Una scioccante indagine interna del Fondo rivela che la Grecia è stata sacrificata per salvare l’euro e le banche del Nord Europa.
Le più alte cariche del Fondo monetario internazionale hanno:
1 ) ingannato il proprio board,
2) fatto una serie di clamorosi errori di giudizio sulla Grecia,
3) sposato incondizionatamente la causa dell’euro,
4 ) ignorato tutte le avvisaglie di un’imminente crisi e
5) trascurato un aspetto di base delle unioni monetarie.
Questo è il verdetto lacerante dell’Independent Evaluation Office (IEO), un organismo indipendente all’interno dell’istituto di Washington, sulla disastrosa gestione della crisi dell’euro da parte del Fondo. Il rapporto di 650 pagine dell’IEO rivela «cultura della noncuranza», incline all’analisi «superficiale e meccanicista», e un sistema di governance apparentemente fuori controllo.
L’ufficio di valutazione indipendente del fondo è autorizzato a passare sopra la testa del direttore generale, Christine Lagarde, e risponde unicamente al consiglio dei direttori esecutivi, molti dei quali – in particolar modo quelli provenienti dall’Asia e dall’America Latina – sono furiosi per il modo in cui alcuni ufficiali dell’UE hanno utilizzato il Fondo per salvare la propria unione monetaria ed il proprio sistema bancario.
I tre salvataggi della Grecia, del Portogallo e dell’Irlanda sono stati senza precedenti per dimensioni e carattere. Ai tre paesi è stato permesso di prendere in prestito oltre il 2,000% della loro quota allocata – più di tre volte il limite normale –, pari all’80% di tutti i prestiti del Fondo tra il 2011 ed il 2014.
Ammissione sorprendente: il rapporto dice che i propri investigatori non sono stati in grado di accedere a documenti chiave o di gettare luce sulle attività della «task-force segreta» assegnata ai salvataggi.
«Molti documenti sono stati preparati al di fuori dei canali prestabiliti; la documentazione scritta relativa alle questioni più delicate è irreperibile. L’IEO in alcuni casi non è stato in grado di determinare chi ha preso certe decisioni o quali informazioni fossero disponibili, né è stato in grado di valutare i ruoli giocati dal management e dallo staff del Fondo», si legge nel rapporto.
Il rapporto afferma che l’intero approccio del Fondo alla zona euro è stato caratterizzato dal “pensiero di gruppo” (Group-Thinking: vedete la voce su Wikipedia) . Non esistevano piani di riserva su come affrontare una crisi sistemica nella zona euro – o su come gestire la politica di un’unione monetaria multinazionale – perché era stato escluso a priori che ciò potesse accadere.
«Prima del lancio dell’euro, le dichiarazioni pubbliche dell’FMI tendevano a sottolineare i vantaggi della moneta comune», si legge. Alcuni membri dello staff avevano avvertito che il progetto dell’euro presentava delle falle fondamentali, ma sono stati ignorati. «Dopo un intenso dibattito interno, è prevalsa una posizione favorevole a quello che veniva percepito come il progetto politico dell’Europa».
Questo pregiudizio pro-euro ha continuato a condizionare il pensiero del Fondo per anni. «L’FMI è rimasto ottimista circa la solidità del sistema bancario europeo e la qualità della vigilanza bancaria nei paesi dell’area dell’euro fino a dopo l’inizio della crisi finanziaria globale, a metà del 2007. Questo era in gran parte dovuto alla disponibilità dell’FMI di prendere per buone le rassicurazioni delle autorità nazionali e della zona euro», sostiene il rapporto. L’FMI ha minimizzato costantemente i rischi rappresentati dai crescenti deficit delle partite correnti e dal deflusso di capitali verso la periferia della zona euro, e ha trascurato il pericolo di un “arresto improvviso” di tali flussi.
«La possibilità di una crisi da bilancia dei pagamenti in un’unione monetaria era considerata praticamente inesistente». A metà del 2007, l’FMI pensava ancora che «in vista dell’adesione della Grecia all’unione monetaria, la capacità di reperire finanziamenti esteri non è un problema». Alla radice del problema vi era l’incapacità di capire che un’unione monetaria senza Tesoro o unione politica è intrinsecamente vulnerabile alle crisi del debito. In caso di shock, gli Stati non hanno più gli strumenti sovrani per difendersi:
Al rischio di svalutazione si sostituisce il rischio bancarotta.
«In un’unione monetaria, in cui i paesi rinunciano ad una politica monetaria indipendente e alla variabile del tasso di cambio, le dinamiche del debito cambiano», nota il rapporto. Questi problemi vengono poi amplificati dall’esistenza di un «circolo vizioso tra banche e governi». Il fatto che l’FMI non sia riuscito ad anticipare nulla di tutto ciò è una grave colpa scientifica e professionale.
In Grecia, il Fondo monetario internazionale ha violato uno dei suoi princìpi cardine, sottoscrivendo il primo bailout del paese, nel 2010, pur sapendo di non poter offrire alcuna garanzia sul fatto che il pacchetto avrebbe portato i debiti del paese sotto controllo o messo il paese sulla via della ripresa, ed erano molti a sospettare che il piano fosse condannato al fallimento fin dall’inizio.
Il Fondo ha aggirato questa regola riscrivendo radicalmente la propria politica in materia di salvataggi, per consentire una deroga (da allora abolita) in caso di rischio di contagio sistemico. «Il board non è stato consultato o informato», sostiene il rapporto. I direttori hanno scoperto la bomba «nascosta nel testo» del pacchetto greco, ma a quel punto era troppo tardi.
Quando è stato trascinato nella crisi greca, l’FMI si trovava in una situazione poco invidiabile. La crisi dei mutui subprime era ancora fresca nella memoria di tutti. «Sono state espresse preoccupazioni in merito al fatto che un tale credit event potesse diffondersi ad altri membri della zona euro, e più in generale al resto della fragile economia globale». La zona euro non aveva alcuna difesa contro un eventuale contagio e le sue banche già vacillavano. La Banca centrale europea non aveva ancora assunto il ruolo di prestatore di ultima istanza. Una ristrutturazione del debito greco veniva ritenuta troppo rischiosa.
Anche se le azioni del Fondo potevano apparire giustificabili nel pieno della crisi, la dura verità è che la Grecia è stata sacrificata per salvare l’euro e le banche del Nord Europa. La Grecia ha dovuto sopportare una terapia shock a base di austerità senza le tradizionali compensazioni prescritte dell’FMI: un taglio del debito e una svalutazione competitiva.
Un altro rapporto sulla saga greca spiega che il paese è stato costretto ad una stretta fiscale violentissima, pari all’11% del PIL nei primi tre anni. Più la situazione peggiorava, più il paese era costretto a tagliare, in quello che l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha definito “waterboarding fiscale”.
Lo sforzo di imporre una “svalutazione interna” pari al 20-30% del PIL per mezzo della deflazione salariale si è rivelato controproducente, perché ha ridotto la base produttiva del base e fatto schizzare verso l’alto la dinamica del debito pubblico. «C’è un’incoerenza di fondo tra il tentativo di riguadagnare competitività di prezzo e contemporaneamente ridurre il rapporto debito-PIL», nota il rapporto.
L’FMI riteneva che il moltiplicatore fiscale sarebbe stato pari a 0,5 quando in realtà è stato cinque volte più alto, data la fragilità del sistema greco. Il risultato è che il PIL nominale si è contratto un 25% in più rispetto alle previsioni del Fondo, mentre la disoccupazione è schizzata al 25% (invece del 15% previsto). «L’entità degli errori di previsione sulla Grecia è semplicemente straordinaria», si legge.
La teoria era che la “buona fatina della fiducia” avrebbe risollevato la Grecia dal tracollo indotto dalle politiche di austerità. Piani «molti ottimisti» che prevedevano di raccogliere 50 miliardi dalle privatizzazioni si sono rivelato del tutto irrealistici. Alcuni beni non avevano nemmeno una chiara titolarità giuridica. Questa «mancanza di realismo» cronica è durata fino alla fine del 2011. A quel punto, però, il danno era fatto.
L’ingiustizia è che il costo dei salvataggi è stato pagato di comuni cittadini greci, mentre non si è voluto ammettere che il vero motivo della politica della troika era quello di salvare l’unione monetaria. Per aggiungere la beffa al danno, i greci sono anche stati ripetutamente accusati di essere i colpevoli della loro disgrazia. Questa ingiustizia – la radice di tanta amarezza in Grecia – è stata finalmente riconosciuta. «Se la preoccupazione principale era quella di evitare il contagio internazionale, allora la comunità internazionale avrebbe dovuto prendere in carico almeno una parte del costo di tale prevenzione», conclude il rapporto.
Meglio tardi che mai.
Pubblicato sul Telegraph il 28 luglio 2016. Traduzione di Thomas Fazi in esclusiva per Eunews/Oneuro.
Tecnocrati non hanno bisogno di pensare : usano il Group-Think
(da Wikipedia)
Groupthink, o pensiero di gruppo[1], è il termine con cui, nella letteratura scientifica, si indica una patologia del sistema di pensiero esibito dai membri di un gruppo sociale quando questi cercano di minimizzare i conflitti e raggiungere il consenso senza un adeguato ricorso alla messa a punto, analisi e valutazione critica delle idee. Creatività individuale, originalità, autonomia di pensiero, vengono tutti sacrificati in cambio al perseguimento dei valori di coesione del gruppo; allo stesso modo, sono smarriti quei vantaggi derivanti da un ragionevole bilanciamento di scelte e opinioni diverse o contrapposte, vantaggi che possono di norma essere ottenuti agendo come gruppo nel prendere decisioni.[2]
Il fenomeno del groupthink attecchisce in quei contesti sociali in cui i membri di un determinato gruppo evitano di promuovere punti di vista che vadano al di fuori di quella zona confortevole delimitata dal pensiero consensuale. I motivi che inducono a simili comportamenti sono vari: tra essi vi può essere il desiderio di evitare di proporsi in situazioni che, nel giudizio del gruppo, possano essere tacciate come ingenue o stupide, o il desiderio di evitare l’imbarazzo o l’ira di altri membri del gruppo.
Il risultato di tali comportamenti, nel momento in cui il gruppo si trova ad assumere decisioni, è un affievolimento dell’obiettività, della razionalità, e della logica, con esiti che possono anche assumere la forma del consenso su decisioni che, invece, appaiono disastrose e folli per chi appena le osservi dall’esterno.
Il groupthink rappresenta una “patologia funzionale” del comportamento collettivo, che può comportare l’adesione dei gruppi a decisioni sconsiderate e irrazionali, dagli effetti anche tragici ed esiziali, frutto di processi decisionali in cui i dubbi individuali sono messi da parte nel timore che possano destabilizzare gli equilibri interni al gruppo. Il termine è applicato di frequente in un’ottica dispregiativa, per etichettare, con il senno di poi, situazioni già accadute.