di Roberto PECCHIOLI
Il manifesto dell’associazione Provita con l’immagine di due giovani uomini che spingono un carrello da supermercato con all’interno un bimbo e la didascalia “due padri non fanno una madre” è stata rimosso. Secondo il sindaco romano Raggi (nessuno ci farà mai scrivere l’orrendo femminile “sindaca”), turba le coscienze e, regolamento comunale alla mano, è “lesivo del rispetto dei diritti e delle libertà individuali.” Surreale, tanto più che il medesimo testo proibisce immagini di “stereotipi (…) e mercificazione del corpo femminile”. Nessun commento, basta la realtà. Colpisce che non vi sia divieto di mercificazione del corpo maschile, in corso sulle ali della liberazione della donna e soprattutto dell’onda lunga omosessualista.
Ma l’erba non è verde d’estate, al giorno non segue la notte, dunque non sta bene ripetere che per i figli ci vogliono un padre e una madre. Abbiamo occhi per vedere e un cervello per ragionare; peggio per noi se non lo usiamo più. La rimozione progressiva della realtà è pervenuta al divieto, ovviamente in nome del bene, dell’etica, della tolleranza: il nuovo proibizionismo delle anime belle è selettivo, ma roccioso, intransigente. Cristallizza un’etica infranta e ricostruita alla rovescia. Colpa del libretto delle istruzioni.
A noi sembra che il manifesto faccia centro nell’immagine del cucciolo di uomo. Ha il volto sofferente, sta dentro un carrello e sul petto ha un grande codice a barre, uno di quelli stampati sulle confezioni dei prodotti che passeranno al lettore magnetico di cassa. Il bimbo è, suo malgrado, il simbolo di una generazione nuova, compravendibile, l’umanità-merce, definita da un codice. Un prodotto di economia di scala, un’unità distinta solo da un chip elettronico. Presto avremo anche il codice QR (quick response, risposta rapida…), come i biglietti acquistati online. Una regressione sconcertante, inavvertita dai più, che apprezzano la pratica comodità del mondo nuovo.
L’unico paragone calzante è con il marchio, il numero 666 dell’Apocalisse di San Giovanni. Apocalisse significa rivelazione, e il marchio, dal greco charagma, indica qualcosa che viene impresso, scolpito. La Bestia “obbligò tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, a farsi mettere un marchio sulla mano destra o sulla fronte. Nessuno poteva comprare o vendere se non portava il marchio, cioè il nome della bestia o il numero che corrisponde al suo nome. Chi ha intelligenza, calcoli il numero della bestia, perché è un numero d’uomo; e il suo numero è seicentosessantasei” (Apocalisse 13:16-18).
Al di là dell’antropologia negativa della cosiddetta omogenitorialità, ci pare che il senso del nostro vivere odierno sia diventato questo: la trasformazione in oggetti, merci di consumo, generazioni con il codice a barre. L’uomo, il suo corpo, è diventato compravendibile, un bene di consumo come ogni altro. Si può acquistare una parte o un pezzo staccato (traffico di organi), affittare l’utero in conto terzi (l’eufemismo politicamente corretto è GPA, gestazione per altri, come l’aborto non è che una IVG, interruzione volontaria di gravidanza), si può, forse di deve – è lo spirito dei tempi – comprare un figlio. Poco importa se si è celibi, nubili, etero o omosessuali. Avere un figlio, dicono, è un diritto, esattamente come disfarsene se non gradito.
In questo periodo la cronaca si occupa del caso di Miguel Bosé, il cantante spagnolo, il cui divorzio (omo, ça va sans dire) fa un gran rumore di piatti rotti. Il suo ex, oltre all’argenteria e a qualche suppellettile, avrà due dei quattro bambini- due coppie di gemellini maschi – che vivranno in Spagna. Gli altri due andranno con l’altro padre (genitore 1 o 2, fa lo stesso) in Messico. Nati con metodi artificiali, figli naturali di chissà chi, non solo non hanno conosciuto il calore di una madre, ma verranno separati per volontà dei genitori legali. Nulla di strano nel felice secolo XXI, la condizione omosessuale della coppia è solo un elemento in più; li hanno scelti come un mobile o un gioiello di lusso, madamina il catalogo è questo, non più Leporello, ma siti specializzati, vanno divisi come il resto delle proprietà. Reificazione, riduzione a cosa, è la parola della filosofia. Schifo suggerisce il giudizio morale, se ancora è permesso.
La sfera sessuale è quella in cui appare maggiormente la riduzione della persona a oggetto. Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli Ultimi Uomini, e strizzano l’occhio, avvertì Nietzsche nello Zarathustra. Fu ottimo profeta un irregolare della cultura francese come Michel Clouscard nel “Capitalismo della seduzione”, osservando che l’ideologia del consumo fa della sessualità un oggetto come altri. Banalizzata, deprivata dell’immaginario dell’attesa, la riduce a un atto d’uso. E’ il simbolo di una vita in tempo reale, tutto e subito, compra “chiavi in mano”, consuma in fretta e passa oltre senza vedere, senza pensare. La rappresentò perfettamente un protagonista del surrealismo, Magritte, nel quadro Gli amanti, in cui l’uomo e la donna si baciano attraverso un panno bianco che nasconde i loro volti. Non si vedono e non comunicano, il loro gesto diventa esclusivamente materiale e insieme surreale.
Non più persone, ma atomi, unità di prodotto destinate a perdere ogni relazione una volta uscite dalla catena di montaggio. I fili genealogici vengono tagliati, insieme con legami culturali, prescrizioni morali. Spezzato l’ordito della civiltà, l’animale uomo smarrisce il suo destino “politico” e si trasforma nell’Identico che si crede Unico perché tale è il suo codice a barre. Ne furono banditori, nel XIX secolo, Max Stirner e il poeta Walt Whitman. Questi scrisse un celebre verso, emblema dell’individualismo americano teso alla frontiera: “Io celebro me stesso, e canto me stesso”. Stirner, nell’Unico e la sua proprietà, taglia i ponti con tutto. “Non si deve dire grazie a nessuno”. L’Unico non si lascia vincolare dai debiti verso i predecessori, tantomeno è interessato da alcun futuro diverso dal proprio.
Il solco è tracciato, il cattivo seme gettato ha dato i suoi frutti. Incede nel mondo l’uomo confezionato in serie, vissuto tecnicamente, pret-a-porter, sottovuoto come il cibo, scabro, prefabbricato come gli oggetti, adesso i figli, per chi si ostina a volerne. I modelli sono prodotti anche su ordinazione, fotocopie realizzate “just in time”, firma elettronica per ricevuta alla consegna, pagamento con rid bancario. Altri codici a barre, lucette che si accendono al passaggio presso il sensore, chip. Il prodotto uomo è tracciato, manca la data di scadenza, ma ci stanno lavorando, convincendoci ad annullare noi stessi con modulo di richiesta, basta una pillola o un’iniezione. E’ abrogato anche il rispetto per il corpo umano senza vita, il culto dei morti è una barbara reliquia da lasciare agli ultimi lettori di Ugo Foscolo. Si impallidisce rileggendo un brano della Scienza Nuova di G.B. Vico. “Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane (…) custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti. “Siamo una ex civiltà, un gregge composto da plebaglia insuperbita.
Tutto ciò che incomoda – dolore, fatica, idee avverse, la stessa natura – è un ostacolo da rimuovere, pena l’ansia, la depressione, la confusione mentale. Si diffonde ciò che è “unheimlich”, il perturbante di Freud, che sconvolge in quanto estraneo, non di casa. La soluzione escogitata è la rimozione, cui segue la censura per tutto quanto produce emozioni negative, l’ansia sconcertata dell’Identico che non riconosce che se stesso. E’ il primo passo del politicamente corretto: inizia con l’eufemismo coatto, prosegue con il timore di pensare, sino al trauma di sperimentare, vedere, ascoltare il diverso. Persuasi di essere creature nobili, anime belle, biasimano e vietano senza pietà, altrimenti “stanno male”.
Smarrito il fragile equilibrio dell’Identico obbligatorio, si diffonde, anzi è al potere una generazione di zucchero filato, un prodotto artificiale, infantile, dolciastro, bisognoso del bastoncino per stare insieme nel breve attimo prima di sciogliersi. Zucchero filato imposto per prescrizione medica: la ricetta è sempre pronta nelle tasche dell’esangue generazione con codice a barre. Fragili, non sanno né vogliono ascoltare. Si tappano le orecchie, stringono gli occhi per non vedere come i bambini quando temono qualcosa. Non esprimono più contrarietà o energica indignazione, chiedono l’abolizione per decreto di ciò che ostruisce lo sguardo miope. A milioni, sono consumatori di psicofarmaci fin da bambini.
Eppure, qualcuno controlla, determina il codice a barre, attiva i sensori, tira i fili. Non ditelo, però: potrebbero crollare, non sentirsi più a loro agio nella placenta artificiale in cui vivono. Un telefilm poliziesco americano ha come protagonista un investigatore infallibile, Monk, dipendente da pillole, psicanalisti, preda di infinite fobie, incapace di muovere un passo senza una sfortunata assistente che schiavizza. Il tema musicale della serie ha un titolo illuminante: è una giungla, là fuori. Di quella giungla chiamata realtà hanno orrore le monadi di fragile porcellana convinte di esistere a prescindere dal mondo circostante. Non reggono alcuna pressione, né sanno più obiettare alle idee difformi.
Nelle università, una volta templi del sapere, si invoca e si ottiene la censura per giganti della cultura, se esprimono concetti invisi al sistema di valori riconosciuti dal sensore del codice a barre, gli universali indiscutibili della post civiltà. Folle Aristotele ad asserire che nulla è più naturale dell’unione del maschio con la femmina, un falsario Spinoza, per il quale chi cerca l’uguaglianza tra diseguali cerca una cosa assurda. Un pazzo estremista Dante, che si permette di destinare le anime all’Inferno o in Paradiso sulla base al criterio morale cristiano. Che paura le pene dei dannati, provocano incubi notturni. Da rielaborare il Vangelo che annuncia per gli empi pianto e stridor di denti, ludibrio per il vecchio Hegel, colpevole di definire la famiglia comunità etica naturale. E’ un proibizionismo ridicolo, paradossale, quello dei nipotini del 68, la famiglia Addams al potere. Allora era vietato vietare, oggi, in nome delle stesse parole d’ordine libertarie, il divieto diventa obbligatorio.
Si respinge l’Altro in nome dell’Uniforme, il prodotto di serie con codice numerico è spacciato per diversità. Mostre di pittura rifiutano di esporre il Bacio di Klimt, che rivoluzionario in senso artistico lo fu davvero, è messa all’indice l’Origine del Mondo di Courbet, sessista. Nessuno fiata, tuttavia, di fronte a violenza, volgarità, turpiloquio, oscenità: benefica liberazione dai tabù. La negazione concreta della diversità culturale procede spedita quanto la sua santificazione teorica. E’ esaltato il soggettivismo purché le infinite tonalità ammesse non mutino lo spartito della musica. La voce dissonante indigna in quanto imprevista, non prospettica; lo zucchero filato si trasforma in pungiglione inflessibile perché non conosce altri che se stesso, in miliardi di esemplari codificati. La realtà è una rappresentazione individuale, triste vittoria postuma di Schopenhauer il pessimista radicale.
In assenza di principi forti, comanda il conformismo del branco. Non più soggetto, prigioniero del carrello della spesa, l’individuo-codice aspira a essere e comportarsi “come tutti gli altri”. Nel Gargantua di Rabelais compare un personaggio, Panurgo, divenuto sinonimo di furfante, imbroglione seriale. In viaggio su un barcone, si prende gioco di uno sciocco mercante di bestiame, scaraventando in mare un montone appena comprato. Come prevedibile, l’intero gregge lo imita gettandosi in acqua, seguito dal mercante disperato. In lingua francese, fare come i montoni di Panurgo indica il comportamento insensato e gregario delle masse. L’astuzia seduttiva della postmodernità consumista è stata la capacità di convincere che il conformismo è una libera scelta individuale. Si è invitati a essere ribelli, trasgressivi, nemici di ogni autorità per meglio orientare scelte e comportamenti. Pensiamo alla sciatteria di massa dell’abbigliamento “casual” adottato da milioni di consumatori sedicenti consapevoli: l’uniforme d’ Arlecchino di una folla che non sarà mai popolo.
Sorprende il dilagare del pregiudizio anti autoritario in una società che, al contrario, domina, sorveglia, induce, impone. Sono i poeti a cogliere il senso di ciò che gli altri guardano senza vedere. “Siamo gli uomini vuoti, gli uomini impagliati, che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia. (…) Le nostre voci secche, quando noi insieme mormoriamo, sono quiete e senza senso”, versi di T.S. Eliot. Al posto della testa, paglia, milioni di vite consumate nel non senso, dissipate in una corsa senza direzione. Qualcuno disse che un uomo solo può vagare senza meta, ma due vanno sempre da qualche parte. E’ una verità ben compresa da chi domina le nostre esistenze e ci ha separati gli uni dagli altri, imprigionati in un autismo che spaventa.
Se ciascuno è legge a se stesso, termina la società. La comunità era già sconfitta con l’estirpazione delle radici, il narcisismo di tanti Io minimi, il tenace istinto plebeo del fare ciò che aggrada. Ancora Rabelais, la regola unica del regno di Gargantua, fa quello che vuoi. Viene ridicolizzata, liquidata come anticaglia l’aspirazione morale di svolgere un compito, aspirare a un ordine, seguire una legge. La precarietà esistenziale, di lavoro, vita, sentimenti inclina all’ozio, il padre dei vizi. Vizio, infine, è praticare il male senza più considerarlo tale. Da quando ogni movente umano è ridotto all’utilità immediata, allo scambio commerciale, alla domanda e all’offerta, bene, male, vizio, virtù, hanno perduto significato. L’Unico, l’uomo a barre è libero, anzi liberato, ovvero nudo e senza riparo.
Perduto il padre simbolo dell’autorità, custode del limite, garante della continuità, il potere, il capitalismo della seduzione, lavora adesso per decostruire la madre. Responsabilità del femminismo, con le sue ubbie, le gabbie regressive travestite da liberazione della donna, ma anche del mercato misura di tutto. Si estraggono ovociti dalla donna (povera, del Terzo e Quarto Mondo) ridotta a materiale in cui incubare embrioni. Una riduzione a pura materia, una cosa, come il maschio della bestia-uomo, da cui estrarre, gratis o a pagamento, il seme da impiantare. Marina Terragni, femminista atipica, ritiene che sia in corso una guerra contro la donna per odio della sua fecondità. Una tesi che, in forma diversa, echeggiava nel pensiero di Ida Magli, un completo ribaltamento del complesso di castrazione e dell’invidia del pene, stravaganti pilastri delle teorie di Freud.
L’officina gnostica lavora a pieno ritmo per convincere che la natura – il creato- è monca, carente, sbagliata e va quindi corretta a partire dalla divisione dei sessi, una caduta dalla perfezione originaria per i sedicenti illuminati di una folle sapienza esoterica. Sulle tracce di Eric Voegelin, definiamo gnostica la pretesa di perfettibilità della natura, la malattia spirituale di chi vuole raddrizzare il legno storto a beneficio di pochi eletti. Cultori di supposti saperi iniziatici di notte, spiriti pratici di giorno, hanno trovato la quadratura del cerchio nel pensiero libertario progressista. E’ ammesso tutto ciò che è tecnicamente fattibile e in grado di generare un mercato. L’esito inevitabile è la riduzione della persona a prodotto; le merci devono essere riproducibili in serie e controllabili da un centro remoto, Matrix.
E’ ora di identificare i responsabili della “riduzione del mondo civilizzato in favore della soddisfazione dei futili desideri materiali” (Russell Kirk). La minacciosa dittatura tecnocratica dell’Unico è l’esito e il compimento finale di una precisa ideologia, la liberal-democrazia. Ha sostituito le vecchie credenze con un dogma di cui verifichiamo la falsità: il liberismo rappresenta le aspirazioni definitive dell’essere umano. L’uomo è ciò che mangia, provocava Feuerbach; no, ribatte il vangelo apocrifo liberale, è quel che desidera e consuma. L’ortodossia ideologica respinge fuori dal cerchio magico ogni dissonante punto di vista. Prigionieri del pluralismo, della tolleranza e del relativismo, li hanno trasformati nel loro opposto, incapaci non solo di accettare, ma di ascoltare il dissenso. E’ la dittatura liquida dell’Identico e dell’Uniforme. Chi non ci sta, è nemico del Bene e del Giusto, va quindi espulso dal campo a fin di bene, in piena coscienza.
La modernità europea e occidentale nasce e vive in opposizione radicale alla civiltà precedente. E’ antiromana, anticristiana e antigreca, rappresenta una rottura epocale di cui solo da pochi anni avvertiamo l’ampiezza. Il più brutale utilitarismo ha travolto come un terremoto ogni principio che si opponeva all’egemonia del mercante. Antropologicamente, snodi decisivi sono la decisione di non avere figli, ovvero di farla finita con il sangue e la civiltà ricevuta, e l’accettazione dell’eutanasia. Spiega il filosofo polacco Ryszard Legutzko: [essere genitori] “interferisce con il continuum della vita e ci sottrae ai suoi piaceri.” Morire per scelta sottrae al dolore, alla vecchiaia, alla sofferenza. Chi ha inoculato questi veleni mortiferi è lo stesso che ne sfrutta le occasioni di profitto. L’Unico di Stirner contiene un tragico errore: l’individuo solitario non acquista più libertà, ma la svende per un piatto di lenticchie. Ciò che è venduto non è più nostro, ma dell’acquirente. Ci siamo consegnati al Vitello d’Oro, leggeri come fiocchi di neve, estenuati dal desiderio, esauriti ma irremovibili nella ricerca della felicità di un attimo.
Russell Kirk riferì di un incontro tra il filosofo conservatore George Santayana e John D. Rockefeller. Santayana ricordava le sue origini iberiche e il magnate osservò: “devo dire all’ufficio che non vendono abbastanza petrolio in Spagna”. In questa frase emerge tutta la bruttezza e la sterilità dei nostri tempi. Questo il commento sbigottito del pensatore: “ho visto l’ideale del monopolista. Tutte le nazioni devono consumare le stesse cose. Tutta l’umanità formerà allora una democrazia perfetta, fornita di porzioni come di benefici dal centro di amministrazione”.
Una distopia utilitarista, conclude Kirk, affama il regno dello spirito e quello dell’arte come non potrebbe mai nessun’altra dominazione. Il culmine del liberalismo è la contemplazione del capitalismo. E’ un comunismo realizzato attraverso il monopolio. Rockefeller e Marx sono semplicemente due rappresentanti della stessa forza sociale, un desiderio crudelmente nemico della determinazione umana. Hanno vinto loro, tuttavia. Una volta saliti sul carrello, ci hanno applicato il prezzo, impresso il marchio, assegnato il codice a barre. Siamo cosa loro, schiavi che ignorano o amano le proprie catene. Ed è subito sera.
Roberto PECCHIOLI