Non c’è pace neppure al bar. A una cliente dubbiosa su un vino, il titolare ha risposto piccato che “ la marca è la migliore di tutte, lo ha detto l’Intelligenza Artificiale”.
Non conoscevamo – maledetta ignoranza- le doti di sommelier della scatola magica, ma ci ha colpito la fede cieca nel giudizio di un apparato tecnologico. Viene in mente un’ espressione attribuita a Agostino di Ippona: Roma locuta, causa finita. La questione (del Prosecco…) è risolta da un’autorità assoluta, inappellabile. Una macchina oggetto di culto, anzi di fede.
L’Intelligenza Artificiale dirime ogni dibattito dall’alto di una potenza, di un’aura di infallibilità superiore a ogni oracolo o divinità. La tecnica si divinizza e intanto esenta dal pensiero, dal giudizio, dall’onere di ragionare o risolvere autonomamente problemi.
Siamo diventati ipopensanti. O de-pensanti liberati da un affanno insostenibile, la riflessione che dà il mal di capo e obbliga a prendere in considerazione punti di vista, idee, prospettive diverse. Impresa faticosa, noiosa, soggetta a sbagli. Meglio la rassicurante opinione comune, specie se indiscutibile perché prodotta (il verbo dovrebbe indurre alla riflessione) da una macchina.
Scrive lo psicologo Roberto Marchesini che “ perdere la capacità di compiere alcune azioni, compreso il pensiero, significa che la tecnologia ci sta facendo precipitare all’età della pietra”. Dell’ intelligenza, della libertà. Troppo difficile da capire:meglio la soluzione pronta, a portata di clic sullo smartphone o sulla Chat GPT alimentata dall’I.A. La generazione ipopensante è fatta di recettori passivi il cui motto è credere,obbedire, consumare. Esente da dubbi, poiché solo chi riflette mette in discussione l’esistente.
Il resto lo fa la macchina, con le sue risposte confezionate ammantate di indiscutibilità tecnoscientifica e di onnipotenza. E’ il soluzionismo: a tutto esiste una soluzione, offerta dalla tecnica. Per risolvere tutto, cliccate qui. Perché dovremmo appoggiarci a leggi, Stati, istituzioni, idee, ragionamenti complessi, tentativi, quando abbiamo a disposizione dei sensori e dei circuiti di retroazione? La tecnologia è lì con un unico scopo, aiutarci, affermano color che sanno. E’ un modello di governo e un programma politico.
Unico difetto: è concepito ed utilizzato contro la persona umana e le libertà. Anziché governare le cause dei problemi, operazione che richiede coraggio, immaginazione, flessibilità mentale per padroneggiare la complessità, si limita a controllare gli effetti per offrire la soluzione a uso della massa. Una dolce droga per schiavi soddisfatti . La tecnologia non ha altro scopo che funzionare. I fini sono di chi la alimenta, controlla, impone.
Non si tratta, se non marginalmente, dell’arricchimento. Lo ripetiamo sino all’estenuazione. L’obiettivo è il controllo prima, il dominio poi, su un’umanità di
ipopensanti, una mutazione antropologica in cui ci affidiamo – o ci consegnamo- senza anticorpi alla tecnica. La via dell’istupidimento per automatismo dei processi mentali, fideismo cieco nei processi meccanici è tracciata, l’ autostrada del vuoto pneumatico, senza coscienza critica, senza memoria storica né cultura. Quando serve ( altro verbo che dà i brividi a chi ragiona) basta cliccare sulla tastiera, curvi sull’apparato, digitare la domanda appropriata e in tempo reale ( la tirannia del presente diretta dal Ministero del Progresso) appare la risposta. Facile, suadente, indiscutibile , unica, adatta per lessico e linguaggio assertivo al pubblico medio, ossia minimo.
La postmodernità è un gigantesco strip tease di massa, lo spogliarello di pensieri, conoscenza, libertà . Come negli spettacoli del genere, ci si libera di tutto; gli abiti vengono sfilati uno alla volta sino alla caduta dell’ultimo velo tra gli applausi del pubblico. Nudità cerebrale nella forma del conformismo.
Verità perché l’ ha detto l’Intelligenza Artificiale, o la televisione, o la scienza. Le nuove religioni senza Dio, bisognose di fedeli ipopensanti.
Nei mercati di una volta, si richiamava l’attenzione gridando le lodi delle merci. Una fruttivendola del mio quartiere usava rivolgersi agli acquirenti ripetendo: chi ci pensa resta senza. Una perfetta psicologa del linguaggio applicato al marketing, una maestra inconsapevole dei meccanismi mentali di massa. Non dobbiamo pensare, ma acquistare: prodotti, idee, opinioni. In fretta, di getto, senza riflettere. Se ci fermiamo a pensare crolla l’artificio degli imbonitori.
In fondo si sono limitati a sostituire i principi di ieri – Dio, patria, famiglia, lotta di classe, giustizia sociale- con credenze nuove, funzionali al mondo ipopensante.
Chi pensa valuta, giudica, rifiuta, sceglie. Proprio quello che è vietato dal canone inverso della contemporaneità. Se pensi lo fai in base a un sistema di valori rielaborati, una catena di trasmissione che la modernità ha deciso di interrompere. Tutto ciò che abbiamo ricevuto è falso, vero è ciò che afferma la macchina, a cui vengono attribuite virtù di oggettività che non possiede. La tecnologia non è mai neutra, ma l’umanità ipopensante non lo sa più, perché se ci pensa resta senza, come vuole la megamacchina della pubblicità, della propaganda, dell’indottrinamento.
Abbiamo molti diritti inutili, tra i quali quello di dividerci su questioni secondarie, le liti montate ad arte da talk show televisivo, le contese in cui siamo come i capponi di Renzo che si beccavano ma erano destinati alla tavola dell’avvocato Azzeccagarbugli. Ci ha sempre colpito una riflessione di cui non ricordiamo l’autore: le pecore temono il lupo, ma è il pastore che le uccide. Certo, dopo averle nutrite e ingrassate, poiché quello è il suo interesse. Crediamo alle mode, cioè alle scelte altrui, siamo infastiditi dalla lettura e da qualsiasi cosa abbia bisogno di attenzione, studio, elaborazione personale. E’ il tempo del selfie in cui riproduciamo noi stessi e il mondo diventa sfondo, anzi location.
Le cattedrali non furono fatte per l’ente del turismo, tuonò inascoltato Nicolàs Gòmez Dàvila. La civiltà dell’immagine è per natura immediata, nemica dell’onere di pensare: le cattedrali sono state erette per essere fotografate con al centro “io”.
Lo spogliarello dei pensieri- dunque della civiltà- produce un voyeurismo di massa in cui vale ciò che appare. Non conta ciò che sono, conta che abbia un marchio, sostituto a pagamento dell’ identità perduta, ciò che indosso, uso, consumo. Identità significa consapevolezza di ciò che si è, ma consapevole è solo chi ragiona. L’Io non è il Sé.
Perfino la musica non è più tale, rumorosa colonna sonora di una terra desolata esistenziale affogata nel ritmo ripetitivo del rap e del trap, con testi a cavallo tra stupidità, sballo metropolitano e glorificazione el modello amorale del successo, delle esperienze mordi e fuggi. L’attimo di chi, se ci pensa resta senza. La psicologia sociale ha scoperto una nuova sindrome, tipica dell’assenza di pensiero: si chiama FOMO (fear of missing out), il timore di essere tagliati fuori, di perdersi qualcosa nel circo degli avvenimenti, una malattia del conformismo spensierato, cioè privo di pensiero.
Nessuno vuole essere fuori dal gregge pur nella convinzione di essere unico, speciale. Viaggiatori dell’identico che trovano dappertutto l’Uguale, rassicurante, esente da giudizio, il copia e incolla senza occhi per vedere, cervello per giudicare oltre il “mi piace- non mi piace” delle reti sociali, immediato, definitivo, senza un perché. Fotografano luoghi per attestare che ci sono stati.
Pollice alzato o abbassato alle piramidi, alla Gioconda, alle cascate del Niagara, secondo umore. Nonluoghi per non-persone.
Proust affermava di attribuire poco valore all’intelligenza. Presagiva forse l’atrofia della tecnicità, l’incapacità- lui cercatore, rabdomante del tempo perduto- di uscire dalla prigione dell’attimo. Chi ci pensa resta senza. Senza che cosa, se non il grande ospizio occidentale, l’indifferenza nichilista ostentatamente gaia per coprire il nulla, la morte della metafisica e dell’arte, derubricata a creatività soggettiva, per quanto malsana, oppure bizzarria, eccentricità, ossia perdita del centro?
L’individualismo sfocia nel materialismo,cioè, secondo Giovanni Gentile, nel crollo di ogni moralità. L’ipopensante è centrato su se
stesso, incapace di atti generosi o proiettati nel futuro. Non pianta alberi per un’ altra generazione come il contadino; preferisce il moto senza direzione, la corsa del criceto estranea al pensiero meditante (Heidegger) o alla calma interiorità di chi sa fermarsi, contemplare, osservare, che Franco Cassano chiamava pensiero meridiano, capace di oltrepassare il tempo lineare, contrastare il predominio febbrile del momento, vincere l’estensione in nome della profondità.
L’ipopensante non è erede ; divora quel che ha e non trasmette lasciti. Anche quando ama, lo fa per un attimo, una fiammata presto dispersa in cenere. Nessuno ascolta più il monito di Ezra Pound : “quel che veramente ami non ti verrà strappato. Quello che veramente ami la tua eredità.” L’ipopensante non vuole eredi in quanto non ama.
Tutt’al più brucia emozioni. Nel mondo in cui è tutto permesso, il nuovo – unico alimento del cervello che non pensa- è l’oppio dei popoli. Poteva dirlo solo Pasolini, un reazionario difeso dal suo conclamato filocomunismo e dalla corazza della trasgressione vissuta sulla pelle, non come stanca ripetizione di gesti altrui.
Tuttavia hanno ragione gli ipopensanti, che vivono assai meglio degli altri. Si lasciano trasportare dalla corrente convinti di averla scelta, non pochi arrivano a considerarsi riflessivi perché comprano certi giornali o seguono certi personaggi. Amano il loro destino di followers – di seguaci- non guardano indietro, avanti e neppure di lato, come i cavalli alla briglia con il paraocchi. Fortunati loro, che non conoscono la migrazione interiore, l’esilio dal proprio tempo, ignorano l’ascesa dell’ignoranza , l’espansione della bruttezza, non riconoscono il disprezzo dei gruppi dirigenti, domatori con bastone, carota e tecnologia, non si accorgono del narcisismo che praticano e dell’adesione a valori
mercantili. Parlano la lingua dei dominanti senza battere ciglio.
Chi non pensa non sospetta la possibilità di essere altrimenti. L’antica caverna di Platone, le ombre sui muri scambiate per luce. Beati ipopensanti, che neppure possono intuire il dolore di una frase come questa, di Alain De Benoist: “appartengo a una generazione che nell’arco di una vita ha visto quasi scomparire una religione, una cultura e un Paese. “
Che cosa metteranno nella loro epigrafe, se a qualcuno verrà in mente – oh, un pensiero ! – di scriverne una ? Domanda stupida: il nulla non ha storia.