“Ad Aleppo, il governo turco ha contribuito al saccheggio della struttura industriale. Esperti turchi erano a fianco dei jihadisti ad indicare quali macchinari trasportare in Turchia”: l’accusatore è Farés el-Chehabi, imprenditore di Aleppo, presidente della Camera di Commercio e Industria di Siria; ed è un sunnita, non un alawita. Riuscito a tornare dopo quattro anni nella zona liberata dove aveva delle fabbriche, ne ha constatato il saccheggio. E lo ha detto in un’intervista a L’Orient Le Jour, il più importante giornale libanese.
“Aleppo aveva 80 mila tra fabbriche, fabbrichette ed officine, più di qualunque altra città del Medio Oriente. Era la capitale economica della Siria. Le distruzioni e i saccheggi sono cominciati nel 2011, dal secondo mese di guerra. Quasi da subito, i ribelli ci hanno distribuito dei volantini in cui ordinavano la chiusura delle nostre aziende, altrimenti le avrebbero incendiate. Hanno mandato queste minacce a tutti. La gente s’è subito spaventata. Una ventina di miei amici industriali, membri della Camera di Commercio, sono stati assassinati perchè rifiutavano di chiudere le officine. Già nel 2011 i ribelli avevano incenerito più di cento manifatture”.
Quanto alla sua gravissima accusa – c’era del personale turco a organizzare la spoliazione delle fabbriche a fianco dei ribelli – dice: “Molti industriali mi chiamavano nel panico dicendo che dei ribelli erano nella loro fabbrica insieme a dei turchi. I tagliagole non sono capaci di distinguere tra le linee di produzione di una industria, non sanno come smontare i macchinari senza danneggiarli. E’ il motivo per cui i turchi erano presenti, per scegliere il bottino a portarlo a Gaziantep, ad Adana…Il bottino è partito per la Turchia con l’ovvia complicità della polizia turca. Non è possibile far passare con facilità macchinari che a volte hanno 20-30 metri di lunghezza. Hanno usato dei camion e li hanno fatti passare ai posti di confine, mica fra gli uliveti. E’ stata una cosa organizzata. Hanno svuotato Aleppo, le zone industriali sono un campo di rovine”.
Ha le prove di quel che dice?
“Sì”, risponde l’industriale: “E prove serie, solide: ho raccolto video, confessioni, testimonianze…Ho ricevuto più di 5000 denunce di industriali vittime dei furti. Ho avanzato due formali denunce contro il governo turco ai tribunali di Strasburgo e all’Aja”.
Otterrà giustizia dai giudici dell’Europa, culla della civiltà giuridica? Giova sperare. Intanto è lui che l’Unione Europea ha messo nella sua lista nera, colpendolo con sanzioni, perché lo accusa di aver portato aiuto economico al regime (ossia al suo governo legittimo, rappresentato all’Onu)
“Una delle mie fabbriche era a Cheik Najjar, la zona industriale più grande di Aleppo: un produzione di olio d’oliva. I ribelli se ne sono impadroniti nel 2011 e mi hanno comunicato che non mi apparteneva più. Vi son potuto tornare nel luglio 2014, quando l’area è stata liberata, e ho constatato i danni: tutto portato via. Ho scoperto lì che lo stabilimento, che io credevo in mano all’Armata Libera Siriana, era in realtà il quartier generale dello Stato Islamico: sui muri erano dipinti gli stendardi di Daesh, avevano lasciato del vestiario dei jihadisti, e i loro volantini e fogli d’ordine. Siccome nella zona erano rimasti quasi 500 ragazzini che erano stati privati di istruzione per due anni, ho deciso di trasformare i locali della mia officina in scuola gratuita”.
Dunque la famiglia Erdogan non si limita a trafficare il greggio rubato da Daesh, arricchendosi in complicità con esso; non si limita ad un sostegno più o meno occulto dei terroristi islamici costituitisi in pseudo-stato; no, partecipa direttamente alla guerra dei jihadisti e alle sue razzie, e fin dall’inizio (2011) inviando esperti per lo svaligiamento della struttura industriale del paese confinante con cui (ufficialmente) non è nemmeno in guerra.
L’Europa, o quella entità che ne ha usurpato il nome a Bruxelles, farebbe bene a verificare le accuse dell’industriale siriano Farés el-Chehabi, e con urgenza: per constate se davvero la Turchia, da stato rispettabile, sotto la guida degli Erdogan non stia trionfalmente regredendo ai fasti rivoltanti dell’ottomanismo “conquistatore” del 500-700, dove il bottino e la razzia erano lo scopo delle guerre e il terrorismo e le atrocità con le decapitazioni di massa erano il metodo di governo. Coi secoli, persino l’impero ottomano era divenuto più accorto e meno selvaggio. Ora tornano i bei tempi delle montagne di teschi decapitati, dei massacri degli armeni e degli assiri?
Giusto per sapere a quale tipo di governo la Merkel ha voluto versare 3 miliardi nostri per i rifugiati siriani. E quale sia il livello dei “valori dell’Occidente” che ci consente di trattare quello di Erdogan come fosse un governo normale, anziché come una pericolosissima cosca criminale venuta da un passato di barbarie.
L’ISIS come stato modello
Invece, va’ proprio nel senso contrario una serie di articoli apparsi sul Guardian e su Le Monde, dove – citando “un documento ottenuto dal ricercatore britannico Aymenn Jawad Al-Tamimi, da un uomo d’affari che commercia con lo Stato Islamico (sic) – si accredita l’idea che il Califfato sia, in qualche modo, uno stato come gli altri – o si evolva a diventarlo.
http://www.aymennjawad.org/2015/12/the-islamic-state-masterplan-of-administration
Il commerciante “che fa affari con l’IS” ha fatto avere al “ricercatore” un documento interno di 24 pagine intitolato “Principi amministrativi che governano lo Stato Islamico” e destinato “alla formazione dei quadri amministrativi”: un progetto statuale “pensato nei minimi dettagli”: una amministrazione centrale composta da 16 ministeri, “l’istruzione”, la propaganda, la “integrazione fra locali e immigrati”. Con l’alto e ambizioso ideale di non limitarsi alla guerra santa, bensì di “unificare la umma (la comunità dei credenti) sotto una sola identità musulmana – deve essere un sistema inglobante destinato ad educare le generazioni future” (sic: abbiamo visto dall’industriale di Aleppo come i terroristi abbiano lasciato i bambini senza scuole per due anni).
Uno stato modello? No, concedono Guardian e Le Monde. Per esempio “la distinzione fra spazio siriano e iracheno resta nonostante lo IS abbia abolito le frontiere disegnate dagli accordi Sykes-Picot” ( ricordiamo che l’IS si spostò dalla Siria alla conquista dell’Irak sunnita nel 2014, dove prese l’armamento americano senza colpo ferire, senza essere bombardato dall’Air Force…oggi è stato lasciato dominare 10 milioni di abitanti).
Sopratutto – cito – “l’equilibrio finanziario del califfato poggia per grande parte (circa i due terzi) sull’estorsione delle popolazioni, sotto apparenza di tassazione”: ed è qui il trucco. Che c’è di male nell’estorcere due terzi dell’introito statale sotto apparenza di tassazione? Non fanno lo stesso gli stati europei, non fa lo stesso la UE, dopotutto?
Il rapporto sorvola invece sulle altro fonti di “equilibrio finanziario”: gli affari sporchi del petrolio con gli Erdogan ed Israele (si allude con discrezione alla “gestione delle risorse naturali” che il Califfato “considera come “la chiave per l’indipendenza”: sembra che parlino di statisti del livello di Colbert); soprattutto , nemmeno una riga sui milioni che ricevono dai Sauditi e dal Katar che permettono loro di mantenere e stipendiare 30 mila jihadisti venuti da fuori, ed anche mercenari occidentali molto ben pagati); gli armamenti e gli addestramenti forniti dalla Cia, i rifornimenti lanciati coi paracadute in Irak sotto apparenza di “bombardamenti”: quei bombardamenti continui da un anno e mezzo, sotto i quali il Califfato è prosperato. Come diceva Barak Hussein Obama, nessuna fretta, si trattava di “contenere ed ultimamente distruggere” lo Stato Islamico.
Adesso si vede chiaramente che il progetto di Obama (la cui appartenenza ai Fratelli Musulmani, da tanti sospettata diventa una solida ipotesi – vedi sotto) è di creare un “Sunnistan” attraverso Siria e Irak, di cui controlla un terzo dei territori. Uno “stato” stabile con cui ci si sarebbe dovuti rassegnare, un giorno o l’altro, a stringere rapporti internazionali, piaccia o non piaccia, e che si sarebbe evoluto in una formazione statuale più o meno normale, rispettabile, accettabile in confronto ad Assad: il quale, come noto, “must go”. Perché è crudele (sic ).
L’intervento russo – e ancor più le rivelazioni russe sui traffici degli Erdogan con questi delinquenti – ha ricondotto Daesh alla sua vera natura, di una organizzazione criminale, ancorché ricchissima e sostenutissima dall’Occidente – e da Erdogan e sauditi.
La finzione nobilitante continua come mezzo di propaganda. In realtà, l’America ha chiamato a raccolta gli “alleati” per difendere questo Sunnistan in pericolo.
Per l’Arabia Saudita in Yemen combattono e muoiono in Yemen contractors della ex Blackwater, una quindicina fra cui britannici, francesi, australiani oltre a sei colombiani, attratti da una paga di mille dollari a settimana…in fondo, i valori americani e quelli dei sauditi e del califfato non sono poi così distanti. Anche i Rockefeller fu un “robber baron”, e adesso è una dinastia onorata sui mercati….
A questo punto, ormai diventa chiaro quel che sostiene William Engdahl: “L’ISIS è un esercito saudita in maschera”, con Erdogan a fare “il lavoro sporco come il buttafuori in un bordello”. Se l’F-16 turco ha potuto abbattere il Sukhoi, è stato perché assistito da un Boeing AWACS appartenente al regno saudita e non agli Usa, come si è creduto in un primo tempo. Secondo Engdahl, la monarchia wahabita punta ad occupare (con il suo “Stato” islamico) la parte sunnita dei più ricchi giacimenti di Irak e Siria, onde poi esercitare un monopolio di fatto verso le clientele occidentali.
Barak Hussein Obama è un Muslim Brother?
L’accusa è stata elevata nel 2013 dal vicepresidente della Corte Costituzionale in Egitto , Tahani Al Gebali. Ed è stata in qualche modo confermata da un articolo del Washington Times del 3 giugno 2015: sotto forma di “espandere la democrazia”, i servizi Usa hanno acceso le “primavere arabe” che tendevano poi a tradursi nella presa di potere dei Fratelli Musulmani. Ci sarebbe una direttiva presidenziale segreta (Presidential Study Directive-11, or PSD-11) del 2011. http://www.washingtontimes.com/news/2015/jun/3/inside-the-ring-muslim-brotherhood-has-obamas-secr/?page=all
Il progetto poi è fallito perché i Muslim Brother semplicemente si sono dimostrati privi della cultura politica per governare stati moderni, e si sono abbandonati ad atti di terrore contro minoranze religiose, o avversari politici, di pretto stampo wahabita. In Egitto, la popolazione ha preferito tornare sotto i militari, pur dopo aver votato i Fratelli, constatandone la feroce, regressiva ottusità.
Del resto, lo stretto rapporto dei servizi Usa con la Fratellanza è di antica data. Risale agli anni ’50, quando l’allora capostazione della Cia al Ciro, Miles Copeland, organizzò il trasferimento dei vertici dei Fratelli Musulmani, messi fuorilegge in Egitto per il tentativo di assassinare il presidente Nasser (potete immaginare chi suggerì quell’attentato?). I Muslim Brothers furono accolti in Arabia Saudita, dove unirono alla ideologia originaria del loro fondator,e Al Banna, un egiziano con simpatie per i fascismi europei, il più stretto e regressivo wahabismo della Casa…