di Roberto PECCHIOLI
Perdere la memoria è un affare serio. Il tema è assai frequente nel cinema e nella televisione: sempre, la persona smemorata è rappresentata con lo sguardo vuoto, perso nel nulla per un dolore intenso che si chiama nostalgia, la sofferenza per ciò che non abbiamo più. Dello smemorato, ci tocca l’incapacità di dare un nome alle persone e alle cose, riconoscerle, attribuire un senso agli eventi. E’ un’interruzione terribile, un cortocircuito drammatico, la privazione dello scrigno interiore che custodisce esperienze, conoscenze, dolori, gioie, l’amore e il rancore: la vita. Chi ha perduto la memoria sembra, ed è davvero, un adulto neonato a cui un destino avverso ha rubato emozioni ed esperienza: è tragico non riconoscere più se stessi e il mondo circostante.
Questo vale per gli individui, gli smemorati. La cronaca italiana, tra il 1927 e il 1931, raccontò la vicenda di un uomo che aveva perduto la memoria, ricoverato a Collegno, presso Torino. Probabilmente – lo stabilirono infine i rilievi dattiloscopici – si trattava di un truffatore latitante, Mario Bruneri, ma una famiglia veneta lo identificò come un congiunto, un ufficiale disperso in guerra, docente e filosofo, Giulio Canella. Il caso divenne proverbiale, interessò il cinema e la letteratura e “smemorato di Collegno” divenne l’espressione comune per descrivere vere o presunte amnesie.
Il problema sorge allorché dal piano personale, soggettivo, si passa alla dimensione comune: l’Occidente, l’Europa, l’Italia sono state colte da amnesia collettiva. Siamo diventati altrettanti smemorati di Collegno, con l’aggravante che a nessuno interessa più se siamo Bruneri, l’uomo che viveva di truffe ed espedienti, o Canella, bravo ufficiale, uomo colto, padre affettuoso, marito devoto. Nessuna differenza, cioè in-differenza, effetto collaterale della perdita di memoria. Popoli interi non sanno più chi sono e –peggio- sono disinteressati a saperlo. Amnesia, rimozione, cancellazione. Si potrebbe dire, con una battuta di Jorge Luis Borges, che si tratta generazioni con il passato davanti, o forse no, giacché anche il futuro non se la passa bene, nel festival dell’immediato, nella dittatura del tempo reale, nel presente misura di tutte le cose.
Il fenomeno è macroscopico nelle ultime generazioni, indizio che non si tratta di un segno dei tempi, ma di una cosciente, criminale opera di smantellamento civile, etico e culturale perseguita da chi domina il mondo e ha interesse a trasformare gli uomini in capi di bestiame, tutti uguali, diversamente uguali come gli animali d’allevamento a cui è applicato un cartellino all’orecchio e un chip. Alcune specie si riproducono attraverso l’inseminazione artificiale, vivono per un tempo prestabilito e poi vengono abbattute per diventare carne, pelle, o quanto altro interessi all’industria zootecnica. Perdere la memoria collettiva, dunque, unitamente a quella individuale, storica, spirituale e morale, è una gigantesca operazione di ingegneria sociale anti umana.
Non mancano esempi letterari, curiosamente quasi tutti di segno contrario, gente che consapevolmente vuole cancellare il passato, le tracce della vecchia vita e ripartire da zero, con un nome nuovo e una storia inventata. E’ il caso del fu Mattia Pascal di Pirandello, diventato Fabio Meis, che inscena due volte la propria morte. Le civiltà, lo sapeva già il padre della storiografia, Tucidide, non muoiono per omicidio, ma per suicidio.
I fautori dell’oblio, gli smemorati di Collegno contemporaneo chiamano se stessi woke, risvegliati: il mondo al contrario. Abbattono statue, cancellano le tracce della storia, aboliscono retrospettivamente la civiltà. Agisce un Ministero occidentale della Retroattività, simile al Ministero della Verità di 1984. Nel romanzo di Orwell, si modificavano i libri e gli archivi per adattare la storia – la memoria- agli interessi del potere. La realtà va oltre: la cancellazione diventa obbligo, personale e collettivo. La Tabula Rasa è il simbolo del nulla che avanza. Non si riscrivere il passato, lo si abolisce tout court o lo si giudica con i criteri del presente, creando un nuovo canone morale, il Metro di Giudizio Universale.
Anni fa, trovammo su una bancarella un libro portoghese in traduzione spagnola, El vendedor de pasados, (il venditore di passati) di Eduardo Angalusa. E’ la storia di uno strano personaggio che nell’Angola coloniale si guadagnava da vivere costruendo un passato illustre per le famiglie di chi aspirava a cariche pubbliche. Un trafficante di memoria con accenti di realismo magico alla Garcìa Màrquez, capace di inventare alberi genealogici e gesta eroiche degli antenati dei clienti. Uno, tuttavia, gli chiese il contrario: l’oblio. Si era svegliato un giorno con un volto che non era il suo. La sua faccia era stata rubata e l’uomo, superato lo smarrimento, chiese al venditore di passato “una menzogna volgare e convincente”. Irriconoscibile, si rese conto di poter davvero diventare una tabula rasa. Per questo, chiedeva il contrario degli altri clienti: un passato senza storia, una genealogia oscura ma irrefutabile, senza gloria e senza memoria.
Forse la finzione letteraria nasconde qualcosa di ben reale: riformulare il passato per cancellarlo, destituirlo di valore, renderlo indifferente e quindi meritevole di oblio. La stranezza del presente è che non si inventano più utopie. Basta con Tommaso Moro o la Città del Sole di Campanella, richiusi definitivamente i libri della Repubblica di Platone, ci siamo prima dedicati alle distopie- le utopie negative, da Zamjatin a Bradbury sino a Huxley e allo stesso Orwell- poi, atterriti da una realtà peggiore dell’incubo letterario, ci siamo dedicati alla distruzione del passato. Utopie e distopie parlano al futuro, ma sono (che paradosso!), frutto del passato. L’orizzonte non è più davanti, ma dietro, dando ragione a Borges, maestro del labirinto, sulle generazioni con il passato davanti a sé.
I giovani sono invitati a cambiare il passato- demonizzandolo o gettandolo nella spazzatura- non a progettare il futuro. Il loro compito, assegnato dai padroni universali, è diventare vittime – reali o fittizie- di ieri, non costruire il mondo di domani. A quello pensano lorsignori. L’impeto, il desiderio naturale al cambiamento viene orientato nell’indignazione diretta verso il passato. Si pretende che i giovani diventino i protagonisti di una rivoluzione vana come la corsa del criceto nella ruota dentro la gabbietta. Cancellato il passato, milioni di smemorati di Collegno assumono la stessa espressione vacua di chi non conosce più neppure il suo nome. Cammino impossibile, quello che cancella il passato e non costruisce il futuro.
Diventa vana anche la speranza di Saint Exupéry in Pilota di guerra. Sorvolando la città distrutta, è convinto che tutto si potrà ricostruire se qualcuno saprà riconoscere le pietre di una cattedrale. Ma nell’oblio, nessuno sa più che cos’ era una cattedrale. L’incultura della cancellazione abolisce i concetti abolendo o capovolgendo le parole. Gli smemorati sono afasici: senza parole, con lo sguardo nel vuoto, circondati da un panorama privo di significato, né bello né brutto, né buono, né cattivo. Deprivato dalla storia, la sua personale, quella della sua famiglia, del suo popolo, del mondo intero, allo smemorato non resta che la nuda esistenza, l’istinto e il bisogno primario, ossia la regressione. La cancellazione dell’homo sapiens.
Se ne vedono i sintomi: generazioni di “signorini viziati”, non solo immemori, ma che confondono natura e cultura, il creato e la costruzione umana. Sono giunti, come osservava Ortega y Gasset, a porre fra la natura e sé “una zona di pura creazione tecnica tanto spessa e profonda che è venuta a costituire una sovranatura. L ‘ uomo massa è irrimediabilmente ascritto e collocato in questa artificialissima sovranatura come l’uomo primitivo nel suo ambiente naturale primordiale. “Gli smemorati di Collegno sono circondati da una quantità favolosa di oggetti e procedimenti che formano un paesaggio artificiale di tale spessore da occultare tutto il resto. Finiscono per credere che come in natura, tutto esiste di per sé: l’automobile, l’aspirina, il computer, non sono oggetti che bisogna fabbricare, che hanno dovuto essere prima pensate e inventate con metodo e genialità, bensì cose, come la pietra e la pianta, date all’uomo senza suo previo sforzo. L’uomo smemorato “perde la coscienza della tecnica e delle condizioni in cui questa viene prodotta, tornando, come il primitivo, a non vedere in essa se non doni naturali che esistono di per sé e non esigono lo sforzo per sostenerla e mantenerla.”
Una delle conseguenze è la tendenza all’uniformità. Più che all’uguaglianza, ideale antico, vince l’equivalenza, ossia l’indifferenza. Ciò che è equivalente, non ha bisogno di giudizio, né di sforzo: per questo tende a standardizzarsi, a diventare intercambiabile. Vale anche per le persone. Rese opache dall’oblio, diventano uniformi, senza caratteristiche personali: prodotti di serie, esattamente come le merci dell’industria. In una certa fase della crescita, tra la pubertà e la prima giovinezza, è naturale la tendenza a comportarsi “come tutti gli altri”. E’ la fase in cui si riconoscono, riproducono e introiettano i valori della comunità. Diventa decisivo il ruolo dei coetanei, il “gruppo dei pari”. Ma, appunto, si tratta di una fase transitoria, propedeutica alla costruzione della personalità individuale.
La genialità del potere è aver cristallizzato questa fase della giovinezza e averla trasformata in atteggiamento permanente: il conformismo, l’equivalenza, la serialità da prodotto di scala sono pilastri di generazioni che non crescono, tendenzialmente irresponsabili, che giocano per tutta la vita aborrendo l’età adulta. Il problema – terribile- è che il sistema impone a un’umanità smemorata, comportamenti, attitudini, modelli negativi. Ecco il linguaggio volgare, da suburra, l’arroganza e il baccano che nascondono una terribile fragilità e il vuoto interiore, il lessico ridotto al minimo, l’allegria priva di umorismo, il comportamento gregario. Ascoltano pessima musica che dicono di amare ma è solo la colonna sonora obbligata del branco, si rifugiano nei luoghi comuni considerati trasgressivi e invece gregari, modaioli.
Il padre di una ragazzina ci confidava il suo disagio nel vederla, in spiaggia, con un costume che mostra pressoché per intero il “lato B”. Eppure, dice, non è esibizionista né ribelle: se non si (s)veste così viene esclusa dal gruppo, diventa una “suora”. Meglio se fosse un po’ esibizionista, nel senso di mostrarsi distinta dal modello imposto, che in fondo nasconde, poiché tutti sono identici, intercambiabili. Meglio ancora se diventasse ribelle. Invece è affetta da una nuova malattia, di una generazione smemorata, timorosa di perdere qualcosa, di rimanere esclusa dalle attività, dai riti di gruppo. Si chiama sindrome FOMO, (fear of missing out), l’orrore dell’esclusione, di non vivere fino in fondo la corsa nella ruota predisposta dal potere.
Sgomenta la composizione per età delle manifestazioni di queste settimane contro gli obblighi sanitari e il passaporto verde: la maggioranza schiacciante sono anziani o persone di mezza età. Il Dominio ha lavorato egregiamente: è perduta la memoria del dissenso. La ribellione scavalca la giovinezza e diventa patrimonio degli adulti e della terza età. Un capovolgimento sconvolgente, per comprendere il quale, ahimè, occorre avere memoria di “prima”. Sempre, la ribellione, l’ansia di cambiamento, le idee nuove, sono state patrimonio dei giovani. Averli cambiati tanto in profondità, trasformati in docili, mansueti consumatori, schiavi dei desideri e del presente, è il crimine contro l’umanità delle generazioni al potere.
Una ragazza di nostra conoscenza ci ha detto che è meglio un cane di un figlio. All’obiezione che se si fosse sempre ragionato così l’umanità sarebbe estinta, lo sguardo era di commiserazione. Ha ragione lei, figlia perfetta della generazione di chi scrive. Il frutto raramente cade lontano dall’albero; la differenza rispetto al passato è l’ampiezza e rapidità dei fenomeni. Non vale neppure l’antico carpe diem oraziano. Non si coglie l’attimo per viverlo con intensità, farne un momento di vitalità e persino di eternità. Ci si limita a bivaccare nel presente senza memoria e senza prospettive. Gli smemorati, immersi nell’odiernità, non sono posteri di alcuno e non lasceranno eredi. Il loro transito nel mondo non avrà traccia, ma anziché farsene un cruccio, preferiscono ignorare le grandi domande dell’esistenza.
Con ciò, sono al riparo da alcune angosce, ma gran parte dell’umanità si riduce a specie zoologica capace solo di far funzionare strumenti ed apparati digitali per la soluzione di problemi immediati e l’appagamento dei desideri indotti dal circo del consumo, di cui è spettatrice pagante e purtroppo plaudente. Vite, quelle degli smemorati, che somigliano a una sequenza di puntini colorati gettati a caso sulla tela. Nell XIX secolo si diffuse il puntinismo, una corrente artistica caratterizzata da pennellate fatte da puntini: la genialità dell’artista era trarre da quella tecnica un ‘immagine completa, volti, paesaggi, movimenti, impressioni coerenti. Al contrario, l’essere senza memoria riduce la vita a una congerie di attimi senza storia, puntini che non formano alcuna immagine né indicano un senso, atomi a carica neutra che si disperdono rapidamente. La smemoratezza evoca la dissolvenza, il baratro del Nulla.
L’elemento più sconcertante del cancellino globale è che, al contrario, viviamo nell’era in cui ogni nostro gesto, parola, atto, pensiero è controllato, catalogato e diventa un dato da inserire in un enorme database, le vite digitali tracciate per sempre: la nostra eternità. Mentre avanza l’oblio e l’indifferenza, il Dominio sa tutto, calcola, prevede, precede e determina ogni nostro attimo. I nostri puntini sono opera sua. Noi, senza memoria, vite fatte di minuscoli bit diretti da una Matrix con una capacità infinita di gigabyte, terabyte, petabyte.
Triste dovette essere la vita da smemorato di Bruneri (o Canella, chissà…), poiché la memoria è il salvadanaio dello spirito. Dove viene meno l’interesse viene meno anche la memoria, scrisse Goethe. La scintilla divina dell’uomo ha a che fare con il ricordo. Smemorati, non abitiamo a Collegno, ma sul ramo precario delle cicale.