Federico Rampini e il suo ultimo libro all’esame di Oswald Spengler

Di Francesco Mario Agnoli

L’essenza dell’ultimo libro di Federico Rampini “Grazie Occidente” mi sembra ben rappresentata dall’incontro (senza parole) fra l’Autore, in viaggio nell’edenico paradiso della Tanzania, e il pastorello masai, che, posto a guardia di un gregge di capre, tiene l’occhio fisso sul suo cellulare: una finestra aperta sul mondo. Da questo occasionale incontro la riflessione che il modesto gadget tecnologico (si tratta soltanto di un 3G), può essere utilizzato perché c’è campo e che di entrambi (gadget e campo) il pastorello è debitore all’Occidente dal momento che “il progresso dell’Africa è merito nostro”, cioè dell’Occidente. Un merito – riflette amaramente l’Autore – misconosciuto. Difatti le oligarchie politiche che comandano in Africa non fanno che mettere in scena all’Assemblea generale dell’ONU, nel Palazzo di vetro di New York (città dove – ci tiene a ricordarlo – Rampini risiede), processi politici contro l’Occidente (il riferimento specifico di questi processi è all’appoggio dell’Occidente a Israele).

Non è solo l’Africa a essere in debito con l’Occidente e a mostrarsi ingrata, ma il mondo intero (o quasi), troppo pronto a dimenticare “che cinesi o indiani, brasiliani o africani, il mondo è popolato da miliardi di persone che devono la esistenza a noi”. Difatti “il progresso è merito nostro” e gli altri popoli che oggi ne godono i frutti “ci hanno semplicemente copiato”. Di conseguenza, Rampini si sente autorizzato ad andare oltre il suo precedente libro del 2022, “Suicidio occidentale-Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori”, tanto da pretendere, pur nella certezza che non avverrà, i ringraziamenti dei beneficati e da intitolare un capitolo del suo nuovo lavoro “Perché possiamo dirci superiori”.

Con questo libro, un po’ curiosamente visto che l’Autore è ritenuto un liberal di sinistra, siamo, quanto a principi ispiratori, tornati all’Ottocento, e al “fardello dell’uomo bianco” di Rudyard Kipling, che avrebbe certamente sottoscritto la sua opinione sulla “nostra espansione geografica (che) univa lo sviluppo materiale a quello spirituale”. Prudentemente Rampini preferisce appellarsi, piuttosto che al sospetto imperialista e para-colonialista inglese, al franco-libanese Amin Maalouf, in realtà del tutto francesizzato, ma comunque nato a Beirut e di madrelingua araba, concorde con entrambi nel ritenere che l’Occidente regnasse “con la forza del sapere e del pensiero quanto con la forza delle armi”. Un recupero di quanto fra XIX e inizio XX secolo veniva proclamato (a volte perfino in buona fede) da tutti i pulpiti (religiosi e non) sicché non c’era bisogno di un Rampini che sottolineasse la necessità di “tornare a insegnarlo alle nuove generazioni”. A quei giovani, da molti dei quali oggi “l’America, e con essa l’intero Occidente, viene considerato l’impero del Male”.

Naturalmente cento e più anni non sono passati invano ed è verosimile che, dal punto di vista dell’Autore, per portare il fardello o, quanto meno, per rivendicare il merito di averlo portato, non sia più tanto importante il colore della pelle quanto invece “la fortuna di essere atlantici”. Così l’intitolazione di un altro capitolo, che non lascia dubbi sul fatto che l’Occidente di Rampini, sia a tutti gli effetti come quello del suo predecessore Samuel P. Huntington,“americano-centrico”. Tutto cioè a guida americana. Ma anche qualcosa di più. Il capitolo è, difatti, dedicato in particolare – non senza una certa enfasi – alla generazione di americani che ottant’anni fa acconsentì, senza avervi un proprio diretto interesse, a sacrificarsi per liberare l’Europa dal nazifascismo (per altro fenomeno, così come il comunismo marxista, del tutto occidentale) e riportarla ai suoi autentici valori. Solo apparente o, comunque non decisiva – almeno dal punto di vista dell’Autore — la contraddizione col successivo capitolo (il penultimo) “Confusione americana”, dove vengono riconosciute e criticate le attuali debolezze e crescenti inefficienze degli Stati Uniti. Un riconoscimento che comunque non incide, sminuendola, sulla radicale polemica con il wokismoche costituisce il principale filo conduttore di “Grazie Occidente”.

Tuttavia il quadro della capitale dell’Occidente che ne esce pone il problema se per caso debolezze e inefficienze non si siano estese, come sempre avviene, dalla testa a tutto l’organismo e non siano il segnale delle derive intellettuali e politiche che hanno coinvolto e stravolto sistemi di vita e principi caratterizzanti la civiltà occidentale fino a qualche decennio fa. Quando questa, pur se non era più – per dirla con Oswald Spengler e il suo Der Untergang des Abendlandes – “Kultur” nel senso di periodo di ascesa, fioritura e vivacità creativa in cui il termine è usato dal pensatore tedesco, si trovava ancora nella fase iniziale (o non vi aveva troppo progredito) della trasformazione in Zivilization. Il termine, questo, che designa la decadenza, il viale del tramonto, con le sue grandi metropoli abitate da masse di individui anonimi, privi di rapporti tra di loro, il cosmopolitismo al posto della patria, il senso pratico e l’irreligiosità scientista in sostituzione di tradizione e religiosità, il vero potere esercitato, sotto apparenza di democrazia, dai grandi gruppi finanziari in grado, con i loro capitali, di controllare i politici e di manipolare l’informazione.

Se con il wokismo e i suoi, politicamente potenti ma intellettualmente sprovveduti, rappresentanti il gioco era facile, molto più impegnativo a tutti gli effetti il confronto con lo spengleriano “Tramonto dell’Occidente”. Un confronto al quale comunque non possono sottrarsi gli aedi dell’Occidente. Come Rampini, che, difatti, vi dedica il XIV e ultimo capitolo del suo libro. Scontro così duro che, nonostante ogni sforzo (incluso l’assunto di due molto passeggere resurrezioni dell’idea di Occidente alla fine del secondo conflitto mondiale e dopo il crollo dell’URSS), l’Autore non può evitare di descrivere come “tristemente familiare” per noi, occidentali del XXI secolo, un paesaggio caratterizzato da “pandemie e cambiamento climatico, calo demografico, impoverimento economico. Sullo sfondo: tensioni geopolitiche, frontiere contestate e contese, scontri fra potenze, conflitti fra modelli culturali e valoriali, sconvolgimenti sismici nei rapporti di forza internazionali”. In altri termini, i fattori della decadenza operano tanto dall’interno (questi i più dannosi, perché coinvolgono soprattutto il futuro, le giovani generazioni) quanto dall’esterno.

Federico Rampini, pur descrivendo questo paesaggio, vuole evitare una resa totale e prospetta, in alternativa alla imprecisata nel tempo, ma forse prossima data di scadenza della profezia spengleriana, la possibilità di trovarsi “ alla vigilia di un altro rilancio come quelli che accaddero nel Rinascimento, nella Rivoluzione industriale e, ancor più di recente, nel 1945 o dopo il 1989”. Tuttavia la forza della realtà lo costringe a prendere atto di una decadenza divenuta, cent’anni dopo, agonia (alcuni dei cosiddetti “modelli valoriali” in conflitto sono un vero e proprio obbrobrio in assoluto contrasto con quel diritto naturale il cui rispetto costituisce per Spengler una delle basi della Kultur). In attesa della fine, che potrà anche tardare, ma presumibilmente non sarà, al contrario di quanto auspica Rampini, né tranquilla né preceduta da una serena vecchiaia. “Tramonto rosso sangue dell’Occidente” scrive Manlio Dinucci in un breve scritto pubblicato da Rete Voltaire il 19 maggio 2024 e ripreso in Minima Cardiniana da Franco Cardini (autore, a sua volta, di numerosi, preziosi interventi in materia, dei quali, a beneficio dei lettori, va ricordato almeno il volume, edito da Laterza nel 2023, “La deriva dell’Occidente”).

Francesco Mario Agnoli