di Roberto PECCHIOLI
Robert Brasillach, lo scrittore e poeta francese fucilato nel 1945 per collaborazionismo, scrisse dal carcere di Fresnes un densissimo libretto dal titolo Lettera ad un soldato della classe 60. Si rivolgeva ai giovani francesi nati nel 1940, l’anno drammatico dell’inizio dell’occupazione tedesca, la generazione che sarebbe stata chiamata alle armi nel 1960. Nella tradizione francese, la classe era quella della coscrizione militare, e Brasillach intese trasmettere loro , bimbi di pochi anni nel 1945, un testamento spirituale in cui unì l’ansia della rigenerazione morale e nazionale della Francia, l’auspicio della pacificazione finale con il secolare nemico tedesco e la rivendicazione del suo personale percorso politico ed esistenziale che l’avrebbe condotto davanti al plotone di esecuzione gollista nonostante l’appello in suo favore dei più grandi intellettuali francesi di ogni orientamento.
In Italia, i nuovi ragazzi del Novantanove sono la classe del 2018 appena iniziato. Ragazzi del 99 è il nome attribuito ai giovanissimi coscritti nati nel 1899, arruolati diciottenni quasi per disperazione al principio del 1918 dopo la rotta di Caporetto. Quei ragazzi strappati ai campi dettero un importante contributo alla vittoria di novembre. I giovani nati un secolo dopo, nel 1999, sono oggi maggiorenni e tra poco saranno chiamati a scegliere, con il voto, il futuro della nazione. Una grande differenza, e fortunatamente non si chiede loro il tributo di sangue che i soldatini della classe 1899 dovettero versare in una guerra che non capivano e delle cui ragioni nulla sapevano.
Non possiamo permetterci di scrivere loro una lettera, tutt’al più leggerebbero una e-mail o un SMS, e comunque noi delle generazioni adulte dovremmo soltanto chiedere scusa per il mondo che hanno trovato. Possiamo però riflettere sulla condizione della nostra nazione – e sul mondo interconnesso di cui è parte – sperando contro ogni logica che proprio dai più giovani, i ragazzi del 99 e i figli del Terzo Millennio, quelli che la semplificazione giornalistica chiama millennials, parta una riscossa che da Caporetto conduca a Vittorio Veneto. Le premesse sono del tutto sfavorevoli, pessimi sono i segnali che arrivano dai giovani, di nient’altro colpevoli che di essere figli nostri.
La loro è una generazione smobilitata psicologicamente e politicamente; secondo le indagini demoscopiche, solo tre su dieci si recheranno a votare alle imminenti elezioni politiche. Non vi è nulla di strano, purtroppo, niente che non sia previsto e voluto da chi comanda. Depoliticizzare le masse è infatti il modo migliore per perpetuare il potere di chi ce l’ha già. I cambiamenti vengono dai giovani, dalla loro volontà, dall’energia, dalla purezza degli ideali non ancora sporcati dal tornaconto, dalla prudenza, dal cinismo.
Il potere, negli ultimi vent’anni, pressappoco da quando sono venute al mondo le generazioni che oggi cominciano ad avere voce in capitolo, ha convinto i più della propria immutabilità. Non ha affermato che viviamo nel migliore dei mondi; ci ha persuaso che quello presente è l’unico sistema possibile, una sorta di dato di natura. Per convincerci, ha usato molti argomenti, ma tutti possono essere riassunti in uno: la nostra è l’era del progresso continuo. Oggi è meglio di ieri, il nuovo è di gran lunga più bello, invitante, più eccitante del vecchio. Non resta dunque che gettarsi nella mischia e godere delle straordinarie opportunità del progresso. Il primo effetto è quello di ignorare tutto del passato, anche il più prossimo: a che serve, se sappiamo con certezza che fu un’epoca buia, negativa, neppure lontanamente paragonabile al meraviglioso mondo nuovo? I ragazzi del 99, quindi, non solo non hanno convinzioni politiche, ma, in maggioranza, neppure opinioni, se non quelle prefabbricate dal sistema di intrattenimento, che ha sostituito quasi del tutto la scuola, la famiglia, la comunità.
Per i Ragazzi del Novantanove le tre cose più importanti sono i social network (Facebook, Instagram e simili), il posto fisso e lo smartphone. Lo affermano serissime analisi sociologiche condotte dai maestri della statistica, ma basta uno sguardo per rendersi conto che è così. Pochi mesi fa, fummo spettatori attoniti, su un treno pieno di adolescenti di ritorno dalla scuola, del fatto che tutti, ma proprio tutti, smanettavano sullo smartphone e comunicavano tra loro con quel mezzo. Erano seduti uno accanto all’altro, ma non parlavano: “chattavano”. Sono loro ad aver propagato l’abitudine, che ha raggiunto le altre fasce d’età, di vivere ogni momento della giornata connessi, fotografando se stessi, l’ambiente circostante, le situazioni che vivono, il cibo che mangiano minuto per minuto, commentando compulsivamente i post altrui, in una sorta di diario emozionale aperto, multimediale e ipertestuale.
E’ una mutazione antropologica di portata immensa, di cui non siamo ancora in grado di cogliere gli sviluppi. Possiamo avvertire dei rischi, ma non saremo ascoltati: è la voce del passato, non conta nulla perché è “indietro”, non solo temporalmente, ma soprattutto tecnologicamente. E’ infatti la tecnica fattasi tecnologia il mare magnum del presente. Il resto è nulla. I genitori hanno svuotato il mondo dai principi, i figli non fanno altro che vivere nell’unico modo che conoscono. Credono ancora nel posto fisso, come le generazioni precedenti, ma sembra più un’aspirazione difensiva, un sogno di chi è stato diseducato ad impegnarsi. Certo, il mondo nuovo ha reso tutti precari, ha impoverito i padri per tenere meglio in pugno i figli, quindi un lavoro fisso, anzi, come si dice, a tempo indeterminato, fa gola perché è sempre più raro.
Dietro la leggenda neoliberale – adesso la chiamano “narrazione” – del diventare imprenditori di se stessi si nasconde una vita da sotto occupati, o da somministrati – i contratti detti di somministrazione sono quelli in cui chi lavora è in affitto temporaneo! – o da migranti perpetui. Zingari senza carrozzone e senza appartenenza ad una tribù: li hanno convinti, piace in modo straordinario. E’ sufficiente ascoltare i discorsi di chi ha meno di trent’anni: il sogno è viaggiare continuamente, correre ovunque. Cogliere le opportunità, suggerisce il copione progressista, sostenuto dalla grancassa dei mezzi di comunicazione e da specchietti per le allodole come il progetto Erasmus. Andare all’estero per un periodo, poco studio, poco impegno, una bolla di sapone che alimenta desideri e speranze, per essere pronti ad un futuro da scavalcamontagne, come un tempo erano chiamati gli attori delle compagnie girovaghe. L’esito è una generazione di sradicati, estranei a tutto, innanzitutto alla propria origine culturale e nazionale, cittadini di una cosmopoli virtuale che non esiste e si spegne al termine della connessione, illimitata come promettono i gestori delle reti.
A che cosa dovrebbero attaccarsi i ragazzi del 99, se i loro insegnanti hanno sostituito Gesù con Perù? In una scuola dell’operoso Nord Est, una maestra ha insegnato una canzoncina natalizia in cui, per mantenere rime e assonanza e non offendere atei e stranieri, la parola Gesù – (l’ex festeggiato, quello di cui ricordiamo il natale) è stata cambiata in Perù. Non vorremmo offendere i bravi sudamericani, ma auguriamo una lunga permanenza sul lago Titicaca tra le nevi andine per la docente friulana, frutto del nulla chiamato orwellianamente buona scuola, dipendente di un ministero a cui vertici siede Valeria Fedeli, donna di vedute certe ma di incerta alfabetizzazione. Davvero, non resta che vergognarci come membri delle generazioni adulte.
Lasciamo ai millennials un’Italia con dieci milioni di poveri, dopo che i nostri padri e nonni hanno lottato per creare un benessere che non fosse solo ben-avere; viviamo sempre più da soli, nuclei unipersonali li chiama l’ISTAT, lasciamo l’eredità alla badante perché non abbiamo figli. Chi li ha, deve tenerli in casa oltre ogni logica perché, guarda un po’, sono precari. Abbiamo preferito noi per primi la convivenza al matrimonio: meno responsabilità, tutto più facile al momento della probabilissima rottura, abbiamo creduto alla favola giudiziosa secondo cui i sentimenti non hanno bisogno di firme sotto un documento, figurarsi della presenza del prete e della formula raggelante secondo cui bisogna stare uniti nella buona e nella cattiva sorte. Non possiamo meravigliarci se i più giovani hanno portato a compimento le idee da noi diffuse, e neppure vivono più insieme, giusto il tempo di un viaggio, una vacanza, uno stage o un lavoro a termine.
In compenso, sostiene qualcuno, oggi studiano tutti, non solo l’analfabetismo è scomparso, ma siamo più colti e consapevoli. Sarà, ma tutt’al più è vero che le ultime generazioni possiedono dei titoli di studio, ma il livello medio delle conoscenze è bassissimo. Milioni di diplomati e molti laureati hanno scarsa padronanza della lingua italiana, non sono in grado di comprendere un testo di media complessità, e comunque non si prendono più neppure la briga di leggere. Le statistiche relative sono mortificanti: nell’anno di grazia 2017 testé consegnato alla storia, solo quattro italiani su dieci hanno aperto un libro, cartaceo o digitale. Tra loro, è desolante la percentuale dei lettori uomini, solo uno su tre, nonché la condizione di retroguardia del Sud (25 per cento), nonostante sia proprio il meridione a sfornare il maggior numero di laureati.
Chi detiene davvero il potere – le oligarchie industriali, finanziarie e tecnologiche – ha lavorato benissimo: spoliticizzati, poco inclini alla lettura, quindi incapaci di approfondimento, di distinguere il vero dal falso, non allenati al pensiero critico. E’ la fotografia di due, tre generazioni, i ragazzi del 2018 sono soltanto gli ultimi a fare le spese del livellamento in basso. Naturalmente, siamo, meglio sono, più sani e più belli: palestre, trucchi, depilazioni, un culto dell’apparenza che avvolge e travolge. Però, milioni di persone, con i giovani a guidare le classifiche, sono preda di problemi psicologici, sino alla dipendenza da farmaci e terapeuti. Oltre tre milioni- anche qui soprattutto giovani- soffrono di disturbi dell’alimentazione, con la piaga dell’anoressia femminile e del suo opposto, la bulimia.
L’uso di droghe non fa più notizia, è ormai banalizzata la cannabis, ma anche i prodotti di sintesi chimica (ecstasy, crack e cento altre) mentre l’alcool spopola tra i più giovani. Non è più il vino dei nonni, ma i superalcolici, soprattutto in forma di micidiali cocktail. I medici dei pronto soccorso lanciano sempre più spesso allarmi sulla diffusione dei coma etilici, e l’ubriachezza è diventata comune anche tra le ragazze, nei fine settimana in cui la cosiddetta trasgressione è diventata obbligo di massa. Sempre più difficile è rispondere alla domanda su dove trovino i soldi da spendere per tutto questo, se devono fare i conti con bassi stipendi e lavoretti occasionali. O forse noi adulti abbiamo la coscienza doppiamente sporca, perché da genitori e nonni riempiamo loro le tasche e, peggio ancora, perché li sfruttiamo in tante modalità diverse di cui non amiamo parlare.
Essenziale sembra essere, per tutti, il soddisfacimento immediato, la mobilità, l’estensione dello spazio senza luogo, l’emozione del presente. I soldati smobilitati della classe 18 sono esattamente come noi abbiamo permesso che fossero. Hanno poca voglia di votare per molte ragioni: forse è un gesto di saggezza, loro sempre connessi sanno meglio di noi di contare poco o nulla. Sono consumatori, si comportano come tali. Da mezzo secolo, gli europei e gli occidentali sono in rotta perché, tecnologia a parte, hanno rinunciato ad insegnare ed a imparare. Prigionieri della materia, abbiamo terminato gli anticorpi.
L’effetto prima ubriaca ed euforizza, poi blocca la ragione e si fa letale, simile al veleno descritto da Shakespeare in Misura per Misura: “come i topi divorano voracemente il veleno, le nostre inclinazioni corrono dietro ad un male di cui sono assetate, e quando beviamo, moriamo.” Per citare un’altra opera del Bardo, La Tempesta, siamo ostaggi dell’acquavite somministrata a Calibano. Sotto i suoi effetti, l’indigeno canta e balla, lanciando grida scomposte di libertà per reclamare la perduta sovranità dell’isola in cui era nato. Un buffone ed un imbroglione diedero forza alle sue inclinazioni, offrendogli la droga di cui era assetato. La canzone di Calibano ebbro pare una metafora della condizione del nuovo primitivo postmoderno plasmato dal sistema di potere: “Più non farò recinti per pescare; più non porterò legna da bruciare; più non avrò taglieri da grattare, né piatti da lavare. Bau-bau, Calibano ha cambiato sultano. E tu tròvati un altro che gli passi la mano. Allegria, libertà! Allegria, libertà!”.
I Ragazzi del Novantanove sono i Calibano del presente: non il buon selvaggio di Rousseau, bensì generazioni troppo civilizzate rese deboli, sottomesse a nuovi e vecchi padroni. Forse l’ultimo gesto delle generazioni che si sono lasciate imbrogliare come il personaggio della Tempesta è riprendere il senso ed il gusto della ribellione. Ribellarsi, mettersi in gioco, rischiare è azione da giovani. In fin dei conti, si mette a repentaglio solo la connessione, Facebook, lo smartphone e il posto fisso che non c’è più. Un secolo fa misero in palio la vita per una guerra non loro, dopo i tragici errori dei padri, costretti a morire in un conflitto che fu la tomba dell’Europa.
Cent’anni dopo, se lo vorranno, i pronipoti potrebbero iniziare la risalita. I Ragazzi del 1899 sono nella storia. Quelli del 1999 non possono essere solo un profilo su Facebook, un nickname nel ciberspazio. Mi piace, non mi piace non stanno in un clic: gridatelo nelle piazze in faccia a noi che vi abbiamo ingannato.
Roberto PECCHIOLI