I CAPELLI SPORCHI DI ROMOLO E REMO

Dev’essere la vecchiaia, si diventa difficili in fatto di cinema. Non sono andato a vedere il film su Dick Cheney perché so che è fra i principali mandanti del   gigantesco crimine dell’11 Settembre, quindi avrei vissuto un film che  non lo accusi di questo come un’impostura. Così non andrò a vedere il  Primo Re.    E’ piaciuto a molti miei conoscenti. Ma ci sono due cose che fin dal manifesto mi danno francamente sui nervi,  e sento grossolani  insopportabili equivoci sulla prisca romanità.

La prima cosa: i capelli  del protagonisti. Sporchi e spettinati.  Come mai è venuta in mente l’idea che   Romolo, Remo e compagni andassero in giro con le chiome sporche, non mi capacito. Cosa vuole significare? Primitivismo, in qualche modo sommario?

In un film con pretese colte al punto da far parlare  gli attori in paleo-latino, è  un  fraintendimento insieme  etnologico  e antropologico,  smentito da tutto quel che si sa delle popolazioni preistoriche, dalle statuette delle  veneri che mostrano   acconciature  a treccioline accuratamente elaborate, fino alle realtà protostoriche: perché i primi  romani dovessero trascurarsi più dei babilonesi, che almeno 500 anni prima mostrano file di guerrieri dalle barbe e capelli accuratamente arricciati.

Ma non occorre guardare all’antichità.  Una banda di giovani guerrieri Maasai basta ad istruirvi quanta importanza, cura – ed ore  per sistemarla – essi  danno all’acconciatura.

 

I nativi americani sono un altro esempio.  Dalle trecce, alla rasatura a cresta   agli ornamenti di piume fastosi  di gala, è tutta una galleria  che testimonia l’importanza  della chioma fra i supposti “selvaggi”.  Mai e poi mai un guerriero si sarebbe presentato con la testa incolta che nel film vengono attribuiti ai romani.

Ma poi,  basta avere un figlio adolescente – o ricordarci della nostra adolescenza – per constatare  la cura ansiosa ed ossessiva, con gran consumo di fissatori, brillantine lucidanti e collanti, con ore davanti allo specchio per ottenere le debite ondulazioni e ciocche sapientemente “trascurate” che  l’adolescente maschio dedica alla propria chioma prima di una serata  “con le ragazze”. Evidentemente il giovane maschio sente l’esibizione della chioma come un essenziale carattere sessuale secondario, come in palco di corna del cervo:  equivoco da inesperienza,  prima di imparare che  “le ragazze”  non hanno alcuna esitazione a  preferire un maturo dalla virile calvizie, l’aria sicura  di sé e un  portafoglio fornito.

Per i giovani Maasai il pavoneggiarsi è parte dell’essere guerrieri che hanno superato le prove iniziatiche, fra loro,  scanzonati,  appoggiati alla lancia con la rossa veste sommaria:  gli sceneggiatori e il regista avrebbero potuto ispirarsi a  questi nilotici, alle loro movenze e  atteggiamenti . Del resto per antica e universale credenza magica, i capelli hanno una relazione  con la forza e  l’Io, ai  tempi di Roma  prisca un sacrificio umano poteva essere simboleggiato, e sostituito,  dall’abbruciamento di  una  ciuffo.

L’altra cosa che dà sui nervi è la postura che han fatto assumere agli  attori:  scimmiesca. Più esattamente, da gorilla.  A che scopo? Cosa vorrebbe significare? Che sono “estremamente primitivi”? Un omaggio al darwinismo da barzelletta per cui “l’uomo discende  dalla scimmia”?

Ora, bisogna vedere  nelle grotte di Altamira o di Lascaux   come stavano  ritti gli esseri umani.

 

E questo, diciamo, 34 mila anni prima che Romolo  tracciasse il solco della Roma quadrata e Remo lo saltasse, provocando  la propria uccisione. Perché Roma, per quanto antichissima, risale al 750 avanti Cristo – ossia  in epoca tarda delle antiche civiltà;  la cultura di Ebla era un regno che, nel 2350 a. C., già  teneva archivi di Stato in tavolette cuneiformi, ed era in Siria, presso quel Mediterraneo che faceva circolare uomini, merci, saperi.  Di più, essa  proclamava la sua discendenza da Enea, quindi era al corrente dei racconto dell’Iliade  e delle conoscenze mitiche internazionali; le sue donne sapevano filare e  tessere abiti migliori degli stracci  stinti  di cui sono rivestiti gli scimmioni  del film.

I fondatori di Roma recano tracce di  pantheon più antichi. Anna Perenna,  la divinità  degli approvvigionamenti  (“Annonae”) ormai ridotta ad una vecchietta buffa come una Befana proto-latina, è riconoscibilmente Annapurna,   la Parvati nutrice di Shiva: significa letteralmente “Piena di cibo”, ed “ann”-cibo, è   parola sanscrita.   La macchinosa pseudo-storia per cui i senatori uccisero il primo re Romolo,   lo  smembrarono e, nascosta nelle toghe ogni parte, la seppellirono in ogni quartiere,  non si capisce se non come eco di Purusha,  l’Uomo Cosmico metafisico  dei Veda,    il cui sacrificio e smembramento da parte delle divinità creò  ogni forma di vita –   antica intuizione di quel Logos  auto-sacrificato,  di cui Giovanni attesta: “Tutto  è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”.

La postura di iniziati

Insomma, quando Roma viene fondata esiste già  nel 750 a. C., asserisce Andrea Carandini, il massimo archeologo di Romolo, “un popolo progredito di agricoltori – il popolo dei Quiriti, già  organizzati in curiae come indica il loro nome” e già con re federati, i Silvii (la stessa vestale che dà la nascita ai due gemelli, Rea Silvia, allude a questa dinastia).  Ma  – per quanto riguarda il loro portamento corporeo – dobbiamo ricordare con Carandini che essi partecipavano dei “clan segreti che nelle comunità primitive presiedevano alle iniziazioni”.  Erano degli iniziati che avevano superato  un noviziato che li aveva fatto salire  dal bios allo spirito,  dalla natura selvaggia di “Lupi” guerrieri, lupetti,  (Remo mangia carni crude e interiora), o luperci, ad “adulti togati” accolti e pronti ai consualia e  alla civiltà.

Quando i bianchi nei primi contatti coi pellerossa sottolineavano l’estrema dignità  del portamento, la maestà dell’espressione e  la nobiltà dell’eloquio dei “selvaggi”, non sapevano  ancora di avere a che fare con iniziati, in cui la coscienza di avere guadagnato uno status ontologico superiore alla “natura” conferiva propria questa nobiltà che irraggiava, per  così dire, dal carattere,  dall’interno all’esterno.

Del resto non esisté nessuna cultura e popolazione antica  che non avesse riti  d’iniziazione.   Come non si ricorda mai abbastanza, l’uomo “primitivo “ era in realtà un metafisico: non viveva assillato dalla fame e dai bisogni materiali come piace credere a noi  ridotti alla secolarizzazione terminale e a “vivere di solo pane”, ma in un mondo dove le azioni “pratiche”  erano, essenzialmente, atti liturgici : dalla  caccia al discorso   nell’assemblea, dal rapimento della sposa all’uccisione del sacrificato umano, erano tutti atti sacrali.   Qualche cosa  di come i pellerossa vivessero in una realtà incantata, si intravvede   nel film “Balla con i Lupi”;   dove si mostra bene che ciascun membro della tribù, mentre è se stesso, si sforza anche di incarnare  “un tipo”:  il tipo del guerriero taciturno, il tipo del del Polemico-in-Assemblea, del Saggio sakem, dello sciamano acuto e talvolta folle.

Anche nella Roma prisca non poteva che essere così: i giovani Luperci praticamente nudi  irrompono nel Tigillo Sororio e  “le donne si spaventano”  per finta, mentre loro le “frustano” con  corregge di pelle e rami di fico maschio stillanti lattice ….Era una rappresentazione: più precisamente, una “sacra rappresentazione” di cui era denso il calendario  romano. Erano  insieme feste, mascherate, carnevali, e di estrema serietà   – questa connessione inestricabile di giuoco  e gara mortale  di cui resta un vago ricordo nel gioco della ragazzine (di prima della tv): il gioco del Mondo.. Dove si traccia sull’asfalto uno schema quadrato,   sormontato da un semicerchio; e le ragazzine vi saltano dentro sopra un piede solo, secondo certe regole complesse.

Rito di fondazione. Millenni dopo diventa un gioco.   Perché era anche questo, un gioco mortale.

Ebbene: forse Romolo tracciò con l’aratro di bronzo lo stesso schema quando fondò sacralmente la  Roma Quadrata;  il “mondo” di cui allude il gioco senza saperlo più, era il mundus  semicircolare, fossa o abitato di non iniziati – sotto il segno della Luna   (e dell’impermanente)  mentre la città quadrata, nobiliare, era sotto il Sole. E forse Remo saltò con un piede solo violando il muro,  per essere ucciso. Ritualmente, come vittima necessaria del sacrificio umano di fondazione? Carandini non lo crede, pensa invece che Remo fosse – o rappresentasse, recitasse – “l’eterno iniziando che non si integra nella comunità”  e per questo viene ucciso. Poco importa, in fondo. Quel che conta   capire perché vivere ed agire, per il romano prisco come per il pellerossa,  era un sacro recitare una festa – magari di sangue: perché  si viveva  meno come un “io” e individualità psicologica,   che come incarnazione di un  archetipo  perenne. “Non sono più “io” che vivo, ma un dio che vive in me”,   poteva dire parafrasando San Paolo.

Ancora 700 anni dopo la fondazione di Roma, nel 44 a. C., dopo secoli di conquiste  belliche, guerra civile, disincanto,  corruzione  politica e morale,  cinismo  senza scrupoli,  di  incredulità e secolarizzazione,   la forza dell’archetipo  agì in modo che noi  moderni non possiamo capire: nella festa dei Lupercales, il 15 febbraio,  il legato di Cesare  e tribuno della plebe Marco Antonio si fece lupercus e  – nudo, unto d’olio, atletico, con una maschera sul volto  – per tre volte offrì a Cesare la corona, che egli  rifiutò, si dice, perché la folla  non applaudì.

In questa terribile   – orribilmente ambigua –  sacra rappresentazione fra lo scherzo e lo scherno, la mascherata   e  la tragedia (dopo questa, i congiurati decisero di accelerare   l’assassinio del dictator) Antonio, il futuro amante di Cleopatra, reciterà  ancora una volta   il ruolo del faunesco “allattato dalla Lupa” (l’animale totemico  primario) l’irregolare anteriore alla civica  civiltà, che proprio  per  questo può conferire la sovranità primordiale, la regalità ormai tabù vietato nella Roma repubblicana.

Cesare cadde sotto i pugnali un mese dopo.  le Idi di marzo:  la festa di Anna Perenna,  che la plebe celebrava tra  carnevalate, mangiate nel bosco sacro e   canti osceni in onore dell’abbondanza. Se i congiurati scelsero questa data  come sacrale liturgia, non saprei dire.