Franco Cardini
Non è mia intenzione proporre un esercizio di ucronia o di “storia controfattuale”. Il problema è ad ogni buon conto quello già affrontato più volte dagli storici, in contraddizione con quanto si afferma secondo il logoro e conformistico dogma espresso da slogans del tipo “la storia non si scrive al condizionale” o “la storia non si fa con i se e con i ma”. E’, al contrario, solo ponendosi il problema relativo alle infinite possibilità che si sarebbero aperte dinanzi al passato quand’esso era ancora futuro se alcune cose accadute non fossero accadute, che si comprende e si apprezza sul serio – o, quanto meno, ci si dispone a farlo: perché in realtà è una fatica insondabile e infinita…- quel che davvero è successo. Non sono io a dirlo: sono grandi studiosi, come David S. Landes. Le cose accadute divengono perentorie e irreversibile solo dopo che, appunto, sono accadute: ma prima di allora nulla è scritto e tutto è possibile.
E ciò, sempre tuttavia ammesso (e mai concesso) che si possa davvero riuscire a ricostruire il passato: vale a dire individuare “verità” storiche in grado di coincidere sul serio con la Verità obiettiva; e che quest’ultima non sia invece, per lo storico, un’Athalanta fugiens che si ha il dovere d’inseguire con tutte le forze mantenendo tuttavia ben chiara la consapevolezza che il raggiungerla è per definizione un adynaton e che, se anche fosse possibile, sarebbe comunque indimostrabile. Serenamente armati di questa certezza e irrobustiti dal disincanto a proposito dell’inesistenza, nel processo (che non è “progresso”) storico di un fine e di una ragione immanente intrinseci, possiamo quindi abbandonarci al gioco del se e del ma: che cosa mai sarebbe accaduto se l’Italietta del 1914 avesse agito in coerenza con quanto si era sostanzialmente per quanto non senza alcune riserve impegnata a fare sino dal 1882, allorché il seguito all’occupazione francese di Tunisi dell’anno prima – che le sottraeva un’area d’espansione coloniale sulla quale essa vantava una prelazione – essa si accostò all’alleanza tedesco-austrungarica, che grazie alla sua adesione divenne quindi la Triplice Alleanza, non solo in quanto la mossa del governo francese aveva offeso e irritato quello italiano, ma anche perché il progressivo avvicinarsi della diplomazia di Parigi e di quella di Londra stavano configurando una sempre più stretta e rigorosa egemonia francobritannica sul Mediterraneo. Se Gibilterra e Suez erano dominate dalla Gran Bretagna che possedeva anche Malta e nella sostanza ormai lo stesso Egitto, mentre il Canale di Sicilia poteva nella migliore delle ipotesi venir gestito da un non facile partenariato francoitaliano, era ovvio che il giovane regno venisse venirgli mano qualunque robusta prospettiva di sviluppo in termini di potenza marinara sia militare sia mercantile: e allora tanto valeva mettere da parte almeno entro certi limiti gli attriti storici con Vienna e avvicinarsi anche a quest’ultima, a sua volta sicura alleata di quella Germania che fino dal ’66 mostrava all’Italia un volto amichevole e disponibile.
Ma – eccoci al punto – da che momento e da che “avvenimento” in poi, per rispondere alla domanda relativa a quel che sarebbe successo se le cose fossero andate altrimenti, è opportuno, o consigliabile, o necessario, abbandonare la strada dell’effettivamente accaduto (nella sempre parziale e imperfetta misura in cui è stato correttamente ricostruito) e imboccare l’arduo, arbitrario, pericoloso e affascinante sentiero di quel che avrebbe invece potuto accadere, e dei possibili risultati di ciò? Poiché dev’esser chiaro cha a un’unicità del veramente successo corrisponde una vertiginosa pluralità di quel che viceversa, pur avendo potuto essere, non è stato.
L’adesione dell’Italia a quella che con lei sarebbe divenuta la “Triplice” si fondava sul risentimento nei confronti della Francia e su una massiccia dose di Realpolitik ma era inficiata dall’ambiguità del perdurante reciproco rapporto di antipatia e di sfiducia tra Roma e Vienna. Tutto dipendeva e avrebbe dovuto continuare a dipendere dall’abilità e dalla discrezione della cancelleria di Berlino, autentico ago della bilancia e fulcro dell’ Alleanza. E il governo tedesco capiva quanto fosse importante che il cavallo italiano si sentisse lenta la briglia sul collo: per questo motivo guardò con indulgenza ai trattati del 1902 (in teoria segreti), mediante i quali l’Italia si faceva riconoscere da francesi e inglesi – a rispettivo differente titolo padroni di Tunisia e di Egitto – il diritto d’interessarsi alle regioni situate in mezzo a quei due loro possessi, cioè la Cirenaica e la Tripolitania.
D’altra parte nella penisola una parte cospicua del ceto dirigente e dell’opinione pubblica più colta e attenta guardava con ammirazione e simpatia alla spregiudicata politica di potenza della Germania guglielmina, tanto diversa dalla solida cautela del Bismarck. Quando nel 1904 si pose fine alle conseguenze dell’incidente di Fascioda, che per un attimo aveva dato l’impressione di compromettere irreversibilmente la concordia anglofrancese a proposito dell’Africa settentrionale, e si varò l’Entente cordiale, il Kaiser rispose con il plateale sbarco di Tangeri dell’anno dopo affermando di voler difendere a ogni costo l’indipendenza del Marocco, appoggiato con determinazione del cancelliere Bernhard von Bülow il quale riuscì a isolare Parigi e a far convocare, nonostante l’opposizione francese, la conferenza internazionale che si tenne dal gennaio all’aprile del 1906 ad Algeciras, nel Sud della Spagna. Il successo della diplomazia tedesca e l’efficacia della minaccia esercitata dalla sua potenza militare gettarono la Francia nello sconcerto. Ciò provocò fra l’altro la caduta del governo presieduto da Théophile Delcassé, che si era opposto fino all’ultimo alle pressioni esercitate da Berlino sostenendo che rispetto al Marocco esistessero “obiettivi” e “naturali” interessi francesi prioritari rispetto a quelli tedeschi o di altre potenze. A ben vedere si trattava di una tesi diametralmente opposta a quella adottata dalla Francia nei confronti dell’Italia in occasione dello «schiaffo di Tunisi»: ma si sa che sono i più deboli a cercare di far valere i principi della ragione e della giustizia, per quanto possa essere sensato riferirsi ad essi in tema di acquisizioni coloniali.
Tuttavia l’eccellente mossa del Bülow, premiata dal Kaiser con la sua nomina a principe del Reich, non ebbe alcun effetto pratico: anzi, senza guadagnare alcun vantaggio per la Germania si risolse in un accentuarsi del suo isolamento diplomatico, già anticipato dal riavvicinamento anglo-francese di qualche anno prima. L’esito della conferenza di Algeciras fu infatti nella sostanza favorevole alla Francia: che si trovò a contare sul sostegno inglese, sulla benevolenza statunitense e russa nonché sull’inattesa neutralità dell’Italia, che il Kaiser non senza motivo contava di avere dalla propria parte in forza della sua partecipazione alla Triplice Alleanza. Si manifestava in tale occasione un altro episodio di quella che appunto il Bülow aveva benevolmente battezzato – gli italiani gli erano simpatici e sua moglie era napoletana – come diplomazia dei «giri di valzer»: ossia la disponibilità italiana a svolgere in politica estera un’attività non sempre perfettamente allineata con quella degli altri membri della Triplice.
Ciò nonostante, l’energica e potente Germania del Kaiser andava riscotendo sempre più consensi in Italia, dove nel 1910 Enrico Corradini fondava l’Associazione Nazionalista Italiana alla quale aderì quasi subito lo stesso Gabriele D’Annunzio. Si trattava, per Corradini e per i suoi, di uscire dai limiti dell’Italietta imbelle che aveva perduto al guerra di Etiopia, digerito lo “schiaffo di Tunisi” e mantenuto i suoi connotati di paese agricolo e arretrato. I nazionalisti puntavano all’appoggio dell’imprenditoria e soprattutto dell’industria pesante e a un rinnovamento morale collettivo fondato sulla nicciana Volontà di Potenza. Con tale spirito si affrontò l’avventura di Tripolitania e Cirenaica del 1911, che in parte era un’orgogliosa e puntigliosa replica alla politica estera austriaca che nel 1908 si era incamerata Bosnia ed Erzegovina senza sentir il parere dell’alleata. Avversaria di qualunque progetto di espansione austriaca, l’Italia aveva già risposto firmando con la Russia il trattato segreto di Racconigi del 1910. Del resto lo scopo di quel trattato. Il mantenimento dello status quo nei Balcani, era un servizio obiettivamente reso al sultano e perciò gradito alla cancelleria del Reich, che a questo fine interpose i suoi buoni uffici presso la Sublime Porta anche per appianare la nuova crisi scoppiata in seguito all’avventura libica italiana.
Sappiamo come andarono i fatti: dopo il rinnovarsi della crisi balcanica che condusse all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e alla guerra, l’Italia mantenne in un primo tempo una riservata, prudente politica di attesa che la lettera del trattato della Triplice gli consentiva. In tale lasso di tempo la spregiudicata propaganda bellicista sostenuta dal “Corriere della Sera” e dal suo direttore Albertini (decorosamente contrastata dalla neutralista e giolittiana “Stampa” torinese diretta dal Frassati), l’equivoco interventismo dei socialisti moderati bissolatiani, il cinico appoggio di Mussolini e del suo “Popolo d’Italia” alla “quarta guerra d’Indipendenza” che si sarebbe a suo avviso fatalmente trasformata in guerra rivoluzionaria proletaria, la lirica infiammata e strapagata di Gabriele d’Annunzio ebbero la meglio sul neutralismo giolittiano, socialista e cattolico, sul papa e sull’ingenuo pacifismo delle masse cui si promise alla fine del conflitto il premio dell’agognata riforma agraria. Sappiamo che l’immane carneficina e l’illusione gattopardesca del voler tutto cambiare affinché tutto restasse come prima condussero alla vittoria e al duro risveglio dalle illusioni che le tenne dietro.
Eppure, se l’Italia fosse restata fedele alla Triplice Alleanza avrebbe forse potuto conseguire più facilmente, e con molto risparmio di capitali e di vite umane, ben più del “parecchio” giolittiano che si limitava a quello che l’Austria aveva obtorto collo promesso e che consisteva nel Trentino, in Gorizia, in Gradisca e nella trasformazione di Trieste in “città libera”. Non è vero che Francia e Inghilterra avevano risposto a tali offerte rincarando la dose e promettendo l’Alto Adige fino al Brennero, l’Istria e buona parte della Dalmazia. Tali promesse furono formulate solo nell’aprile del ’15, col trattato di Londra. Ma se l’Italia di Salandra avesse mercanteggiato meglio e in più direzioni, e se alla corte di Vienna il pregiudizio antitaliano della cerchia di Franz Conrad von Hötzendorf non avesse prevalso, le mire irredentistiche della demagogia interventista italiana avrebbero potuto svilupparsi in altre direzioni (in effetti, i nazionalisti corradiniani erano originariamente filogermanici). Vero è che al riguardo esistevano tradizioni solide, anche letterarie: ma è non meno vero ch’esse erano state sostenute e talora sopravvalutate “dall’alto” mediante un tambureggiare mediatico che aveva ipertrofizzato ad esempio l’irredentismo trentino e giuliano-dalmata mettendo in ombra o non valorizzando affatto – anche dati i rapporti del Piemonte sabaudo e poi con il regno d’Italia con Francia e Inghilterra – le voci di rivendicazione d’italianità che provenivano ad esempio dalla riviera ligure di Ponente (ch’era pur la patria di Garibaldi…), dalla Corsica, da Malta. Le cancellerie tedesca ed austriaca avevano pur provato a suscitare questi interessi, come suggerire all’Italia la possibilità di rimettere in discussione, dopo la vittoria della Triplice, di estendere il suo dominio coloniale – ereditando l’intesa con il sultano – alla Tunisia allora francese e all’Egitto allora britannico. Il re d’Italia era pretendente formale per via di eredità dinastica alle corone di Cipro e di Gerusalemme: rivendicando quel ruolo, e una volta ottenuta dalla Sublime Porta la delega di governo egiziana, l’Italia avrebbe potuto succedere a Sua Maestà Britannica come padrona del controllo sul Canale di Suez. Piena egemonia sul Mediterraneo centrale da Nizza a Taranto e su tutto il litorale nordafricano da Tunisi a Gaza, compresi Canale di Sicilia, Malta e Suez: non era forse una posta ben più appetibile del controllo sull’Adriatico attraverso il possesso di Trieste, come da Parigi e da Londra si prometteva a Roma, tanto più che una certa egemonia della potente flotta militare e mercantile italiana non solo sull’Adriatico stesso, bensì anche sull’Egeo, sarebbe stata assicurata dalla parnertship dell’Italia con le alleate Austrungheria e Turchia? Il nazionalismo italiano aveva già dimostrato, in occasione della campagna di Tripolitania e Cirenaica, di saper ben gestire le armi retoriche e propagandistiche di un esotismo italiano, fatto di Drang nach Osten in direzione del Vicino Oriente, di gloriose memorie romane (teneo te Africa), di sfruttamento dell’universo culturale levantino fatto in gran parte di tradizioni italiche e di orgoglio per le gesta delle nostre repubbliche marinare. L’astio reciproco nei confronti dell’Austria-Ungheria avrebbe saputo ben bilanciarsi con le inveterate simpatìe per la Germania guerriera e progressista e con il mai del tutto sopito rancore nei confronti sia della Francia dello “schiaffo di Tunisi”, sia dell’”Anglia avara” dei foscoliani Sepolcri, antenata diretta della “perfida Albione”: e tale strada propagandistica avrebbe potuto ben esser percorsa mobilitando con opportune scelte giornalistiche e territoriali le faconde mosche cocchiere come Gabriele D’Annunzio o Paolo Orano. In fondo colui che restava pur sempre il Gran Vecchio della politica italiana, Giovanni Giolitti, era già un neutralista convinto e non sarebbe forse stato impossibile spostarlo un poco verso posizioni interventiste “nell’altra direzione” se ciò gli fosse apparso conveniente; dal canto loro molti cattolici, per quanto non osassero dirlo, avrebbero preferito veder scendere in campo le armi italiane accanto a quelle della cattolicissima Austrungheria (sia pur con le sue modeste enclaves ortodosse, luterane e calviniste) che non a quelle della Francia e della Gran Bretagna massoniche; per tacer del detestato autocrate russo. Sarebbe bastato da parte dei diplomatici e dei servizi del Reich e del governo K.u.K. sollecitare opportunamente i perplessi, unger di marchi e di corone le rotative degli editori e dei giornali un po’ di più di quanto non facessero francesi e inglesi con franchi e sterline. E non c’era poi, infine, il modello dei socialisti tedeschi i quali avevano deciso che nel momento dell’emergenza la patria veniva prima della lotta sociale, a confortare e a spronare i socialisti interventisti di tutti i generi, da Bissolati a Salvemini a Mussolini?
Lo stesso andamento delle operazioni militari, tra ’14 e ’15, non si persentava affatto sfavorevole a un intervento di comodo a fianco degli Imperi centrali: l’offensiva francese nella Champagne tra febbraio e marzo del ’15 era fallita, alla guida dello stato maggiore austriaco il generale Conrad, odiato dagli italiani, era stato sostituito dal von Falkenhayn e i tedeschi avevano stravinto la titanica battaglia dei Laghi Masuri restando padroni definitivi nel febbraio del ’15 della Prussia orientale e facendo 100.000 russi prigionieri. Nel marzo successivo, gli austrungarici avevano conquistato Galizia e Bucovina. Che cosa si stava aspettando?
Se in quella primavera, o magari anche prima – all’indomani del trionfo dei Laghi Masuri, ad esempio -, l’esercito italiano avesse mobilitato al fianco dei paesi da trentatré anni alleati dell’Italia, turchi e arabi avrebbero potuto fare per noi dalla Siria e dalla Libia appoggiati dalla nostra flotta un buon lavoro a tenaglia contro francesi e inglesi: e forse la “rivolta nel deserto” di Lawrence d’Arabia non si sarebbe mai verificata, e ben diverso da ora sarebbe stato il destino del Vicino Oriente; poco gli italiani avrebbero dovuto impegnarsi contro serbi, rumeni e russi sul fronte sudorientale europeo in quanto le forze austrungariche, turche e bulgare, con un eventuale sostegno tedesco, sarebbero bastate. E la Grecia, offesa e preoccupata a causa dell’assenso francobritannico alle pretese russe di dominio degli Stretti e d’Istanbul all’indomani della guerra, non solo avrebbe potuto con il soccorso dei nostri rifornimenti e della nostra flotta sostenere bene il blocco mediante il quale l’Intesa nel 1916 volle piegarla a uscire dalla neutralità, ma addirittura sarebbe magari scesa in campo al nostro fianco: sarebbe bastato, da parte della Triplice, obbligare i bulgari a un passo indietro a proposito delle loro pretese territoriali sulla Tessaglia. Intanto, su un fronte occidentale nel quale gli austrungarici non avrebbero dovuto né contrastare gli italiani (e sarebbero perciò rimasti liberi di meglio lavorare sul fronte balcanodanubiano) né immobilizzare ingenti forze tedesche come quelle che dovettero invece intervenire sull’Isonzo nell’agosto del ’16 dopo lo sfacelo del fronte russo. Liberi dall’impiccio italiano, i soldati del Reich avrebbero potuto convergere sul fronte occidentale, la battaglia di Verdun sarebbe stata vinta e quella della Somme non ci sarebbe forse mai stata.
E allora, chissà. Magari ci sarebbe stata davvero, quella “pace senza vittoria” (di nessuno dei contendenti) che all’inizio del ’17 erano in tanti ad auspicare e perfino disposti a determinare: in tal modo magari gli Stati Uniti d’America avrebbero preferito la via della mediazione a quella delle armi e la loro egemonia mondiale sarebbe stata ritardata e attutita; e sarebbero stati risparmiati all’Europa due anni di guerra, agli italiani la vergogna e la mattanza di Caporetto, al mondo intero l’infamia e la tragedia dei trattati di Versailles, autentica “pace per porre fine a qualunque prospettiva di pace” e fonte di tutti i nostri mali per i successivi cento anni (…e oltre?), dai totalitarismi alla Shoah alla fondazione dei petroemirati arabi alla lunga crisi israelopalestinese. Perché, tanto per dirne una, Hitler non l’hanno inventato né i miti wagneriani né le fumose birrerie di Monaco: l’hanno sinistramente evocato i demiurghi di Versailles, che dopo aver vinto pretesero di stravincere suscitando un vasto fronte europeo di scontenti e di revisionisti e riducendo i tedeschi a quella disperazione che li avrebbe indotti, di lì a poco, a salutare nel piccolo caporale bavarese il loro nuovo Redentore.
Franco Cardini
dal blog di Franco Cardini
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