Giuseppe Mario Arpino Il negoziatore delle Due Sicilie

Storia
23 marzo 2022

Luciano Garofoli

Nel 1784 i rappresentanti americani a Parigi John Adams, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson (da notare che Adams e Jefferson divennero poi Presidenti degli Stati Uniti dopo Washington) compirono un passo diplomatico che fecero trasmettere alla corte di Napoli dall’ambasciatore borbonico a Parigi. In questa lettera si formulava la proposta americana di stipulare un trattato di amicizia e commercio tra i due paesi. Il disegno fu sottoposto dal governo napoletano a Ferdinando Galliani consigliere del Tribunale del commercio del regno. Il 24 ottobre 1784 il consigliere rispondeva facendo notare come intrattenere rapporti con il neonato stato americano rappresentasse una ghiotta opportunità per il Regno di Napoli. Dopo questa mossa il Regno delle due Sicilie riconobbe formalmente il nuovo stato americano e, nel 1796, accreditò un Console Statunitense a Napoli.

Sebbene nell’immediato il progetto si insabbiò nacquero dei dissapori tra i due stati quando Murat sostituì, con l’appoggio di Napoleone, la sua persona a quella dei legittimi sovrani. Murat, infatti, sequestrò alcune navi americane ed il loro carico del tutto arbitrariamente.

Prima di continuare occorre fare qualche riflessione importante.

Quella più diretta è chiedersi come mai una nuova nazione di fresca indipendenza, avanzasse l’idea di stringere rapporti commerciali e di amicizia con il regno borbonico. Di solito chi vuol mettersi in luce cerca di stringere buoni rapporti con le nazioni più influenti, ricche e con una buona reputazione internazionale, non di certo si va a scegliere di relazionarsi con dei soggetti politici di secondaria importanza che non accrescono di certo il prestigio ed il lustro dei nuovi entrati nella comunità internazionale.

Escludendo che potesse esserci un qualunque approccio tra la Gran Bretagna e gli Usa per ovvi motivi contingenti, il secondo soggetto politico importante era la Francia e con essa i rapporti erano ottimi. Subito dopo evidentemente nel panorama europeo e mondiale il regno di Napoli rappresentava una grossa opportunità di mettersi in evidenza.

Ma a pensarci bene tutta la storiografia nostrana ha sempre presentato i Borboni di Napoli come dei tiranni, dei retrogradi e infimi amministratori che non sapevano assolutamente governare e far crescere un popolo in maniera adeguata. Quindi qualcosa non quadra.

Certo pur essendo un grande regno tra i più importanti del bacino del Mediterraneo, quello di Napoli non poteva esercitare un potere preponderante sul mare nostrum a causa della asfissiante presenza inglese esercitata con la permanente presenza di una flotta militare che non lasciava spazio ad iniziative “alternative” che configgessero con gli interessi inglesi.

Nonostante tutto i rapporti tra il regno di Napoli e l’Inghilterra erano ottimi: i commerci tra i due paesi fiorenti gli scambi commerciali erano sicuramente attivi per il regno partenopeo. Rimarchevole il fatto che la flotta di Sua Graziosa Maestà britannica acquistava dai cantieri navali partenopei le corvette ritenute le migliori navi della loro classe e le più, diremmo oggi, tecnologicamente avanzate: e credetemi in quanto a navi, gli inglesi non prendevano lezioni da nessuno!

Politicamente i Borboni si schierarono contro Napoleone al fianco dell’Inghilterra, dalla Sicilia, dove si erano rifugiati, misero a disposizione la propria flotta militare, i propri porti ed il proprio potenziale bellico: a Nelson, dopo, la vittoria contro i francesi nella baia di Abukir fu assegnato il compito di riportare i Borboni a Napoli e sconfiggere la Repubblica partenopea, ma le armate del cardinale Ruffo avevano già provveduto a riconquistare il trono per i Borboni.

L’ammiraglio inglese ebbe una parte di rilievo nella repressione seguita alla vittoria delle armate di Ruffo: disattese infatti gli accordi che il Cardinale aveva stipulato al momento della resa e consegnò tutti i capi della Repubblica alla giustizia borbonica.

Un’eccezione fu fatta per l’ammiraglio Francesco Caracciolo il quale fu arrestato il 29 giugno 1799 e condotto a bordo della nave Foudroyant, la nave di Nelson, e qui sottoposto ad un processo sommario tenuto dagli inglesi.

La condanna all’ergastolo che ne seguì fu mutata in condanna a morte per volere dello stesso ammiraglio ed eseguita il 30 giugno per impiccagione: il corpo di Caracciolo rimase appeso ad un pennone della Minerva nave ammiraglia della flotta anglo borbonica e quindi gettato in mare. A Nelson fu addirittura assegnato il titolo di Duca di Bronte.

Torniamo al periodo in cui Murat rivestì la carica di Re di Napoli. Il regno “di qua dal faro” divenne a tutti gli effetti una colonia francese che commercialmente interagiva nell’ambito degli interessi commerciali francesi. Diversa era la situazione a Palermo dove Ferdinando IV si era rifugiato e dove godeva della protezione della flotta britannica: ma anche in Sicilia gli scambi commerciali con gli USA erano rallentati in quanto mal tollerati dai dissidi che dividevano inglesi ed americani.

Inaspettatamente, nel 1809, Murat ordinò di procedere al sequestro di alcune navi statunitensi e del relativo carico.

Tra il 1809 ed il 1812 furono sequestrati ben 55 battelli statunitensi per un valore di 69.210 ducati e con un valore complessivo dei carichi di ben 3.030.780 ducati napoletani. Il tutto forse come risposta all’Embargo Act emanato da Jefferson per garantire la neutralità degli Stati Uniti. Il valore dei beni sequestrati era davvero rilevante: ci riferiamo ai ducati d’oro che erano la moneta più di valore in circolazione, inoltre una somma di milioni di ducati era davvero stratosferica!

Una volta restaurata, dopo il Congresso di Vienna, la dinastia dei Borboni, il governo americano, sotto la pressione dei settori danneggiati dai sequestri ordinati da Murat, nel 1816 avanzarono formale richiesta di risarcimento al governo partenopeo. Dopo un periodo di tergiversazioni il governo napoletano respinse la richiesta di indennizzi giustificandosi dicendo che la maggior parte degli introiti non erano andati a beneficio dell’erario, ma nelle tasche di Murat. Nonostante il raffreddamento delle relazioni diplomatiche il commercio dopo il 1825 riprese molto vigore in seguito alla nomina di rappresentanti diplomatici napoletani a Washington.

Negli USA il regno borbonico esportava vino, olio, sapone, stracci, mandorle, manna, tartaro, limoni, porto galli (arance dal greco portokalos), sommacco, liquirizia, acciaio, uva passa, vernici, trementina, carta, turaccioli e soprattutto la pregiatissima e molto apprezzata seta da cucire che risultava di qualità migliore di quelle francesi e cinesi ed addirittura gli esportatori napoletani lamentavano la circostanza che i propri marchi fossero oggetto di contraffazioni da parte di concorrenti senza scrupoli.

Come si dice niente di nuovo sotto il sole, anche l’allora made in Italy subiva l’aggressione di chi non riusciva a fornire un prodotto migliore dell’originale.

Alla fine il buon senso e la ragion di stato prevalsero ed il 14 ottobre 1832 fu stipulato un accordo tra il governo USA e quello napoletano in cui quest’ultimo si faceva carico di versare , a titolo di indennizzo e risarcimento dei danni subiti per i sequestri effettuati da Murat, la somma di 2.115.000 ducati in nove rate da 235.000 ducati l’una.

Spinti da questa rinnovata amicizia tra i due stati il governo americano rilanciò l’idea di un accordo commerciale per ampliare ancor di più gli scambi bilaterali.

Qui però intervennero delle forti pressioni inglesi che vedevano minacciati seriamente i propri interessi. Infatti Ferdinando II voleva svincolarsi dall’abbraccio soffocante inglese e nel 1838, decise di concedere il monopolio dell’esportazione degli zolfi siciliani (allora ritenuti materiale strategico) alla compagnia francese Tayx e Aycard per una somma superiore a quella che fornivano gli inglesi: 400.000 ducati annui per l’erario e 120.000 ducati riservati ai produttori.

Seguirono atti di reciproca manifesta ostilità fino a quando nel 1840 Ferdinando II decise il sequestro delle navi inglesi che stazionavano nei porti napoletani. Il tutto confidando anche nell’appoggio politico e diplomatico di Francia e Russia. La risposta britannica non si fece attendere: navi da guerra inglesi catturarono navi napoletane ed una squadra navale puntò i cannoni sulla capitale dal mare.

Come vedete l’alone di democrazia e di rispetto delle nazionalità di cui si sono sempre ammantati gli inglesi era solo pura e formale apparenza una foglia di fico che copriva gli interessi di questa nazione! Ma all’epoca nessuno ci faceva caso: gli altri non erano da meno solo, come dice l’adagio popolare, diventa qualcuno e se fai la pipì a letto avrai sicuramente sudato! Agli inglesi tutto veniva permesso e tutto era legittimo!

Il governo borbonico non si fece intimorire, ma alla fine di lunghe trattative con i britannici gli accordi con la Tayx e Aycard furono revocati pagando anche un adeguato indennizzo. Oltre al danno anche la beffa: la politica delle cannoniere continuava a dare risultati positivi ed a creare danni economici rilevanti.

A questo punto le relazioni commerciali tra USA e Regno delle Due Sicilie non poteva continuare se non arrivando alla stipula di un trattato bilaterale solido.

E qui entra in scena Giuseppe Mario Arpino. Ci facciamo guidare per ricostruire la vicenda da un libro di Gianvito Armenise intitolato Giuseppe Mario Arpino Il diplomatico di Ferdinando II di Borbone.1

Egli nasce a Modugno, Terra di Bari, l’otto settembre 1804 da Agostino e Rachele Alfonsi. Compì i primi studi nella sua città natale seguito da Bartolomeo Silvestri e quando terminò gli studi inferiori fu mandato dalla famiglia a Napoli dove frequentò l’Università e si laureò “a pieni voti e sommo onore” in economia e giurisprudenza. Terminato il corso universitario restò a Napoli spronato anche dalla famiglia, dove esercitò la sua professione con molto successo e facendosi la fama di ottimo giureconsulto.

Nel 1829 fu nominato giudice di collegio e alcuni anni dopo divenne giudice del Tribunale Civile di Napoli. La sua fama raggiunse anche la Corte ed il re Ferdinando II di Borbone lo inviò a Londra come Ambasciatore straordinario per gli affari di stato del regno. Svolse il delicato incarico con professionalità, perizia e grande onestà; immaginate che, una volta rientrato a Napoli poiché i mezzi finanziari ricevuti dal governo per svolgere la missione erano stati sovrabbondanti, restituì quanto era avanzato. Certo un simile comportamento oggi sarebbe impensabile visto “che a noi è data da vivere un’epoca infelice e nulla ci viene risparmiato” come diceva Sua Maestà Imperiale e Reale Francesco Giuseppe di Asburgo!

Ma fino a qualche tempo fa ancora possiamo trovare traccia di un comportamento similare e poiché parliamo di baresi, val la pena ricordare che una cosa simile successe ad Araldo di Crollalanza, Ministro dei Lavori Pubblici di Mussolini, il quale risparmiò ben 500.000 lire di quanto assegnato dal Governo, per la ricostruzione dei danni di un terremoto che colpì la Basilicata e Vulture Melfese il 23 luglio 1930. Ma la somma fu rimessa a disposizione del Ministro dei Lavori Pubblici dal Capo del Governo e di Crollalanza provvide alla sistemazione del Lungomare di Bari.

Pensate quanto potesse valere la Lira a quei tempi!

Tornando ad Arpino, dopo la missione a Londra divenne Consigliere della Corte dei Conti e poi Capo di Dipartimento a Palermo dove a causa della sua onestà e del suo rigore si fece anche parecchi nemici, tra i quali Francesco Crispi.

Crispi che aveva creato una società di consulenza che vendeva i propri servigi a tutti coloro che volevano presentare dei bilanci in piena regolarità. La cosa veniva spacciata per onestà e patriottismo, ma in realtà serviva a Crispi per lauti guadagni e potersi infiltrare nelle maglie della burocrazia dello stato. Arpino lo smascherò e proibì agli enti dello stato di poter usufruire di una tale fraudolenta consulenza: il lupo perse il pelo, ma non il vizio e continuò nei suoi maneggi anche dopo l’Unità d’Italia e quando era Presidente del Consiglio: ricordiamo lo scandalo della Banca Romana che lo vide tra i principali accusati.2

Tornato a Napoli nel 1848, Arpino assunse la carica di Direttore di Porto e Dogana e di Avvocato Generale della Corte dei Conti. Poco dopo ricoprì anche le funzioni di capo della Tesoreria del Regno e mentre svolgeva questo elevato incarico, fu chiamato, di comune accordo tra le parti, a trattare la stesura del Trattato di commercio ed amicizia tra le due nazioni.

La controparte americana era Robert Dale Owen che consegno il 22 ottobre 1853 le proprie credenziali nelle mani del Ministro degli Esteri del Regno Commendatore Luigi Carafa. Owen, appena insediato, si adoperò per risolvere gli attriti che si erano venuti creando, nel tempo, tra i due stati, rimossi i quali con successo iniziò il lavoro per la stesura del trattato. Le trattative avanzavano senza ostacoli rilevanti, tranne un disaccordo di fondo sulla richiesta statunitense di poter erigere una cappella protestante a Napoli. Su questo punto Ferdinando II fu irremovibile: Owen tacciò il re di “rigorismo cattolico” nei rapporti che intratteneva con il Segretario di Stato Americano William Marcy, ma l’atteggiamento di Sua Maestà altro non era che la più ortodossa interpretazione dell’istituto monarchico. Era re, per Grazia di Dio, Re cattolico e sapeva che tra i doveri specifici del titolo c’era quello della difesa dei diritti e delle prerogative della Chiesa Cattolica e la cosa era una prassi di governo. In buona sostanza il re era disposto a far naufragare la stipula del trattato piuttosto che concedere “ciò a cui si oppongono la sua coscienza, tutte le tradizioni del suo governo e le regole della Santa Chiesa Cattolica.

Owen tuttavia faceva anche notare che a Napoli esisteva già una cappella protestante eretta all’interno dell’ambasciata del Regno Unito e che questa era sufficientemente grande e non riusciva mai ad essere riempita. A ciò si aggiungeva che esisteva anche un luogo di sepoltura, acquistato dagli inglesi, aperto, con un accordo con le autorità partenopee, a tutti i protestanti: era il cimitero acattolico di Santa Maria della Fede la cui superficie era abbastanza grande ed un posto poteva essere acquistato facilmente per venti dollari.

La cappella protestante era stata costruita, come si diceva, all’interno dell’Ambasciata britannica quindi era extraterritoriale e non necessitava di alcun permesso da parte del governo napoletano che non si poteva assolutamente opporre in quanto insistente su territorio nominalmente inglese.

C’era una gran voglia da ambo le parti di arrivare alla stipula ed alla fine le trattative serrate si svolsero solo tra Owen, il plenipotenziario americano e Giuseppe Arpino per la parte duo siciliana.

“Il plenipotenziario americano riservò, in diverse circostanze, parole di sincero apprezzamento per il suo interlocutore. Lo definì come il più grande uomo d’affari con cui avesse avuto rapporti ufficiali a Napoli e che leggeva l’inglese con facilità”3

Nelle memorie di Owen troviamo quanto egli scrisse al Segretario di Stato Americano Marcy: durante una conversazione privata, in margine alla stesura del trattato, Arpino gli disse che l’amministrazione aveva già individuato un sito di stoccaggio delle merci non assorbite dal mercato interno, che senza alcun onere doganale aggiuntivo, potevano essere riesportate. Ma comunicò anche che, a riprova della grande apertura che il Governo del Regno strategicamente voleva attuare a livello internazionale, era pronto anche: “ad accorciare le distante tra i due stati, attraverso la predisposizione di una stabile linea di piroscafi. Arpino confidò ad Owen l’evidente deterioramento dei rapporti politici con l’Inghilterra con cui Napoli non si aspettava di stabilire relazioni cordiali” a causa di alcuni articoli dello stipulando trattato con gli Stati Uniti.”4

Ma sentite quello che Owen scriveva al suo Segretario di Stato:

“Questo trattato non è solo più liberale, soprattutto nei suoi aspetti commerciali …. Ma è il più liberale finora ottenuto da qualsiasi potenza straniera dal Governo delle Due Sicilie. Pone le nostre navi, sia che esercitino scambi diretti o indiretti, sullo stesso piano delle navi nazionali: abolisce tutti i diritti differenziali; numerosi diritti importanti della persona e della proprietà sono maggiormente tutelati al suo interno; è prevista la consegna di criminali fuggitivi e la protezione personale e commerciale in caso di guerra; i termini blocco e contrabbando di guerra sono definiti”

Ed ora aprite bene le orecchie, “incredibile dictu”, è sempre Owen che rapporta il Segretario di Stato sulla sua missione a Napoli:

“Chiudendo la mia missione in questa corte durata più di cinque anni, dovrei fare ingiustizia ai miei sentimenti se non rendessi testimonianza della gentilezza … e della cortesia con cui sono stato trattato qui … da tutti i gradi e classi con cui sono entrato in contatto, dal re fino al più umile dei suoi sudditi. L’imperturbabile buona natura, evidenziata in piccoli mille buoni uffici e particolarmente evidente nella gentilezza dei poveri verso coloro che sono più poveri di se stessi, è una caratteristica distintiva del carattere napoletano … Nessuno che risieda da anni in questa città, una delle regioni più belle del mondo civilizzato può lasciarla senza rimpianti …

Del resto le parole di Owen fanno eco a quelle scritte alla fine del XVIII secolo, dal poeta tedesco Goethe durante la visita che lui fece alla città durante il “Grand Tour”

Ora è inutile negare che in quel preciso momento storico esistessero condizioni di vita difficili soprattutto per le classi più basse, ma ciò avveniva in qualsiasi parte del mondo: non è che nella Francia post rivoluzionaria le cose fossero migliori, o che nell’Inghilterra imperiale tutti fossero ricchi e benestanti, ne abbiamo ampie testimonianze storiche. Ma quello che Owen scrive a proposito della gente napoletana denota un grande spirito di carità cristiana e di grandissima adesione a questi principi.

Ora forse è più chiaro anche il comportamento del re nei confronti della richiesta di erigere una cappella protestante atteggiamento in piena coerenza sia con la sua coscienza di capo di stato cattolico, sia di una popolazione che condivideva tali principi in maniera così profonda. Spiegato è anche l’appoggio massiccio che ebbe il Cardinale Ruffo nella sua azione di riconquista e della distruzione della tanto decantata Repubblica Partenopea, in fondo espressione di una ristretta élite settaria.

E una nuova luce acquistano le famose dichiarazioni fatte con la solita arroganza britannica, da Gladstone che “il regno era la negazione di Dio eretta a sistema di governo”. Questo dopo che, nel 1851 compì un giro in Italia e fu anche a Napoli, dove, per sua stessa ammissione resa più tardi a Lord Palmerston ed ai liberali britannici, che in realtà riferiva e prendeva per buono quanto udito dai liberali napoletani.

Quanto affermato da Arpino ad Owen sul deterioramento dei rapporti con il Regno Unito, assumono un aspetto molto diverso in quanto, il diplomatico napoletano, aveva già la sicurezza della sua nomina a Ministro degli Esteri del Regno. Il decreto del Re che disponeva la sua nomina era già pronto e doveva essere solo firmato dal sovrano, ma meno di dieci ore dalla firma del trattato con gli USA don Giuseppe Mario Arpino morì improvvisamente. Eppure le sue condizioni di salute sembravano essere ottime ed aveva solo cinquantacinque anni; quanto alle cause della sua morte rimangono molto incerte. Sicuramente è da escludere il colera come accennava Owen, per altre cause naturali è possibile che avesse avuto un colpo apoplettico. Gianvito Armenise, autore del libro su Arpino, fa notare, non con una certa malizia, come i rapporti con il Regno Unito si stessero velocemente deteriorando, cosa testimoniata anche da Owen e come il trattato firmato tra USA e Regno delle Due Sicilie fosse un boccone troppo indigesto per gli Inglesi. Sta di fatto che di lì a poco i Britannici strinsero i tempi e la caduta del Regno di Napoli che si concretizzò con sommo gradimento di tutte le forze più o meno occulte a lui sfavorevoli.

Luciano Garofoli

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