violenta, il diritto non può essere ripristinato attraverso la forza. Chi lo facesse, non sfuggirà ad accuse di fascismo provenienti da innumerevoli pulpiti. Storia e cronaca ce lo insegnano nella gestione dell’immigrazione, nell’indifferenza verso l’applicazione della legge dinanzi ai crimini più diffusi ed odiosi, nel clima generale di generale giustificazione, di cedimento del diritto rispetto alla tracimazione della psicologia banalizzata e della psichiatria, di deresponsabilizzazione diffusa.

John Locke ai nostri occhi è tutt’altro che un modello, l’ispiratore del peggio della “gloriosa rivoluzione” inglese di fine XVII ed inizio XVIII secolo. E’ tuttavia interessante ricordare i paletti invalicabili che pose all’idea di libertà indistinta di cui oggi sperimentiamo la follia: “Dove non c’è legge non c’è libertà. Poiché la libertà deve essere rimanere liberi dalle restrizioni e dalla violenza altrui, ciò che non può esistere se non c’è legge. E non è, come ci viene detto, una libertà perché ogni uomo faccia ciò che gli aggrada. Infatti, chi potrebbe essere libero se fosse dominato dai capricci di tutti gli altri? “.

Stiamo invece scivolando in società fanatiche e repressive, sia pure di segno opposto a quelle del passato. Poiché non si può vietare alcunché, il rigore, il disprezzo e la mannaia delle leggi cadono su coloro che chiedono limiti, esprimono giudizi o si sottraggono al dilagante conformismo. Nei loro confronti viene azionata la trappola sentimentale: sono contrari al “dialogo”, non condividono le verità ufficiali introiettate attraverso i mezzi del potere mediatico, culturale, educativo, dunque vanno sanzionati, colpiti, rieducati. Tutti gli altri vivono nel loro sentimentalismo muniti di fazzolettini di carta per asciugare le copiose, pubbliche, emotive e francamente insopportabili lacrime del loro io, minimo ma terribilmente esigente con chi dissente dalla narrazione corrente. Un poeta disse una volta: guai a quella società in cui anche gli uomini barbuti si sciolgono in lacrime. E, aggiungiamo noi, quella in cui la verità è sostituita dal sondaggio dell’opinione maggioritaria e momentanea di masse emotive e manipolate scientificamente.

Strano fenomeno quello in cui la responsabile azione personale è sostituita dalla servitù volontaria a chimere collettive. Evidentemente l’homo sentimentalis ha preso possesso del mondo. Lo aveva intuito Milan Kundera, l’autore dell’Insostenibile leggerezza dell’essere. “L’uomo sentimentale non può essere definito come un uomo che sente (perché tutti sentiamo), ma come un uomo che ha fatto del sentimento un valore. A partire del momento in cui il sentimento si considera un valore, tutto il mondo vuole essere sentimentale; e poiché a tutti piace vantarci dei nostri valori, abbiamo la tendenza a esibirli. E’ parte della definizione di sentimento il fatto che esso nasca in noi senza l’intervento della nostra volontà, frequentemente contro la nostra volontà. In quanto vogliamo sentire, decidiamo di sentire, esattamente come Don Chisciotte decise di amare Dulcinea, il sentimento non è già più sentimento, bensì una imitazione del sentimento, la sua esibizione. La quale si è soliti denominare isteria. Perciò, l’homo sentimentalis (cioè l’uomo che ha fatto del sentimento un valore) è in realtà lo stesso dell’homo hystericus”.

Kundera è tra coloro che ci hanno avvertito della sostituzione dell’autorealizzazione personale con una sorta di pace mentale dipendente dalla soddisfazione dei sentimenti, compresi quelli più arbitrari e peregrini.  Simile convinzione manifestò lo storico marxista Eric Hobsbawn, cui dobbiamo la definizione del Novecento come “secolo breve”, constatando che il vecchio secolo non era finito bene, esaurito tra pianti rabbiosi.  Più sottile, Lasch segnala l’insorgenza di una società inseguita da ansietà, depressione, intangibile malcontento e segnata da un insopportabile vuoto interiore. Forse, l’uomo psicologico, emotivo e sentimentale di questo scorcio del terzo Millennio non cerca davvero l’autorealizzazione individuale, tanto meno la trascendenza spirituale, ma la semplice tranquillità mentale.

La terapia sociale fatta di dialogo ad ogni costo, giustificazione psicologica a ricetta, accettazione di tutto purché non turbi l’encefalogramma piatto e non costringa a scelte forti si è ormai costituita come erede dell’individualismo liberale e delle vecchie religioni. Probabilmente il mondo nuovo terapeutico e sentimentale è antireligioso non perché i moderni sciamani siano razionali o utilizzino metodi scientifici, ma per il fatto che la società moderna invertebrata si è persuasa che “non c’è futuro”, quindi non resta altro che preoccuparsi delle necessità immediate, che mutano in fretta in base ai cangianti criteri degli esperti, nom de plume del mercato misura di tutte le cose.

Oggi, quando i terapeuti parlano dell’amore, si riferiscono ad un elemento condizionato dalle necessità emotive del paziente. Non incoraggeranno mai il soggetto a subordinare tale necessità a qualcuno, ad una causa o un principio. Amare come sacrificio, o assoggettamento ad una lealtà superiore risulta inaccettabilmente oppressivo. Viviamo in società nelle quali l’impegno è diventato un peso insopportabile.  Per sentirci bene, dobbiamo viaggiare con bagagli leggeri, senza un matrimonio stabile, senza figli né anziani di cui farci carico. Tutt’al più un animale domestico che non può contraddirci o una causa momentanea, intercambiabile.

Liberare la società da concetti antiquati come la lealtà e il dovere è stato un vasto lavoro di demolizione portato a compimento da filosofi, sociologi, cattivi maestri, terapeuti. Qualunque ancoraggio ad una tradizione, intesa come necessario vincolo evolutivo, è stato presentato come un ostacolo nel raggiungimento della felicità. Quel che conta, nell’emotività che si fa stile di vita, è la gratificazione psicologica, non certo la verità. Ecco perché risulta così facile, per chi ne possieda i mezzi, cambiare le idee, la percezione del mondo, il senso della realtà di milioni di persone, divenute insensibili alla ragione e financo all’evidenza.

Siamo al punto in cui, per quanto abile e pressante sia la manipolazione esterna, l’homo sentimentalis accoglie e vive anche le menzogne più grossolane alla disperata ricerca di una ricompensa psicologica. E’ il destino amaro di chi ha perso ogni fede, non solo quella nella trascendenza. Questo spiega la necessità assoluta, persino carnale, di “dialogo”, naturalmente purché le posizioni non siano veramente contrapposte, il che farebbe crollare il castello di illusioni sentimentali, senza valutare se si possiede un codice comune, ovvero se, quanto meno, le parti attribuiscono a parole e concetti lo stesso significato. Chiarisce anche l’orrore diffuso per ciò che è netto, e la paura isterica (non troviamo altro aggettivo) per l’Altro, quando è davvero “altro”, come l’islamista, il portatore di una causa, di un principio, una credenza radicalmente alternativa al minestrone postmoderno. Non si ha neanche il coraggio morale di opporsi con le stesse armi, a partire dalla legittima forza coattiva delle leggi vigenti.

Per converso, non ci si può stupire se, per le stesse ragioni, le faccine gialle dell’Emoticon collettivo si situino così frequentemente al di sopra delle leggi, convinte come sono di avere il diritto – per superiorità morale auto assegnata- di imporre la loro volontà, giacché lo fanno in forma pacifica, non violenta, e, soprattutto, per il nostro stesso bene. Di qui, il diluvio di norme che riguardano la salute, il fumo, l’alcool, divieti assortiti, il disarmo materiale e morale imposto, le proibizioni di professare idee antagoniste e financo inalberare simboli, l’obbligo non più celato di pensare diversamente le medesime cose, sentimentalmente, senza profondità, nell’universo liquido ma indiscutibile di un’uniformità cimiteriale.

In troppi si sono arresi ad una visione terapeutica del mondo, nella quale tutto, senso comune, Stato di diritto, libertà di pensiero, impallidiscono di fronte all’ emergenza (ed al ricatto) delle lacrime del nuovo moralismo in offerta speciale. Non solo lacrime, naturalmente. L’ io minimo sentimentale di massa necessita anche di una lingua nuova, abile nella torsione dei significati: questo è il compito devastante di certa programmazione neurolinguistica e del “politicamente corretto”. L’ultimo mezzo secolo ha portato a perfezione la profezia distopica di George Orwell, scolpita in pietra nel palazzo del potere: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.

L’Emoticon di 1984 erano i due minuti di “odio obbligatorio”. Sono riusciti ad andare oltre: bastano le immagini manipolate delle televisioni, le post verità della società dello spettacolo, gli slogan che affermano il contrario del vero, come il ridicolo “non ho paura” di fronte al terrorismo, con contorno di fiori e bigliettini tipo Baci Perugina. L’uomo sentimentale non vive, si trascina da spettatore pagante della sua stessa vita. Lasciamolo in pace, però, non turbiamolo troppo: potrebbe scoppiare a piangere, e le sue lacrime sono più ridicole di quelle stampate sulle faccine gialle di Emoticon, il mondo virtuale di cui è suddito.

ROBERTO PECCHIOLI