Abstract
Nei programmi politici dei movimenti “sovranisti” c’è una incongruenza. Si tratta della “flat tax”, la cosiddetta “tassa piatta”. L’auspicio è che essa rilanci l’economia perché meno prelievo fiscale dovrebbe significare più liquidità per i consumi. E’ la risposta liberista, all’insegna del meno Stato, al deficit spending keynesiano. Ma laddove attuata la flat tax non ha affatto prodotto un rilancio dell’economia mentre ha ridotto le prestazioni sociali dello Stato. E, soprattutto, si è rivelata un boomerang per il ceto medio, ossia la base elettorale delle forze politiche sovraniste, perché essa porta ad esito ultimo il processo di dipendenza di tale ceto, e della working, class, dalla finanza privata che viene a sostituire, a credito, le prestazioni del welfare un tempo rese dallo Stato a mezzo del prelievo fiscale. Abbassare le tasse si può ma la strada deve essere un’altra ossia l’abbattimento del peso degli interessi sul debito pubblico mediante la ripubblicizzazione della Banca Centrale per sovvenire, ad interessi nulli o quasi, al fabbisogno monetario statuale.
FLAT TAX E CETO MEDIO
Una strana incongruenza
C’è una incongruenza, di origine thatcheriana, nel programma del centro-destra italiano, poi rifluita anche nel “contratto di governo” tra Lega e M5S. Si tratta della “flat tax”, la cosiddetta “tassa piatta”, che secondo i suoi sostenitori dovrebbe rilanciare l’economia in quanto meno prelievo fiscale significa più liquidità per i consumi. La flat tax, in vero, è un vecchio ed inefficace arnese di sostegno alla domanda che fa parte dell’armamentario ideologico liberista. E’ la risposta monetarista, all’insegna del meno Stato, al deficit spending keynesiano. Al di là degli aspetti etici – che pure contano e tanto – e di quelli costituzionali, in quanto senza dubbio la flat tax è un favore ai più ricchi ed è in contrasto con il principio costituzionale della progressività del prelievo fiscale, il punto sta nell’eccesso di fiducia circa i suoi effetti. Laddove attuata, la flat tax non ha affatto prodotto un rilancio dell’economia mentre ha ridotto le prestazioni sociali dello Stato, persino delle sue funzioni ritenute basilari dallo stesso liberismo come la cura delle infrastrutture viarie.
E’ noto e storicamente comprovato che la propensione alla spesa è maggiore nei ceti meno abbienti che in quelli ricchi. Per il semplice fatto che i ceti popolari, al fine di provvedere al necessario vitale, spendono tutto o quasi il proprio reddito, mentre i ricchi hanno la tendenza a tesaurizzare una volta soddisfatte non solo le esigenze vitali ma anche il capriccioso superfluo. L’idea per la quale i ricchi, lasciati fare, usano le proprie ingenti disponibilità finanziarie investendo, producendo posti di lavoro, consumando a gogò e quindi incentivando l’economia, non è puntualmente comprovata dai fatti e si è dimostrata soltanto un paradigma ideologico per coprire le politiche neoliberiste. Facciamoci la domanda: soddisfatto il capriccio di avere un parco auto di lusso con un certo numero di vetture, quando spenderà ancora un ricco miliardario in automobili di lusso? Pressoché nulla! Al contrario, un impiegato che spende tutto il suo reddito per sovvenire ai bisogni vitali della famiglia, non sarà invece propenso ad altri ulteriori acquisti, oltre il vitale, laddove vedesse il suo stipendio aumentare? Sicché un minor carico fiscale a vantaggio del ricco miliardario significa soltanto un favore alla rendita, alla tesaurizzazione, alla non circolazione monetaria.
Lo stesso dicasi per le imprese, le quali pianificano i propri investimenti guardando soprattutto alla capacità dei mercati reali di assorbire la produzione offerta. Dove il mercato, per asfissia di liquidità, non è in grado di assorbire la produzione, le imprese non investono. Ecco perché le politiche “offertiste”, che guardano solo al lato dell’offerta, alla lunga, riducendo la domanda con l’abbassamento dei salari e la precarizzazione del lavoro, implodono. In tempi di recessione, poi, gli imprenditori riducono non solo gli investimenti ma anche ogni altro tipo di esposizione. Nelle fasi negative del ciclo economico c’è un solo soggetto che può spendere, senza preoccupazioni, e far ripartire l’economia ed è lo Stato. Agli investimenti pubblici seguono, immancabilmente, per il meccanismo della fiducia sostenuto dall’aumento della domanda, anche gli investimenti privati. Ma se si toglie allo Stato la possibilità di fare spesa, o mediante politiche di austerità come quelle imposte dall’UE o mediante provvedimenti come la flat tax, allora l’avvitamento del sistema diventa inevitabile.
Verifica del fondamento effettivo delle ragioni della tassa piatta
Detto questo, resta un argomento ineludibile a favore dei sostenitori della flat tax ed è quello per il quale, effettivamente, oggi il livello di tassazione, in Italia ma anche altrove, ha raggiunto punte talmente alte, superiori al 50% del reddito, da diventare insostenibile perché sottrae risorse ai produttori ed ai consumatori.
« … il carico fiscale italiano … è pressoché raddoppiato in mezzo secolo sino ad arrivare al 43 per cento del 2015. (…). Le entrate tributarie italiane hanno superato i 408 miliardi. Di questa cifra, 225 miliardi sono di imposte dirette. Stiamo quindi parlando di somme enormi, tenuto conto che l’insieme di tutte le dichiarazioni IRPEF (reddito delle persone fisiche) relative all’anno d’imposta 2015, l’ultimo di cui il MEF abbia diffuso un’analisi completa, assomma all’imponibile di 833 miliardi di euro» (1).
Il pesante carico fiscale italiano è oltretutto senza una adeguata contropartita in efficienza dei servizi pubblici. Ed è questo un aspetto fondamentale perché svela in quale direzione andare a cercare le vere cause della tragedia. Diciamolo subito: la contropartita manca perché il prelievo fiscale non serve più, in via principale, a sostenere la spesa per i servizi ma è indirizzato soprattutto a coprire l’enorme mole degli interessi sul debito pubblico che lo Stato, non più padrone dei processi di creazione monetaria, contrae quotidianamente sui mercati finanziari. Sono questi, i mercati finanziari, a lucrare sul prelievo fiscale. I popoli lavorano e producono per – come si dice nell’odioso gergo finanziario – “servire il debito”. Attualmente infatti lo Stato, privato di sovranità monetaria, è costretto a funzionare come un esattore al servizio della finanza apolide. Questo innaturale ruolo di esattore, a vantaggio della finanza privata, lo Stato lo esercita soprattutto a danno delle piccole e medie imprese, dato che quelle grandi e le multinazionali applicano agevolmente la delocalizzazione fiscale che leggi assurde consentono loro permettendo l’allocazione della sede fiscale dove più conviene ovvero dove le tasse sono più basse. Contribuendo, così, ad innescare fenomeni di dumping fiscale e concorrenza sleale tra Stati. Alla luce di tali dinamiche la flat tax non risolverà nulla ed avrà solo l’effetto di ridurre ulteriormente i servizi pubblici provocando un ulteriore arretramento dei ceti medi e di quelli popolari a vantaggio dell’oligarchia finanziaria e capitalista transnazionale. Perché è evidente che, in caso di buco di bilancio provocato dalla tassa piatta, la scelta tra non onorare il pagamento degli interessi sul debito pubblico – con tutte le conseguenze che ne deriverebbero in termini di crollo della credibilità dello Stato sui mercati finanziari internazionali, con relativa impennata dello spread – e la chiusura di un ospedale o di una scuola, è già segnata in anticipo.
C’è, poi, chi mette in dubbio anche l’assunto secondo cui la tassa piatta, abbattendo l’evasione ed, a regime, incrementando le attività economiche, risulterebbe addirittura benefica per le casse erariali. La reagonomics degli anni ‘80, che era basata sulla curva di Laffer (per la quale oltre un certo livello di tassazione il gettito diminuisce perché il carico fiscale disincentiva la creazione privata di ricchezza), ha dimostrato l’esatto contrario. L’ampio taglio fiscale, a beneficio soprattutto dei più ricchi e della grande impresa, non ha ridotto ma aumentato il debito pubblico americano. La potenza del dollaro ed il dominio politico ed economico globale statunitense hanno impedito un disastro colossale ma non l’aumento della povertà dato che, in assenza di welfare, milioni di americani sono caduti sotto la soglia del minimo vitale.
Il ceto medio e la sua vocazione naturale
Un fisco meno esoso può essere un bene ma non in una situazione di sottrazione della sovranità monetaria. In una situazione come questa la flat tax si risolve semplicemente in un provvedimento contro i ceti medi, che sono la base elettorale delle formazioni politiche cosiddette “sovraniste” generalmente auto-collocatesi nel centrodestra. Si dimentica che i ceti medi sono la colonna vertebrale degli Stati e che, storicamente, essi si sono formati proprio grazie allo Stato nazionale il quale riuscì ad incanalare il capitalismo verso obiettivi non meramente capitalistici. La profezia marxiana, in vero una applicazione dello schema dialettico hegeliano, sullo scontro finale tra due classi, borghesia e proletariato, secondo Marx inevitabile a causa della proletarizzazione degli antichi ceti artigianali pre-industriali, non si è avverata nel XX secolo proprio perché lo Stato nazionale, dirigendo e guidando lo sviluppo del capitalismo verso obiettivi di coesione nazionale, ha potuto far leva sociale sui nuovi ceti medi che il processo di industrializzazione andava formando.
Infatti lo Stato, governando, come l’auriga platonico, la übris del capitale, nel corso del XIX e XX secolo è riuscito ad incentivare la formazione dei nuovi ceti medi, la “piccola borghesia” costituita da professionisti, impiegati pubblici e privati, militari, piccoli imprenditori, giornalisti, docenti, etc., socialmente più vicina alle classi lavoratrici ma da esse distinta per psicologia e vocazione alla leadership sociale. I ceti medi sono stati il perno del sistema di economia nazionale perché, “stretti” tra capitale e proletariato, hanno, di volta in volta, mediato tra e spesso osteggiato l’uno e/o l’altro in nome di soluzioni interclassiste più o meno avanzate e modernizzatrici. I ceti medi hanno fornito la base sociale alle rivoluzioni del XX secolo, quella fascista e quella comunista. Anche nella Russia sovietica, infatti, si formò uno specifico ceto medio di tecnici. Sia Lenin che Mussolini appartenevano alla “piccola borghesia”. Pur seguendo un percorso diverso da quello italiano e russo, anche lo sviluppo delle democrazie liberali e socialdemocratiche occidentali, nel corso del secolo scorso, è stato segnato dalla forza politica della “piccola borghesia” che si è rivelata, proprio per la sua posizione intermedia, decisiva e centrale per il patto sociale che ha guidato le politiche economiche del secondo dopoguerra. Con grandi e consequenziali vantaggi per la stessa working class la quale, a rimorchio dei ceti medi, è riuscita a conquistare diritti fondamentali e migliorare notevolmente le proprie condizioni sociali solo nel contesto stabile di quel patto sociale. Un patto garantito dallo Stato nazionale prima che la globalizzazione, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e le trasformazioni tecnologiche, non guidate, ne mettessero in discussione i fondamenti.
Il neo-liberismo e l’arretramento del ceto medio
La sottrazione di risorse fiscali allo Stato ha comportato, come conseguenza principale, quella della diretta esposizione dei ceti medi ai mercati finanziari. L’abbandono dell’erogazione pubblica dei servizi (scuola, sanità, sociale, etc.) costringe i ceti medi ad indebitarsi con le banche private per non rinunciare ai servizi privatizzati e continuare a sostenere il precedente tenore di vita. Come è accaduto, ad esempio, negli Stati Uniti a seguito delle politiche reaganiane che hanno innescato l’epocale processo di destatualizzazione postmoderna. Le politiche di austerità – e la flat tax, in mancanza di sovranità monetaria ossia in mancanza di una Banca centrale che sostenga il fabbisogno finanziario dello Stato, è un sicuro strumento di austerità perché costringe lo Stato a ridurre la sua spesa – colpiscono principalmente i ceti medi destinati così ad un arretramento sociale fino al limite della “proletarizzazione”. Marx sta conseguendo una rivincita grazie alle politiche del neoliberismo globale che hanno messo in estrema difficoltà i ceti medi formatisi nel processo di modernizzazione.
«A partire dai primi anni ottanta – è stato osservato –, la politica economica neo-liberista … alimenta gli effetti sperequati dall’apertura senza regole democratiche dei mercati nazionali. (…). E’ di moda la “flat tax” e la delegittimazione della progressività dei sistemi fiscali in nome delle virtù creatrici della diseguaglianza. E’ di moda il “trickle down”, la teoria dello sgocciolamento del benessere generato dall’arricchimento dei più ricchi in quanto più produttivi. E’ di moda l’aggressione al welfare dipinto sempre e comunque come assistenzialismo clientelare (…). E’ di moda affidare alla finanza la sostituzione del “welfare state”, indubbiamente in difficoltà. Dal “welfare state” alla “welfare finance”. L’offensiva va avanti dall’amministrazione Reagan, ma la sua codificazione massima si è avuta con la presidenza Bush figlio (…). Data la stagnazione dei redditi da lavoro, le classi medie, per continuare a consumare e permettersi stili di vita da classi medie, si sono dovute indebitare. Il debito delle famiglie degli Stati Uniti aumenta dal 40% del Pil all’inizio degli anni settanta al 100% del Pil alla fine del 2007. Nell’Unione Europea, il trend è simile: la media del debito delle famiglie sale dal 42% del Pil nel 1995 al 74,2% nel 2009. In Italia, nello stesso periodo, dal 18,2 al 34,2%. Una impennata dovuta non solo alla necessità di risorse per l’acquisto della casa. Una quota consistente del debito è finalizzata al consumo» (2).
Tutto questo accadeva mentre, prima della crisi del 2007, il debito pubblico, nell’Eurozona, era in forte discesa a partire proprio nei Paesi euromediterranei (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), per via delle politiche di austerità ossia di tagli alla spesa, quindi riduzioni delle prestazioni di welfare, e di aumenti delle tasse, volti a sostenere il debito sovrano. In altri termini, un mix di deflazione salariale, di arretramento del welfare, privatizzazione della sovranità monetaria e di incoraggiamento all’indebitamento verso i mercati e le banche, ha aumentato il divario sociale tra il vertice iper-ricco e la base povera delle società occidentali, soprattutto a danno dei ceti medi che, onde evitare la “proletarizzazione”, hanno accettato, complice la politica monetaria espansiva delle Banche centrali verso le banche ordinarie, di indebitarsi con la finanza privata. Il gioco ha funzionato fino a quando non è arrivata la crisi del 2007 che ha fatto saltare il banco – o meglio la banca – lasciando le classi medie, e quello popolari ancor di più, alla mercé della deflazione da indebitamento. La crisi ha riproposto di nuovo il problema dell’indispensabile ruolo dell’Autorità politica nella gestione, non meramente regolativa, dell’economia. Ma tuttora l’oligarchia transnazionale – nell’eurozona, la Germania mercantilista – non ne vuol sapere di rimettere in discussione il paradigma egemone.
Negli Stati Uniti – scrive Raghuram Rajam, professore di finanza a Chicago, che pure è un economista ortodosso – «la risposta del governo all’aumento della diseguaglianza (…) è stata quella di incentivare il credito alle famiglie, in particolare, ma non soltanto, quelle a basso reddito. I benefici – più elevati consumi – sono immediati e il pagamento dell’inevitabile conto rinviato al futuro. Per quanto cinico possa apparire, le amministrazioni hanno utilizzato il credito facile come palliativo per evitare di affrontare le cause di fondo dell’ansia delle classi medie. (…) “mangiare a credito” è stato il mantra dei governi nella fase pre-crisi» (3).
Ovvero il neoliberismo, demolendo il welfare, ha servito gli interessi della finanza privata gettando ceti medi e classi popolari nelle sue braccia, pronte ad accogliere i nuovi indebitati da tosare con il carico degli interessi sui debiti contratti. In tal modo la finanza privata ha aumentato i profitti delle proprie rendite a danno dei salari ma anche della produttività delle aziende, anch’esse esposte al sistema bancario sempre più deregolamentato a causa dell’abrogazione delle normative – come il Glass Steagall Act americano o la Legge bancaria italiana del 1936 – a suo tempo elaborate proprio al fine di costringere la finanza a servire il bene comune anziché parassitare l’economia.
«… è la disuguaglianza – osserva ancora Stefano Fassina – originata dal declino della civiltà del lavoro la causa di fondo degli squilibri macroeconomici, nascosti per una lunga fase dall’espansione del debito privato. (…). Degenerazione della finanza e polarizzazione nella distribuzione del reddito, alimentata dalla regressione del lavoro, sono facce della stessa medaglia. Qualcuno avido di denaro ha offerto denaro senza scrupoli. Qualcun altro, però, ha dovuto domandare o è stato indotto a domandare. I “subprime” sono stati operazioni finanziarie irresponsabili. Però, hanno consentito a milioni di famiglie di comprare la casa di abitazione. Con la distribuzione del reddito caratteristica degli anni sessanta, le stesse famiglie avrebbero potuto permettersi mutui “prime”. (…). La via finanziaria è stata la soluzione per quadrare il cerchio di redditi da lavoro sempre più sperequati, trasformazione in senso regressivo dei sistemi fiscali, smantellamento delle istituzioni di welfare e consenso delle classi medie. Senza i “miracoli” promessi dalla finanza alle classi medie, il paradigma neo-liberista non si sarebbe potuto affermare in un contesto democratico e il blocco della fase espansiva delle economie globalizzate sarebbe arrivato molto prima» (4).
Presunte virtù della flat tax
I sostenitori della flat tax additano, come esempio di buon funzionamento del provvedimento, la Russia di Putin che, applicata la tassa piatta, ha visto crescere il Pil in modo impressionante. Ma essi dimenticano che il successo dell’economia russa, almeno fino a quando il prezzo delle risorse energetiche non è iniziato a scendere, ha avuto la sua spinta, principalmente, dall’esportazione di gas naturale, ed anche di un po’ di greggio. Non è infatti un caso se – a somiglianza dell’ENI di Enrico Mattei nell’immediato secondo dopoguerra italiano – il settore energetico nella Russia di Putin è, mediante la Gazprom, nelle salde mani dello Stato. Ricordiamoci che Putin, anche ricorrendo a metodi duri e tuttavia necessari, ha dovuto sottrarre il settore energetico ai grandi oligarchi, quasi tutti esponenti della ex nomenklatura sovietica, che si erano impadroniti dell’economia russa durante la presidenza Eltsin.
Anche l’esempio del buon esito della flat tax nei Paesi dell’area baltica non è persuasivo perché cela il fatto che essa ha comportato la privatizzazione della previdenza, sicché oggi i pensionati lituani, lettoni, estoni dipendono dalle rischiose performance a breve termine dei mercati finanziari sui quali è investimento il denaro dei fondi pensioni privati. Il risparmio fiscale non bilanciato ha portato, nei Paesi baltici, ineluttabilmente alla diminuzione della copertura previdenziale e sanitaria. Cosa accadrebbe in Italia dove la spesa previdenziale ammonta ad oltre il 16,5 per cento del PIL e quella sanitaria circa ad un quarto della spesa pubblica? Sarebbe inevitabile la privatizzazione del sistema pensionistico e della sanità, che si risolverebbe in un altro grande regalo ai fondi pensioni globali ed alle assicurazioni private.
Una via alternativa alla flat tax per ridurre il carico fiscale
La riduzione del prelievo fiscale in Russia, come detto, ha funzionato senza danni perché lo Stato ha potuto contare sugli introiti che ad esso assicura l’impresa pubblica Gazprom monopolista dell’estrazione e della commercializzazione del gas russo molto richiesto sui mercati internazionali.
Questo ci porta al cuore del problema e della sua soluzione. In mancanza di una alternativa, in termini di entrate, al prelievo fiscale, nessuno Stato può permettersi di ridurre le tasse senza compromettere la stabilità sociale e nazionale. C’è, tuttavia, un altro modo per diminuire la pressione fiscale ed è quello di non pagare più gli alti tassi di interesse sul debito pubblico. Ma per fare questo è necessaria una Banca centrale che monetizza lo Stato a tassi bassissimi, sottraendolo al ricatto dei mercati finanziari. In mancanza di sovranità monetaria, attualmente, una parte cospicua, molto alta, degli introiti fiscali servono a coprire, come detto, il pagamento degli interessi sul debito pubblico contratto con i mercati finanziari. Se ci fosse una Banca centrale deputata a finanziare lo Stato, quest’ultimo non avrebbe alcun bisogno di indebitarsi con gli hedge fund e gli altri fondi speculativi né di sottoscrivere derivati per ottenere liquidità a tassi di mercato e quindi esosi. Oggi, dunque, lo Stato funziona come ente di drenaggio di risorse dal popolo verso la finanza apolide e transnazionale. E’ lo “Stato criminale e criminogeno” di cui parla l’economista Hyman Minsky, uno dei padri della Modern Money Theory. E’ il sistema dello strozzinaggio globale, direbbe Ezra Pound. Nell’eurozona, la dipendenza dagli usurai internazionali è garantita dall’impianto ordoliberale che l’UE si è data. Mentre i grandi capitali, oggi liberi, sfuggono al fisco, dato che possono pagare le tasse dove più conviene, la povera gente, piccoli imprenditori e lavoratori dipendenti, sono torchiati dal peso fiscale degli interessi sul debito pubblico, che resta tutto e solo a loro carico.
La concretezza dei dati parla da sé
Vediamo, ora, per essere più concreti, qualche significativo dato relativo all’Italia (5).
Il raffronto dei dati del PIL, del Debito Pubblico, del Deficit Pubblico, del Saldo Primario (differenza tra entrate ed uscite dello Stato al netto degli interessi) e della Spesa per interessi tra il 1980 ed il 2012 consente di attestare che il debito pubblico italiano ha avuto una forte crescita a partire dal 1981, data del famigerato “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. Il suo livello crebbe inesorabilmente da quell’anno passando dal 60% al 120% registrato solo dodici anni dopo, nel 1993. Oggi, nel 2018, secondo gli ultimi dati disponibili, esso, nonostante le inefficaci politiche di austerità perseguite dal 2011, è al 133%.
Ma il dato più significativo è quello dell’esplosione della spesa per gli interessi che, subito dopo il divorzio Tesoro-Bankitalia, si innalzò dal 4% all’8% in meno di quattro anni, ossia dal 1981 al 1984. Contemporaneamente esplose il deficit pubblico. L’aumento del deficit pubblico, nel decennio ottanta, fu causato congiuntamente dall’incremento incontrollato della spesa per interessi sul debito e dal contestuale incremento incontrollato della spesa pubblica corrente registratosi tra gli anni ’70 ed ’80. Quest’ultima crebbe per via di errate politiche nel settore pensionistico, che consentirono pensionamenti all’età di 35-40 anni (baby pensioni), e del crollo demografico, conseguente ai cambiamenti nella struttura tradizionale della famiglia provocati della dis-etica introduzione di divorzio ed aborto, che ha comportato la progressiva insostenibilità, per mancanza di turn over nella popolazione tra nuovi nati e deceduti, del sistema pensionistico retributivo e l’innalzamento dell’età pensionabile fino agli attuali quasi 70 anni.
Tuttavia, dal 1993 al 2012, ma il trend è continuato fino ad oggi (con la sola eccezione del 2009), il saldo primario restò sempre positivo, intorno al 47% del Pil. Detto in altri termini lo Stato italiano, al netto della spesa per interessi sul debito, ossia se non fosse costretto a pagare gli alti interessi richiesti dai mercati per finanziarsi, sarebbe in costante avanzo di amministrazione. Ovvero in attivo. Quando uno Stato è in attivo significa che esso non ha speso per i propri cittadini e che, dunque, ben potrebbe farlo, mediante corroboranti investimenti pubblici a sostegno dell’economia, se non fosse impedito da idioti parametri, senza alcuna base scientifica, come quelli imposti dal Trattato di Maastricht (rapporto debito/Pil al 60% e spesa in deficit non superiore al 3% del Pil) e da norme anti-keynesiane, quale il nuovo articolo 81 della Costituzione nella riforma imposta da Mario Monti, solerte esecutore dei diktat ordoliberali tedesco-eurocratici, che prevede il pareggio obbligatorio di bilancio. Una norma assurdamente introdotta in una Costituzione, come quella italiana, ispirata sin dalla nascita a ben altri criteri di sostegno pubblico all’economia nazionale.
Alla fin dei conti, attualizzando i dati in valuta corrente, veniamo a scoprire che l’Italia ha pagato tra 1980 e 2012 circa 3.100 miliardi di euro di soli interessi sul debito pubblico corrispondenti al 198% del Pil. Ovvero circa 97 miliardi di euro all’anno per 32 anni. Nel 2018, per via del contenimento degli interessi sul debito ottenuto grazie al “Quantitative Easing” messo in atto dal 2012 dalla Bce a guida Mario Draghi, la cifra annuale pagata dallo Stato italiano per gli interessi sul debito pubblico è scesa a poco più di 50 miliardi, pari al 12-13% dell’intero gettito tributario. Senza contare che potrebbero aggiungersi, nei prossimi anni, altri 55 miliardi di debito dovuti all’acquisto, da parte del Tesoro, di prodotti finanziari derivati (6). Una pratica inaugurata proprio da Mario Draghi quando, direttore del Tesoro, mentre nel 1992 pianificava con le grandi banche d’affari anglo-americane, sul panfilo inglese Britannia, ormeggiato al largo di Civitavecchia, la privatizzazione, a prezzi stracciati per via dell’attacco speculativo subito quell’anno dalla lira, del patrimonio industriale e bancario pubblico, introdusse la “finanza creativa” nei meccanismi di finanziamento dello Stato.
Secondo una simulazione effettuata tenendo fermi i saldi primari ed i valori di Pil a partire dal 1993, con un debito tendenziale al 60% come prima del “divorzio”, il debito pubblico italiano da quell’anno al 2012 sarebbe sceso intorno al 26% del Pil. Perché non vi sarebbe stata l’enorme mole di interessi pagati alla rendita parassitaria globale dei mercati finanziari. In sostanza negli ultimi venti anni il debito pubblico italiano è passato da 1.500 a 2.000 miliardi di euro restando al di sopra del 120% del Pil nonostante che il nostro Stato abbia pagato 2.000 miliardi di interessi ed abbia realizzato saldi primari attivi per 740 miliardi, come nessuno nell’Eurozona ha realizzato. I risultati delle politiche neo-liberiste sono stati nulli sotto il profilo del risanamento dei conti pubblici e assolutamente negativi sotto il profilo della crescita economica nazionale.
Se i 3.100 miliardi di euro pagati, in 32 anni, per gli interessi sul debito pubblico – cifra caricata sulle sole spalle dei lavoratori, dipendenti ed autonomi, e delle medie e piccole imprese, visto che quelle grandi, come detto, evadono o eludono il fisco –, non fossero gravati sul bilancio dello Stato, indebitato con i mercati finanziari, e quindi sul popolo italiano, ci sarebbe stato in abbondanza di che abbassare le tasse senza ricorrere a provvedimenti di efficacia più che dubbia e socialmente iniqui come la flat tax. Provvedimenti che, creando buchi di bilancio e quindi costringendo ad un maggior indebitamento statuale o ad un drammatica maggior riduzione del welfare e degli investimenti pubblici, avvantaggiano ulteriormente la finanza speculativa.
Ora ecco il punto centrale della questione. Onde evitare di pagare nei prossimi 32 anni quei 3.100 miliardi, è necessario cambiare completamente l’egemone paradigma economico ordoliberista, di matrice tedesca, impostoci dall’UE, e tornare al controllo governativo, a livello di Stato nazionale, o governativo confederale, in caso di una futura Confederazione politica europea, oggi inesistente, della Banca centrale, da nazionalizzare. La Banca centrale, infatti, nell’ambito della architettura istituzionale, deve essere l’altra faccia dello Stato, o della Confederazione di Stati, nel processo di creazione della moneta e di sostegno finanziario al Tesoro. Dimodoché anche il concetto stesso di “debito pubblico” tornerebbe ad essere quel che era prima del 1981 ovvero una mera “fictio iuris”. Infatti laddove debitore, il Governo, e creditore, la Banca centrale, coincidono il debito si estingue perché esso sarebbe soltanto una finzione contabile tra un organo e l’altro dello stesso Stato o della stessa Confederazione di Stati.
Senza la riconquista della sovranità monetaria, possibile attraverso la via dolorosa dell’uscita dall’euro o quella difficile ma non dolorosa della riforma dell’UE, non c’è scampo fiscale. Chi promette la flat tax non potrà attuarla a meno di non creare un enorme buco di bilancio e provocare l’intervento della Troika (Commissione Europea, BCE e FMI) a tutela degli interessi degli strozzini, la quale imporrà, come in Grecia, lacrime e sangue alla gente.
«L’alternativa, a voler davvero applicare la tassa piatta, è un sicuro squilibrio di bilancio nel breve periodo che produrrebbe le pesanti reazioni del “pilota automatico” chiamato troika – l’espressione pilota automatico è di uno che sa, Mario Draghi – l’esplosione comandata dell’arma letale spread, con il risultato di consegnare anche gli ultimi spiccioli a chi sta espropriando il nostro popolo, il sistema produttivo, la nazione intera. Non a caso, si parla di nuove privatizzazioni (ma si legge svendita) che impoverirebbero ulteriormente la nostra disgraziata nazione, con il trasferimento ai soliti noti, gli strozzini globali, di quanto faticosamente costruito con il sudore e il lavoro di generazioni» (7).
Per concludere
Dopo il 1989 la lotta di classe, la quale durante il ventesimo secolo aveva trovato un aggiustamento in un equo equilibrio tra capitale e lavoro, con vantaggi netti soprattutto per i lavoratori, è tornata a riesplodere con grande virulenza. Ma, ecco il punto!, a causa della globalizzazione e della prostrazione dello Stato nazione, la lotta di classe la stanno vincendo gli straricchi. Come ha pubblicamente riconosciuto uno di loro, il miliardario americano Warren Buffet. In Italia, ad esempio, meno del 20 per cento della popolazione possiede oltre due terzi della ricchezza. I grandi manager del capitalismo finanziarizzato in un solo giorno guadagnano quanto i loro dipendenti in un anno. La forbice tra vertice e base va sempre più divaricandosi perché sta venendo progressivamente meno il ceto medio, quello intermedio, in caduta libera verso la povertà, risucchiato in un processo di progressiva proletarizzazione che ormai coinvolge anche i lavoratori ed i professionisti intellettuali e non più solo i lavoratori manuali. In un contesto globale come questo, la tassazione ad aliquota unica non può che beneficiare soltanto la quota di contribuenti ricchi, che invece dovrebbero, a vantaggio di tutti, pagare le tasse in misura proporzionale alla loro ricchezza. La condizione dei ceti medi e della working class non muterebbe affatto in conseguenza della tassa piatta ed, anzi, peggiorerebbe.
Se le forze conservatrici di stampo liberale hanno tutto l’interesse a realizzare la flat tax, laddove quelle laburiste della residua sinistra radicale non possono che giustamente osteggiarla, non è affatto comprensibile per quale svista – ignoranza dei problemi o strumentalizzazioni da parte delle forze conservatrici? – i movimenti “sovranisti”, la cui base elettorale è il ceto medio, contemplano nei loro programmi la tassa piatta che è un sicuro cianuro per il proprio elettorato di riferimento. La “piccola borghesia” è socialmente incastrata tra capitale e working class, tra vertice e base sociale, ed è quindi l’ago della bilancia nella lotta di classe, potendola volgere verso soluzioni socialmente avanzate oppure regressive. Essa, la piccola borghesia, storicamente ha operato per soluzioni avanzate, benché non sono mancati casi, temporanei, dovuti a peculiari circostanza storiche e sociologiche, nei quali essa ha invece operato in senso socialmente regressivo. Ma la sua vera vocazione, che alla lunga emerge, resta sempre quella a porsi alla testa del popolo in lotta contro l’arroganza liberista e la pretesa di assoluta ed onnipotente libertà del capitale ed è solo quando, come a suo tempo osservò Gramsci, le viene contestata la leadership della lotta che essa potrebbe essere tentata dalle sirene conservatrici della destra liberista. Ecco perché le forze “sovraniste” dovrebbero riflettere a proposito di quale ruolo esse vogliono far giocare ai ceti medi onde evitare di essere, contro la loro stessa natura di forze nazionali e popolari, lo strumento delle tendenze anti-nazionali ed anti-popolari del grande capitale transnazionale. Il tema della flat tax, per le ragioni fin qui esposte, è cruciale in questa riflessione.
Luigi Copertino
NOTE
- Roberto Pecchioli “Flat tax, la tassa piatta. Opportunità o illusione?”. In www.maurizioblondet.it. 25.01.2018.
- Stefano Fassina “Il lavoro prima di tutto”, Donzelli editore, Roma, 2012, p. 26.
- Citato in S. Fassina, op. cit. pp. 27-28.
- S. Fassina, op. cit. pp. 28-29.
- I dati sono tratti dall’articolo, apparso il 23 luglio 2013 sul sito specializzato scenarieconomici.it, “Studio esclusivo: l’Italia ha pagato 3.100 miliardi di interessi i tre decenni (198% del Pil)”.
- La notizia è stata rivelata, ma solo ora e non quando presiedeva la commissione per la “spending review”, da Carlo Cottarelli, il funzionario del FMI incaricato, a suo tempo, dai governi Letta e Renzi di revisionare la spesa pubblica italiana.
- R. Pecchioli op. cit..
Luigi Copertino (Busto Arsizio, Varese, 1963) vive a Chieti. Dottore in giurisprudenza, con tesi in Filosofia del Diritto, funzionario regionale, giornalista pubblicista. Specializzato in “Studi dei valori giuridici e monetari” presso la cattedra di Teoria Generale del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo. Si occupa del pensiero teologico-filosofico-giuridico-politico-economico in stretta connessione con la concretezza della storia e con riferimento al Cattolicesimo nella sua continuità tradizionale. Ha collaborato con la cattedra di Storia e Istituzioni dei Paesi afroasiatici della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo e con l’Istituto Enrico Mattei in Alti Studi sul Vicino Oriente, di Roma, nell’ambito del Master “Enrico Mattei” in Medio Oriente. Similare attività didattica ha svolto per l’Università d’Estate della Repubblica di San Marino, su tematiche relative all’identità storico-religiosa dell’Europa. Collabora a molteplici riviste culturali ed è autore di diversi volumi su tematiche di spiritualità, storia, filosofia politica e moneta.
da THE GLOBAL REVIEW (Luglio 2018)