di Roberto PECCHIOLI
Il 2017 termina e tornano a suonare le trombe di chi afferma che il peggio è passato. Dicono che siamo tornati in forma e le principali statistiche economiche (piegate agli interessi mainstream) mostrano che siamo tornati al 2007, l’anno in cui è iniziata la grande crisi.
E’ facile ribattere che abbiamo perduto un decennio in termini di ricchezza, produttività, lavoro. Inoltre, abbiamo accumulato un ritardo intollerabile senza che alcuna riforma sia stata messa in cantiere. L’ex presidente francese Sarkozy affermò nel 2012 che occorreva cambiare il capitalismo depredatore. Vasto programma, avrebbe commentato il suo grande predecessore De Gaulle, neppure tentato dal marito di Carla Bruni, dal successore socialista Hollande né da nessun membro della classe dirigente europea, afflitta da vigliaccheria, incapacità di direzione e, soprattutto, costituita da diligenti funzionari delle vere oligarchie al comando. La realtà è che, dopo un decennio perduto e drammatico, non sono in vista cambiamenti: il capitalismo globalista è irriformabile.
Una buona notizia è la pronuncia della Corte di Giustizia europea contro Uber, la piattaforma americana considerata finalmente per quello che è, un’organizzazione di intermediari del trasporto che deve sottostare alle regole pubbliche del settore. Speriamo, oltre a salvare il lavoro dei tassisti, che la sentenza permetta agli Stati di far pagare le imposte alla piattaforma di Travis Kalanick (fatturato 6,5 miliardi di dollari). I segnali in questo senso, almeno da noi, non sono incoraggianti: la cosiddetta web tax sui giganti della rete è stata rinviata e dimezzata nel corso del cammino accidentato della legge di bilancio. Si fregano le mani Airbnb, Amazon, Facebook e gli altri colossi.
In questi giorni, gli stessi esponenti di governo hanno confessato l’importo della fattura bancaria in Italia: la bazzecola di 44 miliardi. A questo punto, diventa un semplice aneddoto la vicenda personale di Maria Etruria Boschi, il cui capo politico, Matteo Renzi ha votato la direttiva europea sui fallimenti delle banche che pone i debiti a carico di obbligazionisti e clienti, bail in, criptica parola in lingua di legno per nascondere un nuovo episodio di criminalità finanziaria.
Sempre da noi, le statistiche sbandierano fantasmatici aumenti del PIL, non ancora tornato al livello di dieci anni fa, oltre a dati sull’occupazione ampiamente manipolati. Premesso che vengono considerati occupati anche poveri cristi che lavorano un paio d’ore alla settimana, finito l’effetto jobs act (fiscalizzazione degli oneri sociali sui nuovi assunti) solo un quarto dei nuovi posti di lavoro è a tempo indeterminato. Sono cifre ufficiali fornite dall’INPS, tutto il resto è precariato variamente definito, tempo parziale, apprendistato allungato, contratti di somministrazione, ovvero lavoratori a ore pagati da qualcuno ma in carico alle agenzie interinali ed altre amenità.
Ci fanno credere, qui e nel resto del continente, che tutto va bene perché il tasso di disoccupazione è lievemente sceso (con l’aiuto delle tecniche statistiche citate) e che la relativa crescita registrata, dogma indiscutibile, non sia dovuta al basso prezzo del greggio ed agli interessi sotto i minimi storici. Vendono a caro prezzo l’illusione della ritrovata prosperità a società vecchie, stanche, impaurite e disarmate di fronte ai problemi. Pochi sanno che a livello nell’Eurozona esiste un indicatore economico chiamato NAIRU (not accelerating inflaction rate of unemployment), il tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione, frutto della follia ideologica monetarista per cui si calcola quale sia il “giusto” livello di disoccupazione per non far aumentare l’inflazione. La curva di Phillips, come è noto, dimostrò che la disoccupazione diminuisce all’aumentare dell’inflazione, ma il cinico ordoliberismo della BCE e delle istituzioni europoidi ha scelto più disoccupazione, ovvero più povertà, piuttosto che una moderata inflazione in grado di aiutare la ripresa del lavoro.
E’ un sistema che non può essere cambiato dall’interno. Al di là delle statistiche manipolate, viviamo in un mondo sempre più disuguale, una piramide in cui il vertice è letteralmente padrone di tutto, per quanto ci siano in giro negazionisti che difendono il vigente modello di distribuzione di ricchezza. Gli indici sono univoci: maggiore povertà assoluta e relativa, distruzione dell’ambiente senza paragoni con il passato e supremazia dell’attività finanziaria sull’economia reale, la certezza che scoppierà presto una nuova bolla. Non è che la normalità in questo meccanismo perverso, in cui nulla importa che l’Italia abbia dieci milioni di poveri, il numero più elevato dell’Unione Europea. Triste primato dei governi democratici, progressisti e di sinistra!
I mercati finanziari continuano a registrare massimi storici, a nulla valendo che gli indici sono del tutto sconnessi dalla realtà imprenditoriale ed economica, il che genera la massima accumulazione di rendita e ricchezza in pochissime mani, le solite, riducendo il margine per le imprese, costrette a non fare quasi più ricerca, innovazione e per conseguenza a non creare più impieghi di qualità.
Nella maggior parte delle economie, si produce sempre meno qualità, è stata abbandonata la vecchia idea del pieno impiego, si è sostituito l’ “antiquato” metodo della contrattazione con nuove schiavitù , le cui massime espressioni sono i riders delle potentissime piattaforme tecnologiche che ci servono cibo scadente, distribuiscono posta urgente, affittano al ribasso stanze ed alloggi, vendono qualsiasi merce da un server centralizzato trattando come servi della gleba i dipendenti dei magazzini e gli incaricati del recapito. I sindacati, con tutti i loro difetti, sono lasciati fuori dalla contrattazione collettiva e adesso i padroni del vapore esaltano l’efficienza delle relazioni individuali, che i governi di destra e sinistra si incaricano di tradurre nella legislazione. In quest’ambito, risulta difficilissimo individuare differenza programmatiche tra i liberali di sinistra (Renzi) e quelli sedicenti moderati, il cui leader Berlusconi è stato il primo cantore italiano del principio “diventare imprenditori di se stessi”, la cui pratica traduzione è offrirsi al minor offerente per lavori temporanei, con scarsa o nulla copertura previdenziale, da nomadi con trolley e domicilio in camera d’affitto con l’intermediazione di Airbnb.
La finanziarizzazione dell’economia, oltre a ridurre l’occupazione e gli investimenti produttivi, ha prodotto una forte diminuzione della componente di salari e stipendi nel complesso del reddito nazionale. In Italia il tracollo ha raggiunto percentuali a due cifre in pochissimi anni. In termini reali, i salari hanno subito una tendenza al ribasso, in molti casi divergente e scollegata rispetto alla produttività. Ciononostante, tutte le evidenze empiriche dimostrano che i lavoratori ben pagati sono più produttivi, talché questo stesso sistema sega l’albero su cui vive e prospera. I risultati delle analisi non conformi vengono ridotti al silenzio dai mezzi di comunicazione, negati e ridicolizzati dai responsabili dell’economia pubblica ed accademica per carrierismo ed opportunismo. Sono tanti i dottori dell’economia neoclassica che mentono e sbagliano previsioni, sembrano meteorologi del giorno prima, la cui allergia irrazionale all’intervento pubblico ed alla spesa sono direttamente proporzionali alla mediocrità intellettuale intrisa di conformismo.
Il silenzio sul nesso di causalità tra lavoro ben pagato e produttività nasconde un profondo abisso ideologico, mentre in assenza di un vero dibattito politico e culturale, il risultato della lunga crisi e la presunta ripresa vengono relegati ad episodio ciclico, con la particolare connotazione della guerra disuguale tra creditori e debitori di somme matematicamente impagabili. Dobbiamo lavorare di più ed impoverirci costantemente all’unico scopo di pagare gli interessi di un debito teorico grande molte volte il PIL mondiale – dunque costituito da somme inesistenti in natura – il che rende impossibili gli investimenti delle imprese e dei privati.
Il sistema, per sostenere se stesso, favorisce l’indebitamento dei privati per consumare, pagare il pranzo di Natale e le vacanze estive, davanti al rifiuto di imprese e governi di pagare salari degni. Contemporaneamente, molte imprese si vedono obbligate a emettere obbligazioni, certificati di debito o acquistare sul mercato le loro stesse azioni per soddisfare l’appetito insaziabile a breve termine degli investitori/speculatori, anziché utilizzare tali fondi in ricerca, macchinari, innovazione e salari. Tale modello impedisce di ingrandirsi e di competere davvero, tanto più che un numero enorme di piccole e medie imprese superstiti sono di fatto vassalle delle grandi corporazioni, dalle quali dipendono per la formazione dei prezzi, le modalità di pagamento, quantità e qualità della produzione. Il vizio pericoloso dell’indebitamento per tentare di crescere nasconde a fatica la profonda crisi che devasta la maggior parte del pianeta.
Da un punto di vista politico, le regole di spesa e il dogma della sostenibilità delle finanze pubblica sono un cappio a cui si sono impiccate tanto le destre politiche e sociali (quelle economiche ne sono ovviamente entusiaste) che i residui della socialdemocrazia. Non se ne esce, insomma, con la conseguenza del blocco degli investimenti (il denaro “deve” scarseggiare, è l’apriori dell’ideologia neoliberale monetarista) e della disoccupazione diffusa, alleviata parzialmente dalla sottooccupazione e dagli impieghi stagionali e temporanei. Paradossalmente, nelle amministrazioni territoriali la crisi non risparmia neppure gli enti virtuosi, costretti a tenere bloccati in banca i residui attivi da lacci e lacciuoli e regole assurde, tra le quali quella che restringe gli investimenti se gli stessi superano la previsione di crescita globale. Solo la Francia, in Europa, resiste da sempre a tale condizione, mantenendo percentuali di spesa e entrate pubbliche elevate. Da decenni, nell’Esagono vige un’economia a misura nazionale, con forte intervento pubblico, come sa il governo italiano nella vicenda di Finmeccanica e della nazionalizzazione del 51 per cento dei cantieri navali di Saint Nazaire.
L’ossessione storica per il controllo della spesa pubblica, dell’inflazione e le relative regole sono un’imposizione dell’ordoliberalismo tedesco, arricchiscono l’area germanica ma impoveriscono tutti gli altri.
Dopo il tremendo caso Grecia, che è stato sul punto di spezzare l’Eurozona seminando miseria generalizzata nella nazione ellenica, svenduta per quattro soldi agli interessi tedeschi, gli stessi che avevano effettuato prestiti per così dire spericolati alle esauste finanze di Atene, molti speravano in un cambiamento di paradigma. Impossibile: dopo aver spezzato la culla della civiltà europea e gettato nel precipizio Spagna, Portogallo e la stessa Italia nulla è cambiato poiché le ideologie (il monetarismo neoliberale lo è ed è iscritto nei trattati europei) deformano la realtà.
Si è preferito costruire una sorta di costosissima illusione ottica a carico dei bilanci nazionali, cioè dei popoli, creando un rimedio peggiore del male, il Meccanismo Europeo di Stabilità, nonché obbligando i governi a rispettare un criterio arbitrario, quello del rapporto deficit PIL al tre per cento. Hanno mischiato cavoli con patate, giacché il debito è uno stock e il PIl un flusso. Il MES, una specie di FMI in salsa europea è finanziato con somme ingentissime, il conto finale per l’Italia sarà di 125 miliardi di euro, ed lo scopo è di finanziare gli Stati in gravi difficoltà, con l’obbligo esplicito di svolgere le politiche dettate dal Fondo, qualunque cosa pensino i popoli. Paghiamo per perdere il residuo di sovranità economica, versando denaro nostro a chi ce lo presterà a gravose condizioni. Nessuno parla tuttavia di politiche fiscali concordate, di bond europei, l’idea niente affatto peregrina di Giulio Tremonti e meno ancora di restituire agli Stati il potere di emissione monetaria e la fissazione del tasso di sconto.
Peraltro, non si riesce neppure a mettere in campo una politica comune dei paesi debitori nei confronti dei (presunti) creditori del Nord Europa; i pur timidi tentativi di riformare l’Euro saranno implacabilmente frenati dalla Germania e dai suoi satelliti. Sullo sfondo, resta il grave problema demografico dell’Europa intera, alla base di quasi tutti i nostri problemi, che nessuno affronta, i più anzi negano testardamente o cercano di risolvere con la criminale sostituzione etnica di cui siamo testimoni, l’inveramento dell’esercito industriale di riserva intuito da Carlo Marx. In sostanza, siamo all’inizio di una fase statistica di crescita moderata senza aver risolto alcuno dei problemi strutturali dell’ultimo quarto di secolo.
Ci addentriamo cioè nella terra desolata di una povertà relativa generalizzata, bassi stipendi, basse percentuali di popolazione attiva, disoccupazione, una demografia esplosiva che impedirà di finanziare qualunque politica sociale, l’irruzione di una rivoluzione produttiva legata alle tecnoscienze, dalla robotica alla cibernetica che renderà obsolete centinaia di professionalità, inoccupabili e non ricollocabili milioni di lavoratori di tutte le età, anche di elevata qualificazione. La risposta della politica è nulla: zero progetti, nessuna idea nuova, tanto meno la messa in discussione dei fondamenti di un sistema che si sta rivelando un incubo per la stragrande maggioranza degli esseri umani.
L’euro, come il capitalismo globalizzato delle grandi corporations non possono cambiare poiché gli interessi in gioco sono immensi e i padroni di tutto tengono in pugno governi e popoli, fino a distruggere le speranze di riscatto e impedire il formarsi di opposizioni di sistema.
Hanno vinto su tutta la linea, finora, e la gran parte dei popoli sono stati condizionati a vivere di consumi indotti, spettacoli, calcio, giochi e lotterie, sesso compulsivo, alcool, droghe: i paradisi artificiali per dimenticare a pagamento vite vuote, penose, una regressione morale, civile e sociale senza precedenti nelle generazioni passate. L’abbandono scolastico di molti, unito al basso livello qualitativo degli studi ha interrotto l’ascensore sociale, o peggio funziona solo in discesa. Purtroppo, chi ci malgoverna a nome dell’oligarchia conta sul sostegno passivo di una parte cospicua della popolazione. Sono le caste di sottopotere, certo, ma anche una classe media (tendente al basso) passiva, semicolta, troppi giovani abbagliati dal modello generazione Erasmus e da una vita di consumo e disimpegno.
E’ la parte di popolazione che ha creduto, anzi ha “comprato” sul mercatino delle idee usate la nuova versione di Robin Hood sceneggiata dai potenti. Secondo tale quadro concettuale, i nuovi poveri- la maggioranza- sono pigri, sfaticati, non sufficientemente flessibili. I ricchi sono al contrario quelli che lavorano duro e meritano dunque redditi elevati e privilegi esistenziali.
L’origine della situazione risale agli anni Ottanta, liberalismo più inizio del dominio dell’allora comunità europea. Che consegnarono l’Italia ad un futuro di dipendenza e deindustrializzazione. Senza una riconversione industriale, la liberalizzazione dei mercati di beni e servizi, uniti alla mobilità dei capitali favorita dalle tecnologie informatiche non poteva che risultare nefasta per il nostro futuro tra gli applausi sciocchi delle cosiddette élites.
L’irruzione dell’euro ha completato il disastro. Vittoria totale dei poteri non elettivi (finanza, tecnica, multinazionali, lobby) e dimenticanza assoluta di due rapporti informativi successivi, Werner e Mac Dougall) in cui si insisteva sulla necessità di una autorità fiscale europea federale e dei pericoli di lasciare tutto il potere nelle mani della Banca Centrale, entità estranea ai governi.
La conclusione è sconfortante: né il capitalismo modello globale, né il sistema Euro sono riformabili. Vanno combattuti e, quando possibile, abbattuti. La fase attuale è ancora quella di una paziente pedagogia sociale, unita a politiche concrete che restituiscano pezzi di sovranità agli Stati e alle nazioni. Nicolò Machiavelli, fondatore della scienza politica, scrisse che gli elementi della essenziali della sovranità sono due: un esercito che difenda i confini e il controllo della moneta. Umiliante il confronto con il nostro presente.
Il segretario fiorentino non si sbagliava; il mondo, l’Europa e l’Italia sono quindi nel mezzo di una sconfitta politica e civile senza precedenti. Questo è il dramma; la tragedia è che i prigionieri della caverna neo capitalista non sanno più che fuori esiste un altro mondo.
Trionfa l’Unico, ma il trono forse scricchiola. Niente è per sempre, ha da passà ‘a nuttata, Eduardo De Filippo, Napoli milionaria…
ROBERTO PECCHIOLI