di Roberto Pecchioli
Il viandante stremato che percorre un’interminabile pista assolata nel deserto si sorprende del ristoro inatteso offerto da una fontana e da un albero ombroso scorti all’improvviso. Questo ci è capitato, navigando su siti di informazione, alla lettura di un ampio resoconto dell’omelia pronunciata dal vescovo di San Sebastiàn, monsignor Josè Ignacio Munilla, pubblicata su uno dei maggiori quotidiani spagnoli, il monarchico ABC. Il titolo è l’esatto incipit del discorso: “Considero un paradosso idolatrare la libertà in un mondo pieno di gente con dipendenze.” La traduzione italiana “persona con dipendenza” non restituisce nella nostra lingua la pregnanza del termine “adicto”, l’aggettivo che in castigliano designa la condizione di chi è sottomesso a uno stile di vita, una condotta, un prodotto o una pulsione che si è impadronita di lui, e di cui non è in grado di liberarsi. Il più classico esempio è quello del tossicodipendente (drogadicto, in spagnolo), o dell’alcolista.
Sembra paradossale denunciare una dipendenza dalla libertà, ma il prelato basco ha colto nel segno. E’ davvero incomprensibile, ha affermato Munilla ai suoi fedeli il giorno dell’Assunzione, 15 agosto, ormai per tutti solo ferragosto, culmine e simbolo delle ferie e delle vacanze, che sia idolatrata la libertà proprio da coloro che sono dipendenti da qualcosa, ovvero sono schiavi. Schiavi è vocabolo forte, che costringe a riflettere, una scossa che proviene, finalmente, da un eminente uomo di chiesa. Le parole hanno sempre un peso quando fioriscono sulle labbra di uomini abituati a sceglierle con cura. Ecco perché sorprende l’uso dell’altra parola forte con cui il presule ha introdotto la sua riflessione dal pulpito, idolatria.
L’idolatria richiama l’adorazione esaltata, il fanatismo, l’ammirazione sfrenata per qualcosa che non è degno, un idolo, appunto, un feticcio, un semplice simulacro, qualcosa di falso e di ingannevole. Nell’antico testamento, si parla del Vitello d’Oro, la statua simbolo del denaro e delle passioni mondane adorata dagli ebrei sulla via del ritorno dopo la cattività egiziana. Il vescovo della bella città atlantica ci getta in faccia con brutale chiarezza la nostra condizione di schiavi ed insieme di idolatri, a costo di attaccare uno dei tabù più forti del nostro tempo, quello della libertà. La passione sfrenata per una libertà indistinta si è impadronita dei nostri cuori, ha scacciato ogni altro principio sino a renderci dipendenti, schiavi di un idolo che degrada uno dei sentimenti più nobili ed elevati dell’animo umano.
Alla libertà, intesa in senso intellettuale, politico e morale dedicò versi formidabili il sommo Dante: libertà va cercando ch’è sì cara/ come sa chi per lei vita rifiuta. In bocca a Virgilio, la ragione umana, i versi sono rivolti a Catone Uticense, suicida per non aver potuto rinunciare alla libertà politica conculcata da Cesare; significativamente, per la sua fortezza, il grande romano non è collocato all’inferno nella Commedia, ma è addirittura il guardiano del purgatorio. Fu gran profeta Johann Wolfgang Goethe, nel romanzo Le affinità elettive, scrivendo “nessuno è più schiavo di chi si crede libero senza esserlo”.
Chi domina il nostro tempo decadente ci ha persuaso di una libertà che si è fatta idolatria, assenza di regole, odio dei vincoli e dei limiti, e sta forgiando un’umanità in cui le mille dipendenze si sono convertite in pulsioni così forti e persistenti da divenire un obbligo inderogabile, come la dose del tossico e la bottiglia dell’alcolista. Il pensiero corre a Tocqueville ed alle sue indimenticabili pagine sull’uguaglianza. Secondo il conte normanno, la passione per l’uguaglianza avrebbe costituito la più grande minaccia per la libertà, unita alla dittatura della maggioranza. Egli forse commise l’errore, come sostiene Alain De Benoist, di non riconoscere che la passione per una libertà astratta, indistinta, non definita, priva di contorni e limiti, è altrettanto fatale che l’idolatria dell’uguaglianza.
Probabilmente, vide giusto un altro pensatore francese, Marcel Gauchet, scoprendo che la libertà di cui i postmoderni vanno tanto fieri da farne una passione idolatrica è fondata su una mitizzazione, quella dei diritti individuali, che è una logica dell’illimitato, portata dall’” astrazione del diritto che non si arresta mai”. Nota altresì l’autore del “Disincanto del mondo. Storia politica delle religioni” che l’accento posto sulla libertà individuale proibisce di creare le condizioni della libertà collettiva. Questo è esattamente l’obiettivo della società di mercato e consumo che depotenzia la politica ed ogni dimensione comunitaria. Ha dunque ragione il vescovo Munilla a denunciare l’esaltazione della libertà in un mondo di schiavi. Una delle trappole del nostro tempo è la prevalenza di concetti omnibus, buoni cioè per tutte le stagioni, falsi universali a cui si rende un omaggio rituale e superstizioso, come ai totem delle tribù che definiamo primitive. Insieme a progresso, umanità, democrazia, giustizia, solidarietà, libertà è una di quelle parole dal significato opaco dalle quali tuttavia è proibito non diciamo dissentire, ma anche argomentare.
Nessuno è stato in grado di definire che cosa sia la libertà, al di là delle distinzioni su antichi e moderni introdotte da Benjamin Constant e delle fumose questioni circa le preposizioni che accompagnano il termine: libertà “di”, “da” (ovvero liberazione) o libertà “per “. Chiaro è la prevalenza assoluta di un’indigesta combinazione tra l’idea di libertà come assenza o liberazione da vincoli, costrizioni, idee ricevute, e una sorta di coazione alla libertà, una spinta pressoché obbligatoria a vivere ogni esperienza, a provare tutto, ad abolire i limiti, sino alla trasgressione vissuta come quotidianità, il che è ovviamente assurdo, giacché ormai non si sa più che cosa trasgredire, se non il nuovo conformismo libertario/libertino di massa.
Il cristianesimo accolse sin dall’inizio il principio del libero arbitrio, accettando l’indipendenza sostanziale della persona umana, ma collocò la libertà nell’alveo della legge naturale. Ha cioè riconosciuto l’esistenza del bene e del male e, soprattutto, la sua conoscibilità attraverso la ragione. Seguendo Aristotele, ha celebrato la virtù e l’ideale della vita buona, ovvero conforme a natura, affermando che la libertà ha lo scopo di farci scegliere il Bene. La modernità, dall’illuminismo in poi, ma già con Spinoza e la sua Etica “more geometrico demonstrata”, crede nel contrario. Non esiste il bene, dunque specularmente neppure il male (smentendosi peraltro clamorosamente nei fatti, nei comportamenti, nello spirito delle leggi positive). Sono io individuo insindacabile a scegliere, determinare, pretendere la libertà assoluta (ovvero sciolta da vincoli, legami, frontiere morali e legali) per i miei comportamenti.
Munilla, che utilizza il criterio ed il linguaggio cattolico, così si esprime: “La grande eresia del nostro tempo è la contrapposizione tra la verità e l’amore e tra la giustizia e la misericordia.” Di sfuggita, ci piace che un vescovo riabiliti una vecchia parola diffamata, arcaica anche presso la neo chiesa: eresia, cioè dottrina palesemente opposta alla vera fede.
Esiste dunque la verità, e nessun sentimento umano, neppure l’amore le può essere anteposto. Contro Nietzsche, che pure capì per primo la tragedia che si sarebbe consumata con la morte di Dio nel cuore dell’uomo comune, non è vero che ciò che è fatto per amore è al di là del bene e del male. L’intenzione non giustifica, e di benintenzionati che hanno fatto cose pessime o orribili sono piene le fosse. La mitizzazione della classe, della razza, della nazione, della libertà individuale e economica, l’eugenetica assassina nascono, in principio, da un atto di amore esclusivo verso qualcosa che si torce in odio per il contrario. L’assurdo logico del matrimonio omosessuale è stato giustificato da figuri di ogni genere come vittoria “dell’amore”. Eppure, “maschio e femmina li creò”, secondo il Genesi, ma anche secondo verità pacificamente accettata ovunque per millenni.
Ugualmente, non tutti i comportamenti e le scelte che corrispondano, genericamente, alla logica dell’amore, sono buone o giuste, non tutte rispettano la verità. In questo senso, la giustizia è la conformità al bene di cui possediamo la chiave, bussola della verità, per cui vale il principio di responsabilità personale. L’uomo contemporaneo sembra aver abolito il male e la colpa, il delitto ed anche il castigo: Dostojevsky fu il primo a comprenderlo. I confini tra bene e male esistono e non può essere tollerata – meno ancora resa legale – alcuna zona grigia. Raskolnikov uccide la vecchia usuraia per provare l’equivalenza dei valori e per superomismo, non per un malinteso senso di giustizia di fronte alla pessima vita di Aliona Ivanovna. La sua redenzione deve quindi passare necessariamente per il riconoscimento del male, il tormento morale che ne deriva, l’espiazione e la speranza del riscatto, rappresentata dalla figura di Sonia, la povera ex prostituta figlia di un ubriacone, metà Maddalena e metà Madonna. Tutto ciò è incomprensibile all’uomo moderno occidentale, che liquida ogni forte questione di principio come antiquata, estremista o persino come patologia psichiatrica.
Con buona pace di chi oggi siede pro tempore sul soglio di Pietro, non vi è misericordia senza giudizio di valore e di merito. La misericordia non può essere invocata senza un’ammissione preventiva: ho commesso il male, l’ho capito, desidero cambiare, spero nell’aiuto degli uomini e, da credente, nella comprensione trascendente di Dio. La libertà non può essere capriccio, indifferenza per le conseguenze personali, etiche e comunitarie dei comportamenti: essa è sempre iscritta in un orizzonte comune e non è vero o giusto che “nessuno mi può giudicare”. La tempra di ognuno, anzi, è fondata sulla natura esigente della coscienza morale, che fa di me il giudice più severo delle mie condotte e delle loro autentiche motivazioni. Non è per caso che la liturgia cattolica, all’inizio della Messa, ci impone di ammettere le nostre colpe, riconoscere e giudicare il male entro di noi, che la dottrina chiama peccato, con una formula carica di pretese, se vogliamo drammatica: “ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni” e la responsabilità non è della società, della libertà malintesa o di chiunque altro, è la mia.
Dopo aver condannato come “grande inganno del pensiero contemporaneo” la dialettica che rende inconciliabili l’amore e la verità, il vescovo Munilla prosegue nelle sue affermazioni politicamente e neo cattolicamente scorrette osservando: “è un paradosso che la libertà sociopolitica sia stata tradizionalmente rivendicata dai settori liberali e progressisti e nonostante ciò siamo testimoni di come gli stessi ci impongano un pensiero unico al servizio del nuovo ordine mondiale.” Frasi che sono balsamo spalmato sulle ferite di tanti credenti sconcertati dal relativismo della neo Chiesa, dalla sua adesione al verbo dei nemici di sempre, lasciati soli dinanzi ad un pensiero che è il contrario dell’insegnamento tramandato, il depositum fidei di un tempo.
Presso Dio, prosegue Munilla, la libertà ha un valore infinito in quanto condizione indispensabile affinché l’essere umano possa amare la verità. “L’uomo moderno ha realizzato la svolta antropocentrica per liberarsi della schiavitù della verità”. Analoga svolta è stata impressa alla Chiesa da mezzo secolo, con esiti disastrosi, ma questo il vescovo non voleva – o poteva – ammetterlo. Ciò che urge è una riunificazione interiore che ricomponga la scissione (in termini psichiatrici si chiama schizofrenia) tra l’ideale della verità e quello dell’amore, tra la giustizia e la legittima aspirazione alla misericordia, che è poi il desiderio di ricominciare, riprendere il cammino dopo essersi disfatti di ciò che appesantiva il viaggio. In questo senso, occorre ribaltare l’idea dominante di libertà. Essere liberi non è mordere la mela, vivere ogni esperienza, anche la più estrema, alzare ogni giorno l’asticella del possibile, approvare lo scatenamento delle passioni e delle pulsioni, non più dionisiaco, ma semplicemente sub umano.
Nella libertà rettamente intesa c’ è l’antico ideale greco dell’accettazione del limite, il riconoscimento che esistono questioni dinanzi alle quale fermarsi, nel silenzio e nel rispetto. Probabilmente, avevano capito più di noi quelle civiltà che chiamiamo primitive, con il loro senso del tabù, e persino quelle credenze dette animiste poiché attribuivano un senso, un’eccedenza spirituale alla natura, ai suoi fenomeni, persino agli oggetti. Il materialismo intransigente del culto del calcolo, il disprezzo per il mito e per qualsiasi condotta non governata dalla ragione strumentale hanno intossicato l’uomo sino alla passione smodata per ogni utile che ci permetta il piacere ed il capriccio. Questi sono i sentimenti malati che l’uomo moderno scambia per amore (di sé).
Fu proprio Friedrich Nietzsche a pervenire alla comprensione del nichilismo assoluto che avrebbe pervaso le generazioni postere, dissolvendo tutti i valori, non trasvalutandoli come secondo il progetto dell’uomo di Roecken. Il figlio del pastore protestante impazzì dinanzi all’abisso presso cui si era spinto scoprendo il vaso di Pandora moderno. Gli “ultimi uomini” che egli descrisse con disprezzo si limitano a lasciarsi vivere, a correre a perdifiato senza direzione verso un nulla di cui provano orrore. Occorre una svolta, un nuovo cambio di paradigma. Fino a due generazioni fa, l’uomo europeo ed occidentale poteva contare sulla civiltà bimillenaria di cui era erede e sulle chiese che l’avevano interpretata ed accompagnata. Oggi, nell’anno 2017 dopo Cristo – ma presto ci imporranno anche un nuovo calendario, come fece Robespierre – non ci resta che lo stupore di leggere come idee coraggiose le parole di un vescovo che, in fondo, ha solo ribadito i principi di sempre.
Ma tra le idolatrie della libertà dei postmoderni, persiste una passione incontenibile quanto insensata per il “progresso”. Dilatata oltre ogni logica riconoscibile, è ormai penetrata nelle regioni inesplorate dell’inconscio e dell’irrazionale. Difficile, come per la libertà, darne una definizione, ma il principio base è che oggi è meglio di ieri e peggio di domani. Non è la verità, è manifestamente una menzogna, ma ci crediamo. Dunque, sempre più progresso, qualunque cosa significhi, uguale più libertà. E’ un idolo falso e bugiardo, o, per chi preferisce il linguaggio della psicologia e della sociologia, una credenza ingenua.
Oppure un disastro, da cui ci aveva messo in guardia un gigante della poesia, l’ateo Giacomo Leopardi, ridicolizzando nella “Ginestra o il fiore del deserto” la nascente modernità, inserendo nel canto un brutto verso del mediocre Terenzio Mamiani cui assicurò immeritata celebrità “dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive “. Il genio recanatese era lontano dalla fede religiosa, ma in epigrafe alla lirica che concluse la sua prodigiosa vicenda poetica pose un versetto del Vangelo di Giovanni: “e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. Non la verità, quindi, ma la libertà cieca, passione guasta di ogni decadenza.
Roberto PECCHIOLI