La notizia è stata data con rilievo anche dalle tv. Qui la riprendo da Il Fatto Quotidiano:
“Napoli, 43 operai in nero segregati per ore in un locale senza finestre e wc: tra loro donna incinta e minorenni. Arrestato imprenditore
“Teneva 43 operai in nero segregati, tutti italiani, compresi una donna incinta e due minorenni. Chiusi per 6 ore in un locale angusto, privo di servizi igienici e finestre. Tutto per aggirare i controlli, iniziati per alcune verifiche sulla mensa, che in realtà non esisteva. Così un imprenditore di Melito, in provincia di Napoli, è stato arrestato dai carabinieri del Nas con l’accusa di sfruttamento del lavoro, sequestro di persona e intermediazione illecita.
“I lavoratori erano stati nascosti dietro una sorta di porta blindata che i militari dell’Arma hanno scoperto tutto l’ispezione, nel corso della quale sono stati rintracciati altri 14 operai irregolari che verosimilmente l’uomo non aveva fatto in tempo a nascondere. I carabinieri hanno sequestrato il laboratorio, dove si lavoravano pellami per note griffe di moda, contenente attrezzature per circa 2,5 milioni di euro e comminato sanzioni per 600mila euro. “Ho sbagliato”, avrebbe detto l’imprenditore ai militari. L’arresto, ai domiciliari, è stato chiesto dalla Procura di Napoli Nord e convalidato dal giudice per le indagini preliminari”.
fin qui la notizia –
Mentre ci rallegriamo per la liberazione dei 43 lavoranti dallo sgabuzzino, non riusciamo a non vedere che la sacrosanta azione della magistratura li ha liberati anche dal lavoro. E dal relativo salario, che per quanto basso e in nero, prima prendevano. Liberazione incresciosa mentre si avvicina il Natale.
Qualcuno si occupa dei 43 nuovi disoccupati campani? Non trovo notizie sui media locali.
E i 21 lavoratori in regola? Avranno la busta-paga? Difficile, se la Giustizia ha messo agli arresti domiciliari il datore di lavoro, un farabutto, certo, della specifica identità napoletana: quella che a forza di furbizia risulta in stupidità autolesionista – e che ora dovrebbe pagare anche 600 mila euro di multe – e “sequestrato” il laboratorio, pellami e macchinari, roba di pregio e di valore.
Ora, ho il timore che quei pellami e quelle macchine, sotto sequestro, ossia sotto-chiave dello Stato, finiranno per rovinarsi, arrugginirsi, essere rubacchiate e perdersi – insomma sottratte all’economia come le decine di aziende che la zelante magistratura sicula ha sequestrato ad imprenditori che sospettava di collusione mafiosa, e che – una volta assolti e prosciolti i padroni, dopo il calvario giudiziario – ha restituito loro: sotto forma di pugno di mosche. Catorci falliti. Qui sotto uno dei casi plateali in cui la “giustizia” togata ha distrutto imprese fiorenti e mandato sul lastrico decine di lavoratori per punire dei fantasmi della sua fantasia ideologica :
Dico forse che la giustizia non deve fare il suo corso? Senza avere alcuna speciale conoscenza giuridica, direi che – invece di sequestrare fabbrica e materiali di lavoro – una giustizia sensata li avrebbe consegnati in custodia ai lavoratori stessi. Secondo giustizia sono quei lavoratori ad avere diritto pieno ad essere nominati custodi di fabbrica e pellami: se non altro come garanzia dei loro salari non pagati, e dei contributi Inps che il padrone farabutto non ha versato per loro, e come i più naturalmente interessati a non lasciarli arrugginire. Invece che alle mani incapace dello Stato, lasciarle nelle mani di quegli artigiani evidentemente abbastanza capaci – benché sottopagati – dal soddisfare gli ordinativi di note griffes.
Affidate a loro l’autogestione della fabbrica. Forse mancherebbe loro un capitale operativo, ma una banca locale , visto il portafoglio-ordini, potrebbe fornirlo con un fido… Solo a scriverlo, capisco, fa ridere. Sono decenni che la banche non sanno più fare quel mestiere, ormai il loro “lavoro” consiste nel comprare Btp con i soldi stampati per loro da Draghi.
Ovviamente non so nemmeno se il magistrato che ha ordinato il sequestro avrebbe per legge il potere di darla ai lavoratori. Sono invece abbastanza sicuro che qualunque giudice britannico ed americano l’avrebbe fatto: perché il loro principio è la common law, ossia il sistema in cui le regole sono decise dalle sentenze secondo il caso concreto; metodo che discende direttamente dal diritto romano – o diritto naturale – più della dipendenza da un codice (in essenza, invenzione di Napoleone) e da norme tassative dettate da un parlamento, cui obbediscono i nostri magistrati. Naturalmente quel metodo dà al giudice una discrezionalità, che ai nostri è addirittura positivamente vietata. Forse perché per esperienza si sa che se si dà discrezionalità al giudice italiano, egli ne abusa?
“Nel Csm si fa carriera con metodo mafioso”. L’attacco di Nino Di Matteo
https://www.agi.it/cronaca/csm_di_matteo_carriera_metodo_mafioso-6188822/news/2019-09-15/
O è il contrario: l’abitudine di applicare leggi tassative, è quello che ha finito per rendere il magistrato nostrano psicologicamente irresponsabile delle conseguenze economiche, sociali, morali generali che provoca nella società? Un estraneo in secessione mentale dalla comunità, che ritiene di non aver bisogno di conoscere altro che “la legge” e fregarsene dei disoccupati che produce?
Perché evidentemente il piccolo caso campano dei lavoratori “liberati” dal posto di lavoro, richiama il più grande caso dell’ILVA di Taranto.
Perché sono i giudici di Taranto – non la Mittal, i giudici – ad ordinare lo spegnimento di uno degli altoforni; è per questo che Mittal chiede lo scudo penale, perché se fa funzionare l’acciaieria cade sotto i fulmini della “giustizia” italiana. E gli stessi operai, che l’altro giorno hanno annunciato che disobbediranno agli ordini Mittal di spegnere l forno 2, se lo fanno infrangono non il comando del padrone, ma l’ordinanza dei giudici.
I giudici di Taranto hanno deciso da anni che ILVA va chiusa, perché la salute viene prima del lavoro. Inutile opporre che i tumori e le altre malattie da inquinamento sono più alte a Lecce, che sta cento e passa chilometri più in là. Inutile portare l’esempio tragico di Bagnoli, dove la chiusura di Italsider non ha portato affatto al giardino odoroso di essenze e alberghi di lusso sognato dai verdi, ma a un deserto inquinato in modo irreversibile. Inutile. La pattuglia dei parlamentari grillini da quando è al governo persegue fin dall’inizio la chiusura dell’ILVA, e l’ha ottenuta, agitando le manette.
Un grande ausilio all’idea del famoso Procuratore: quelli a piede libero sono solo corrotti che non abbiamo ancora scoperto. Al fondo della quale fermenta il progetto di governare con le manette. L’aspirazione a controllare ogni telefono di imprenditore, di obliterare l’economia in prigione, perché inquina e corrompe ed evade. Manette al posto delle competenze che l’Italia non ha più, come sostituto della cultura –industriale o cultura tout court – che abbiamo perso; manette al posto delle risorse spirituali, manette al posto della dignità di sé che impedisce di fare – che so – il Palamara o il pellettiere napoletano sequestrato.
Manette, chiusura forni, e avrete l’aria pulita a Taranto, come spera la pattuglia grillina.
La senatrice Barbara Lezzi, l’ha detto davvero: “Taranto è una città meravigliosa che non deve vivere necessariamente di siderurgia, può rilanciare la produzione di mitili”.
Qualcuno ha fatto i conti. “Dopo aver consultato i dati dell’ ISPRA e dell’ Europarlamento, le ha fatto le “pulci” e questo è il risultato: L’ILVA nel 2018 ha fatturato 2.2 miliardi di euro.
In Puglia si producono annualmente 10.137 tonnellate di cozze nere I molluschi nero-arancio hanno un prezzo medio alla produzione di 1,33 euro per kg e un prezzo medio di vendita di 3,19 eu/kg generando quindi un valore aggiunto, more or less, di 1,86 eu/kg.
Per compensare il mancato fatturato dell’ ILVA, la città di Taranto dovrebbe produrre 689.655,152 Tonnellate di cozze, cioè 11 volte la produzione totale italiana e circa 2 volte e mezza la produzione totale dei Paesi UE”.
Il “teorema delle cozze” della senatrice grillina Barbara Lezzi
Senza contare l’inquinamento ambientale che produrrebbe in mare una simile intensiva coltivazione. Ma noi invece auguriamo alla senatrice di aver ragione. Che, spenta l’ILVA, Taranto ritrovi l’aria pulita di un secolo fa.
Così pulita che ai ventimila disoccupati e le loro famiglie finalmente sanissime, verrà un appetito gagliardo. Lo acquieteranno coltivando le cozze. Buon appetito.